mercoledì 30 luglio 2014

Eliseo Diego

ARCHEOLOGIA

Diranno allora: qui
era la sala, e là
dove abbiamo trovato quei frammenti
di fine terracotta, il luogo
del caldo e del benessere.
                                                  Verrà

dopo una pausa, mentre
liscia il vento le erbe inconsolabili;
ma neppure un respiro evocherà
per loro il riso, il “buona
                                   sera”, l’addio.

Traduzione di Francesco Tentori Montalto

da L’abisso e le sillabe, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983

lunedì 28 luglio 2014

Nicola Bultrini

SEMBRA UNA LINGUA STRANIERA

Sembra una lingua straniera
negli accenti e le vocali a strappi.
Ma suona familiare, forse per l’aria
i rumori profumati.

Eppure mi mancate tutti immensamente.
Ed è in queste zone franche che si riassume
l’amore. Non quello solenne delle promesse
ma l’altro, compiuto nelle attese.

Allora mi accontento di sapervi
nei consueti itinerari. Immaginarvi
sottratti alle furie del maltempo
nell’aria meridiana di lacerato vento
infine benedetta e fortunata.


Da La specie dominante, Nino Aragno Editore, 2014

venerdì 25 luglio 2014

Eloy Sánchez Rosillo

IN PIENA NOTTE

Mi svegliai in piena notte. In casa c’era
tanta luce. Sentivo, in corridoio,
andirivieni di passi affrettati, 
voci tristi e dolenti non sapevo per cosa, 
e, in lontananza, un lento mormorio 
di preghiere – sembrava – sussurrate tra pianto
e gemiti. Qualcosa di strano era successo, 
senza dubbio. Confuso, spaventato chiamavo
ostinato mia madre, ma al momento
non accorse nessuno. Insistendo, alla fine 
venne nella mia stanza, afflitta, la domestica. 
Dopo qualche carezza e qualche abbraccio,
la poveretta disse che mio padre era morto,
che era morto da poco, d’improvviso.
                                                                           Io avevo
sette anni allora, e mio padre, morendo,
l’età che adesso ho io. Sono passati
quarant’anni ma ancora respiro quell’angoscia. 
Mentre la mano scrive questi versi, 
io rivivo i terribili momenti 
di quella notte ormai lontana. Mamma,
su una poltrona, piange di sconforto
vicino al letto dove giace il corpo 
di mio padre. Io m’accosto e le do un bacio;
le dico di non piangere, non piangere. 
Quel pianto mi commuove anche più del cadavere
– così irreale e solo, così quieto – 
dell’uomo ancora ieri il centro della casa
che giocava con me, con mia sorella 
e mio fratello. La morte trasfigura, 
traccia con la sua presa all’improvviso
un enigma: riconoscevo appena
mio padre, in quelle spoglie misteriose,
ermetiche.
                      Io allora non capii.
Oggi lo so, quelle ore in cui presi coscienza
del tempo e della morte spezzarono l’infanzia:
fu lì che smisi d’essere un bambino.
                                                                        La casa 
si riempiva di gente. La presenza
di familiari e amici provocava continue
scene di dolore. La notte non passava.                                            
Sembrava non dovesse più arrivare l’aurora.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Las cosas como fueron. Poesía completa, 1974-2003, Tusquets, 2004

mercoledì 23 luglio 2014

Stefania Portaccio


INVETTIVA

                                                     per Andrea Zanzotto


su trascorrenti treni pieni 
di bocche
recede l’italiano nei suoi stracchi 
accostamenti
nei melodiosi calli dei suoi suoni

una faccenda che segni secca il mondo
o sfumata un millimetro
meglio in inglese meglio in dialetto dirla
che in questa lingua sdentata
che biascica di fasti 
in una casa ipotecata – io ero
sono, guardi, sterminata!

l’impervio?

una parola macerata a punta 
che sturi il piloro il tubo il cavo 
il capillare – unta  
che entri e dica
l’urgenza del sottile ponte 
che dica esatto cerchi l’intatto
senso e lo contamini mestando 
nella densa zuppa? 

una pozione
che tutti ne vogliano il segreto?

qui in pochi si mangia cibi ignoti 
si osa la magia si va nel bosco
e i pochi stanno sconosciuti 
tra loro – il galateo della scoperta è perso 
resta la radura di paura 
di scrivere in un verso
che abbia duro sapore e di veleno 
freccia scoccata sia

