mercoledì 31 dicembre 2014

Franco Fortini

LA PARTENZA

Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.

Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

Da Poesie scelte, Oscar Mondadori, 1974


lunedì 29 dicembre 2014

William Shakespeare

SONETTO CXXIX

Dispersione di spirito in turpitudine e vergogna    
è l’atto di lussuria e la lussuria, in atto,
è spergiura, assassina, infame, sanguinaria, 
selvaggia, estrema, bruta, crudele, non leale;
non appena appagata, subito disprezzata;
senza senno inseguita e appena avuta
odiata senza senno, esca inghiottita, tesa
per portare chi abbocca alla follia;
folle nel perseguire e così nel possesso;
dopo l’atto, durante, e nel volerlo, estrema;
un’estasi alla prova e provata una pena;
prima offerta di gioia, dopo un sogno.
Questo sa bene il mondo, ma nessuno sa bene
sottrarsi al paradiso che spinge in tale inferno.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Ladro gentile, Edizioni Il Labirinto, 2014

venerdì 26 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

ELEGIE SENTIMENTALI


V                                                                  


Dono splendido, il vino
placa i tumulti cura
le ferite dell’anima. Stordisce
come l’amore ma non giura non
tradisce. A questo giorno
finalmente sereno che finisce
brindiamo, amici. Il vino
dà sollievo al dolore e non inganna
non rende molle il cuore.
Da chi giura e spergiura
guardatevi. Begli occhi
belle bugie. Dolci parole
e giuramenti non valgono niente.
Io lo so. Ma è difficile
fingere che è finita che è finito
anche l’amore. Il vino
in questo non aiuta.
Anche se non mi pensi
più, sii contenta, 
sii felice. Per me
domando solo questo:
tenerti tra le braccia
ogni notte e ogni giorno
viverti accanto vivere
con te perfida ma 
– benché perfida – 
cara.


VI                                                                         


Amici, vi trattiene l’onda fresca
delle fonti toscane in questa calda
primavera che mi annuncia la fine.
Benché la brina sulle tempie ancora
non sia scesa a schiarirmi i capelli
né col suo passo greve la vecchiaia                        
sia venuta a piegarmi, sto morendo.
«Quando sarà compiuto il giusto tempo
della vita e già vecchio ai ragazzi
non narrerò che vecchie storie allora
serenamente morirò»: così
m’auguravo. Perché staccare l’uva
ancora acerba dalla vite, o i frutti
dalla pianta raccogliere immaturi?
Ma ormai da settimane,
mentre voi nelle fonti con la mano
pigra smuovete l’acqua
io sento di morire. E giunto al limite
della vita, non posso rivedervi,
lontani a festeggiare questa molle
struggente primavera. Ma dovunque
io sia, qui vivo o dove 
la sorte mi vorrà, voi, amici, siate 
felici e ricordatemi.


(Imitazioni da Ligdamo, Corpus tibullianum, III, 5-6)

mercoledì 24 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

ELEGIE SENTIMENTALI


III                                                      


Alba radiosa a me ti renda giorno
felice! Cosa serve aver sofferto
tanto se non ritorni?
Niente senza di te, niente e nessuno 
conta più.
Non contano ricchezze né palazzi
belli con bei giardini
e soffitti dorati o quanto basti
a stupire la gente: falsi beni.
Conta solo una vita
nostra benché modesta, stare insieme 
e insieme condividere le poche
gioie le molte pene per il breve 
tempo che ci è concesso prima 
che una lenta 
acqua ci porti sopra nera barca
per fiumi desolati.                     


IV                                                                    


Già sbiancava la notte
sul fiume azzurro che circonda
il mondo quando con l’ultimo sogno
venne un dio: «Chi t’è cara
quella che tanto affanno
ti costa cui dedichi versi
ama un altro. Ma le donne
hanno animo mutevole. Potrai
riaverla se l’aspetti
fiducioso. Non c’è
amore senza affanno
e pena ma anche un cuore
duro si vince. Pregala così:
“Torna e saremo ancora
felici”.
Mandale sempre versi
commoventi».