22 aprile 2007 


Andrea Zanzotto non è un poeta che mi ha fatto scrivere poesie, né mi ha scaldato il cuore. Ha acceso il ragionamento. Per esempio dopo aver letto In questo progresso scorsoio, conversazione con Marzio Breda (Garzanti, 2009), ho rimpianto di essermi disfatta dei Quaderni dal carcere. Il catastrofismo a ragion veduta di Zanzotto mi ha fatto pensare a Gramsci: avrei voluto controllare, per conto mio e a modo mio, se e come Gramsci avesse, riguardo alla società italiana, premuto in realtà più sul pessimismo della ragione che sull’ottimismo della volontà.
Sul destino della nostra lingua ho scritto invece una poesia triste, e ho sentito Il galateo in bosco tornarmi presente.
                                                                                                                                Stefania Portaccio



A una lettrice fedele di questo blog, che ci scrive: "Sono in un momento di difficoltà e la mia unica lettura da qualche settimana sono le poesie e le prose di Zanzotto. Non sono mai scontate".
                                                                                      La Redazione


lunedì 21 luglio 2014

Kenneth Rexroth

LETTERA A WILLIAM CARLOS WILLIAMS


Caro Bill,

quando ti cerco nel passato 
mi capita di pensarti come
un san Francesco disincarnato:
la sua carne come nuvola felice 
volava a unirsi a coloro che amava – 
asini, fiori, lebbrosi, astri – 
ma poi penso che somigli  
più a fra’ Ginepro che sopportava
offese e onori col sorriso 
gentile di un folle.
In qualche parte dei Fioretti
ci sei anche tu, perché sei folle, 
Bill, come il Folle di Yeats,
simbolo d’ogni beltà e saggezza.
Sei tu che tieni testa
a Elena in tutta la sua saggezza
e a Salomone in tutta la sua gloria.

Ti ricordi anni fa quando ti dissi
che dal Medioevo eri tu
il primo grande poeta
francescano? Turbai il regolare
svolgimento del pranzo.
Tua moglie mi credette pazzo.
Eppure è vero. E sei anche
“puro”, un vero classico,
ma senza clamori – molto simile
alle ragazze dell’Antologia.
Non come la stridula Saffo 
che per quella sua grandeur 
forse soffriva di endometriosi,
ma come Ànite, che dice piano
giusto il poco che basta
ricordare nel corso dei millenni.

È meravigliosa la tua calma,
il tuo modo di startene tranquillo 
di fronte al mondo, ai suoi 
luridi fiumi, pattumiere,
rosse carriole lucide di pioggia,
prugne gelate rubate dal frigo,
il merletto di Queen Anne, 
le margherite occhi del giorno, 
germogli sbocciati su strade fangose, 
pance maculate con dentro 
bambini, Cortes e Malinche 
sulla strada insanguinata, 
la morte del mondo dei fiori.

Oggi che i giornali sfornano
chiacchieroni, tu resti in silenzio,
ogni anno un fascio di silenzi,
poesie con niente da dire,
come il silenzio di George Fox,
che siede tranquillo sotto la nube
di tutte le mondane tentazioni,
accanto al fuoco, in cucina, 
nella Valle di Beavor. E 
l’archetipo, il silenzio di Cristo, 
che solo dopo una lunga 
pausa disse: «Tu l’hai detto».

«Io che sto per morire», 
dici in una recente poesia. 
Magari è solo una citazione 
classica, ma mi fa rabbrividire. 
Dove hai preso quella roba,
Williams? Ascolta. Verrà il giorno 
che una giovane donna 
passeggerà lungo il limpido
fiume Williams, là dove 
scorre attraverso una specie 
d’idilliaco paesaggio di ‛Nuove 
da Nessun Dove’, e dirà 
ai suoi bambini: «Non è bello? 
Si chiama come l’uomo 
che veniva qui a camminare, 
un tempo, quando si chiamava 
ancora Passaic e era 
un rigurgito di velenosi 
escrementi di fabbriche 
e gente malata. Lui, che era 
un grand’uomo, sapeva,
meglio di chiunque altro, 
quanto fosse stato bello, 
allora, nei Secoli Bui. 
E il bel fiume ch’egli vide
scorre ancora nelle sue vene 
come scorre nelle nostre, 
e nei vostri occhi, e scorre 
nel tempo e ci rende 
parte di esso, e parte di sé.
Questo, bambini, si dice
un patto sacro. E un poeta
fa proprio questo: crea 
patti sacri che durano per sempre».
     Con affetto e stima,
     Kenneth Rexroth.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