(Imitazioni da Ligdamo, Corpus tibullianum, III, 3-4)

lunedì 22 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

ELEGIE SENTIMENTALI


I                                                                       


È festa nelle strade. In ogni casa
si scambiano i regali. 
Io a colei che è mia 
e (se anche mi sbagliassi) molto cara
che donerò? Le belle
da belle parole si lasciano sedurre
e le avide dall’oro. Dei miei versi,
lei, che sola ne è degna, sarà lieta.
Un niveo libretto è il regalo
che le mando, pregiato dedicato.
Portateglielo voi, ragazze. Andate
a casa sua e porgetele a mio nome
l’elegante libretto. Lei in risposta 
vi dica se un amore uguale al mio
per me prova, o minore, o addirittura
se le fossi caduto dal cuore.
Fatele prima molti auguri poi
ditele sottovoce: «Questo dono
te lo manda colui che ti fu sposo
e adesso amico. Accèttalo,
perché tu gli sei cara più dell’anima
sia che resti sua sposa o solo amica. 
Sposa è meglio: nemmeno
la morte può impedirgli 
di chiamarti con questo nome».


II                                                                   


Cuor duro ha chi l’amata
strappò all’amante. Ma chi tanto strazio
potesse sopportare avrebbe cuore
di pietra. Anche un animo forte
riesce a piegare un forte 
dolore. Non so rassegnarmi
a perderti…


… di questa vita che mi ha dato
soltanto sofferenza, ne ho abbastanza!
Presto un’ombra impalpabile
sarò. Lei al mio rogo 
corra allora piangendo scarmigliata.
Dalla cenere nera tolga le ossa
e depostele versi preziosi
profumi d’oriente e miste a quelli
le sue lacrime. – Morto
è così che vorrei la sepoltura.
Però il motivo vero
della mia morte prematura svelino
questi versi: 
   
              QUI UN POETA RIPOSA                    
 IL DOLORE E LA PENA PER LA SPOSA
INFEDELE NE CAUSARONO LA MORTE


(Imitazioni da Ligdamo, Corpus tibullianum, III, 1-2)



venerdì 19 dicembre 2014

Gerard Manley Hopkins

LA FRONTE DEL PASTORE

La fronte del pastore, affrontando la folgore forcuta
ne riconosce l’orrore, la rovina e la gloria.
Crollano angeli, sono torri, dal cielo – una storia
di maestosi e giusti gemiti giganti.
Ma l’uomo – impalcatura di poche fragili ossa,
noi, che respiriamo dall’infanzia strisciante alla vecchiaia
ansimante, e il respiro è il nostro memento mori
quale basso è la nostra viola per i toni tragici?
Vive mano alla bocca, si svuota con vergogna,
lui! E sotto il lustro del nome per quanto potente, 
è solo un poveruomo, la compagna una donnetta.
Io che muoio queste morti, che nutro questa fiamma,
che… scruto in lisci cucchiai riflesso il teatro della vita, 
qui placo le tempeste, il mio fuoco e la febbre ansiosa.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003

mercoledì 17 dicembre 2014

Giancarlo Pontiggia

PONGO UNA CANDELA

Pongo una candela
tra i miei occhi e il muro: s’infiamma
lo scuro; s’inombrano
le porte delle stanze. M’incammino
oltre la scia di luce: raggia
l’ombra alle mie spalle, si svuota
l’incendio del muro. Così,
bastano pochi passi, e già t’inoltri
dov’è il confine dei tuoi occhi.

Da Lux nox, Alla chiara fonte, 2008

lunedì 15 dicembre 2014

Elio Filippo Accrocca

PONTE MILVIO

Non avevo mai visto i gabbiani
che s’aggirano a sud di Ponte Milvio
il più antico di Roma, il più meritevole
di questo elogia, alata compagnia
che gli altri ponti ignorano.

Nei cerchi e scie di voli s’agita un linguaggio
che pochi decifriamo, fatto d’aria,
appena il fiume e tu e forse i platani:
parole segni voci gesti, un rito ripetuto
nel tempo che qui sosta.

Ignaro il fiume sgretola parole,
eventi, nomi, storie di millenni,
per ornarsi del volo dei gabbiani...

19 gennaio 1968

da Roma così... per il Duemila, Istituto Nazionale di Studi Romani, 2000

venerdì 12 dicembre 2014

John Keats

ODE A UN USIGNOLO


I
Il cuore mi duole, e un pesante torpore 
opprime i miei sensi, quasi avessi bevuto 
cicuta o per effetto di un potente 
narcotico fossi sprofondato nel Lete,
ma non per invidia della tua sorte 
fortunata, anzi troppo felice per la felicità 
con cui, Driade degli alberi, tu, d’ali 
leggere, in qualche verde
melodioso boschetto di faggi ricco 
d’ombra canti l’estate a squarciagola.

II
Oh, un sorso di vino mantenuto a lungo
al fresco in un antro scavato nella terra,
che sappia di Flora e di verde campagna,
di balli, canzoni di Provenza, solare 
allegria! Oh, una coppa colma del calore 
del Sud, e del vero, rosato Ippocrene:
bollicine brillanti ne imperlano l’orlo,
la bocca si tinge di rosso!
Oh, bere e non visto lasciare questo mondo,
sparire con te dove si oscura la foresta!

III
Svanire, dileguarsi, e così dimenticare 
ciò che da sempre ignori, tra le foglie:
noia, febbre e inquietudine qui, dove 
gli uomini siedono ascoltando i reciproci lamenti
e un colpo ne scuote i radi ultimi grigi capelli; 
dove gioventù impallidisce deperendo e muore
e già il pensiero è dolore che opprime, 
cupo e greve sconforto, 
e bellezza vedrà spenti i suoi occhi luminosi
o il nuovo amore li piangerà solo un giorno.

IV
Andarmene! andar via! per volare da te:
non sul carro di Bacco coi leopardi,
ma sulle invisibili ali della Poesia,
benché la mente ottusa indugi perplessa.
Con te, eccomi! Tenera è la notte
e la luna-regina siede in trono: intorno 
ha le sue fate stelle; non c’è luce, 
qui: solo quella 
che dal cielo soffia il vento tra verdi 
ombre e avvolgenti viottole di muschio.


V
Non distinguo né i fiori ai miei piedi  
né fra i rami l’incenso soave, ma nel buio 
odoroso riconosco ogni fragranza
che il mese offre all’erba e alle siepi, 
ai selvatici alberi da frutto e alla rosa
muschiata, al biancospino e alle viole
che presto avvizziscono sotto le foglie, 
alla primogenita di maggio, 
la rosa in boccio già ebbra di rugiada, 
ronzante rifugio d’insetti nelle sere d’estate.

VI
Mentre scende la tenebra, t’ascolto; 
spesso con la morte che reca sollievo 
feci quasi l’amore, le diedi nei versi 
teneri nomi perché all’aria mischiasse
il mio quieto respiro; mai m’è parso 
più prezioso morire: in piena notte 
spegnersi senza pena, mentre l’anima 
intorno tu – in estasi – effondi.
Continueresti il canto; ma nella terra io
per il tuo requiem non avrei più orecchi.

VII
Non sei nato per la morte, immortale 
uccellino! Né generazioni affamate
ti calpestano: ascolto nella notte fuggente 
la voce che un tempo udirono buffoni
e re; forse il canto che nel cuore triste 
di Ruth trovò una via quando fra il grano
straniero piangeva per la nostalgia; 
lo stesso che incantò 
fatate finestre aperte sulla schiuma 
di mari perigliosi, in terre in abbandono. 

VIII
Abbandono! La parola è un rintocco 
di campana che mi respinge verso il mio 
io solitario. Addio! La fantasia, ingannevole
elfo, non può illuderci più come sa fare.
Addio! addio! Il tuo inno dolente svanisce
oltre i prati vicini, oltre il quieto ruscello,
sul fianco del colle, e ora giace in fondo
alle radure della valle accanto.
Fu visione o solo sogno a occhi aperti?
La musica è svanita: io veglio o dormo?


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Sull’indolenza e altre odi, Il Labirinto, 2010

mercoledì 10 dicembre 2014

Robert Lowell

L’ADDIO DI SANTAYANA ALLE SUORE

Lo spirito dà vita; ucciderà la lettera 
il pacifico eccentrico, se – volontà del cielo –  
trovò la Chiesa troppo buona per crederle? 
«Morrai come hai vissuto», risposero le suore. 
Mi chiedo come vagliano il mio scritto. 
O se non sono troppo attente per nutrire
a lungo l’illusione. Quando pensai che Paolo, 
l’uomo il più miserabile, pur predicando il vero 
avesse perso il segno a portata di mano, 
diedi al Vangelo senza fondo un’anima. 
Dal mio discorso prospettiva e cuore ebbe l’essenza. 
Morendo, immaginai che le mie suore 
azzurre oche bambine mi premessero addosso 
sibilando: «Offra Roma il suo migliore». 
   Fino a che Curzio in armi di sé riempì la buca.