venerdì 18 luglio 2014

William Carlos Williams

IN PORTO

C’è pace, certo, là tra i larghi moli, mente mia;
tra le navi ormeggiate, sul fiume.
Va’, ragazzino timido,
e rannicchiati fra quelle grandi barche che parlano pacatamente 
tra loro. Puoi perfino addormentarti e al mattino 
essere sollevato a bordo di qualcuna –  
Al mattino si ricorda sempre tutto!
Ma di cosa malignano, sa Dio.
E Dio sa che non importa se non le comprendiamo.
Di sicuro è del mare, non può esserci dubbio.                     
È un suono pacato. Riposo! Per ora, questo voglio.
L’odore delle navi ci farà prender sonno.
Odore! È l’acqua marina che qui si mischia con quella di fiume –
almeno sembra – o forse è qualcos’altro – ma importa?
L’acqua del mare. Qui, com’è calma e quieta!
Come si muovono lente, a tratti, provando
le gomene che s’abbassano e gemono, in agonia.
Sì, non c’è dubbio, parlano d’alto mare.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991

mercoledì 16 luglio 2014

Jaime Gil De Biedma

A UNA DAMA GIOVANISSIMA, SEPARATA

Nell’anno che sei stata
sposata, seni belli,
trovasti amari i fiori
del matrimonio.

E una bella mattina,
impaziente, scegliesti
la bella libertà,
come uno scolaretto.

Vestita da pirata,
oggi al bar ti rivedi:
sei amanti per parte,
– Isabel, oh, bambina Isabel, – 

dritta su un tavolino,
raggiante, spettinata
da un vento solo tuo,
che comandi il festino.

E di chi, per volerti 
innamorare, finita la notte,
non sarai innamorata?
A me tutto raccontano.

Hai imparato, innocente,
che alla terza persona
sono i bei sentimenti
storie pericolose?

Che la sincerità
con cui ti sei offerta
loro non la capiscono,
bimba Isabel. Sta’ attenta.

Perché qui siamo in Spagna.
E perché sono uguali
i tuoi stupidi amanti
e il tuo marito bestia.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Antología poetíca, Alianza Editorial, 1981


lunedì 14 luglio 2014

Ana Blandiana

IL DONO

Tragico è per me il dono, come nelle antiche condanne.
Chi tra i miei avi peccò e io ne porto – con il lauro – la colpa?
Tutto ciò che tocco si trasforma in parole
come nella leggenda di re Mida.

E sono simile al re morto per la maledizione
di trasformare con la mano ogni cosa in oro
e morire di fame perché il pane indurito nell’oro
non può più mangiare, né rodere l'acqua.

Il cielo non posso più guardarlo – s’annuvola di parole,
come addentare le mele impacchettate nei colori?
Anche l’amore, se lo tocco, prende forma di frase,
povera me, povera chi con lode è condannata.

Povera me, povera, gli alberi non scuotono via foglie,
solo parole cadono in autunno vecchie e gialle,
gli alti monti li amano, ma vacillano i monti
sotto il peso di sovrapposti suoni conflagranti.

Vorrei adunare le parole in un solo mucchio
e incendiarle, vorrei spogliarne il mondo,
ma si screpolerebbe il corpo del mondo come
il bel principe della favola dalla pelle di porco.

E con esse arderebbe anche il mondo incollato
alle parole, dall’interno, come in un album...
Non so io staccarlo o staccarlo non si può
il mondo dal mondo delle parole mie di oggi?

Traduzione di Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni

Da Un tempo gli alberi avevano occhi, Donzelli Poesia, 2004

venerdì 11 luglio 2014

Eliseo Diego

LA CASA ABBANDONATA

Quasi in cima alle scale
ti sei voltato: nel vuoto lì sotto
il vento solitario
è in gran faccende, e la penombra è sporca
di oblio. Ma in alto, al piano
di sopra, la congerie
di vano sogno aspetta. E tu
vi entri, ti ci perdi? No, la mano
sulla ringhiera, indugi
e l’accarezzi. Adagio
abbassa ora lo sguardo e ascolta il torvo
ronzare della mosca che si affanna
contro il vetro impassibile: qualcuno
è sul primo scalino. Aspetta.
                                                        Guarda:
sei tu su quel primo scalino. E livido
ti stai guardando, l’anima negli occhi,
come fosse per sempre.
                                              Ed ecco, ora
non sei più sù
né sotto.
                 Ronza e ronza
sola infine la torva prigioniera.


Traduzione di Francesco Tentori Montalto

da L’abisso e le sillabe, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983

mercoledì 9 luglio 2014

Ciro di Pers

MISERIA UMANA

L’uom, che sì poche della vita ha l’ore
e ne conta a fatica una gioconda,
è di sospir di pianto un’aura un’onda,
piangendo nasce e sospirando more.
Aura ch’avviva un inonesto ardore
onda che sprezza una discreta sponda
aura che scuote una caduca fronda
onda ch’irriga un momentaneo fiore
e ben ch’aspiri a sempiterno vanto
per quelle vie che strepitose corse
appena un lieve suon mormora alquanto,
mentre l’uomo formò Prometeo forse
il duro fango distemprò col pianto
e co i sospir lo spirito gli porse.

Da Poesie, a cura di Michele Rak, Einaudi, 1978

lunedì 7 luglio 2014

Tommaso Campanella

SONETTO DEL CAUCASO

Temo che per morir non si migliora
lo stato uman; per questo io non m’uccido:
ché tanto è ampio di miserie il nido,
che, per luogo mutar, non si va fuora.

I guai cangiando, spesso si peggiora,
perch’ogni spiaggia è come il nostro lido;
per tutto è senso, ed io il presente grido
potrei obliar, com’ho mill’altri ancora.

Ma chi sa quel che di me fia, se tace
Onnipotente? e s’io non so se guerra
ebbi quand’era altro ente, overo pace?

Filippo in peggior carcere mi serra
or che l’altrieri; e senza Dio non face.
Stiamci come Dio vuol, poiché non erra.

Da Poesie, a cura di Giovanni Gentile, Sansoni Firenze, 1938

venerdì 4 luglio 2014

Sherwood Anderson

LE STORIE

Le storie sono persone sedute sulla soglia di casa della mia 
                                                                                         [mente. 
Fa freddo, fuori, e loro siedono in attesa. 
Io guardo a una finestra.

Le storie hanno le mani fredde, 
Le loro mani gelano.

Un racconto basso e robusto si alza e sbatte le braccia. 
Ha il naso rosso e ha due denti d’oro.

Una vecchia storia siede curva avvolta in un mantello.

Molte storie siedono solo qualche istante sulla soglia di casa, e se                                                                                             [ne vanno. 
Per loro è troppo freddo, fuori. 
La strada davanti alla porta di casa della mia mente è piena di                                                                                                          [storie. 
Mormorano e gridano, stanno morendo di freddo e di fame.

Io sono un uomo inerme – le mie mani tremano. 
Dovrei sedermi su una panca come un sarto. 
Dovrei tessere caldi tessuti coi fili del mio pensiero. 
Le storie andrebbero vestite. 
Esse gelano sulla soglia di casa della mia mente.

Sono un uomo indifeso – mi tremano le mani. 
Annaspo nel buio ma non trovo la maniglia della porta. 
Guardo a una finestra. 
Molte storie stanno morendo sulla strada davanti alla casa della                                                                                             [mia mente.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da The Triumph Of The Egg. A Book Of Impressions From American Life In Tales And Poems, An Electronic Classics Series Publication, 2007-2012

mercoledì 2 luglio 2014

Pablo Antonio Cuadra

BEVITORE DI TENEBRE

Da gran tempo chi fugge
dall’incendio del sole – nella storia
desolata dei deboli – va in cerca
nella buia urna del gufo
o nell’obliosa cisterna lunare
del duro e aspro liquore.

Bevitore di tenebre:
non prendere dimora in corpi
celesti, astri vani,
e non rifugiarti in terrestri
che le fauci dell’antro
chiudono alle tue spalle.
Anche l’immaginario brucia
col nero suo sole. Ma tu non temere.
Fa’ luce in te! 
                         Il mistero è reale.


Traduzione di Francesco Tentori Montalto

da Bevitore di tenebre, Edizioni Florida, 1983