Traduzione di F.D.

lunedì 8 dicembre 2014

Umberto Piersanti

UN FUOCO DI NOVEMBRE

un solo fuoco di novembre
acceso, un solo fumo
s’alza tra la bruma
lieve che scende
e si congiunge al mare,
questa è una terra
che conosci da poco,
estranea ancora,
ma oggi la più tua,
più d’ogni altra contrada
accompagna lo sguardo
ed il cammino,
e tu ricerchi i varchi,
li oltrepassi,
ma poi dentro ritorni
ch’altro non puoi
da questa pace grigia
ti distoglie un pianto
senza senso e senza requie,
il grido sconsolato
di quel figlio
che sempre in queste nuove
stanze t’accompagna
altri fuochi ricordi,
in altre ere persi,
in altri spazi,
fitti per tutti i campi
sopra ogni greppo,
e tu ci passi in mezzo
stretto alla mano
della giovane madre
che ti conduce

giorni di Feste Meste
dice la madre,
ma attorno a quei fuochi
vedi figure come sospese
e liete
e trasognate
e nella cena scura
sulla madia
l’acetilene luce
tra i formaggi
e il vino salta fuori
dalla botte,
come fa l’acqua al fosso
sopra i sassi
quanta gioia ostinata
dentro ogni bruma,
infanzia tu sei
eterna epifania,
se spesso poi ti punge
con lunga spina
quei fuochi ancora illuminano
la strada

Novembre 2013


venerdì 5 dicembre 2014

Salvatore Ritrovato

LE MANI SPORCHE

Le mani, oggi, girano inguantate,
ad altri passano la pena di questo paradiso.
Sotto il motore è il giovane assistente.
Il capo ha un camice stirato, inforca
occhiali: legge le operazioni, quali
pagherò a ore, ricambi a parte,
che cosa sconta l'assicurazione
e di routine si omette.
Io e lui, si vede, la stessa scuola.
Non sporca niente, il lavoro è buono
dice: gli utensili in vetrina, il bancomat
sul tavolo. Resiste solo
una macchia di grasso sul bancone,
racconta un’altra arte.

Io pure levo croste alle parole, ci provo.
Con le mani sporche tiro via l’ultima patina
che insidia, prima che sia tardi e inutile,
parlare di poesia, sceglierla per la vita.
Parole vengono alle dita da una corteccia
del mio cervello e non so cosa
le tiene sveglie, un cursore le getta
qua e là, davanti, le sposta.
Quindi le posa su uno schermo, la mattina.
E se in fondo resta un’impronta (sugo,
uova, briciole, caffè: gli avanzi
dispersi di altre generazioni),
cancellarla è facile, non rimuoverla.
Ci vogliono anni di silenzio.
Un’altra lingua si nutre di gorghi e varchi.
È come quella, mi mostra il capo
dietro l’officina, snob e sonnolenta,
la jaguar d’epoca. A chi non piacerebbe
averla. Consuma tanto, è lenta.
Da allora corre solo strade rotte.

Da L’angolo ospitale, La vita felice, 2013

mercoledì 3 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

LA GIOVINEZZA                                                             


La giovinezza passa presto
e quando si vorrebbe che tornasse – 
e con essa l’amore – è troppo tardi:   
scopri i primi capelli
bianchi e sai che non serve
tingerli né strapparli
uno ad uno, o rifarsi
il viso per nascondere le rughe.
Perciò finché fiorisce
approfittane! Goditela la tua
giovinezza, non perderla. 
Non farti lusingare 
da qualche gioiello
che un vecchio spasimante
ricco t’infila al dito 
o lega al braccio e al collo. 
I frutti dolci
godine dell’amore. Chi da sola
dorme fredda e nessun
uomo la vuole di pietre preziose 
e gemme non 
sa che farsene. Tu 
hai chi ti ama 
e amaramente piange 
la tua incostanza: non 
vantartene. 
                         
“Prometti di venire 
ma poi non tieni fede
alla promessa e io passo la notte 
nell’angoscia tra mille tormenti
odiandoti ed amandoti 
allo stesso momento. 
Però basta qualcosa che si muove 
che il vento tocchi una foglia 
morta giù nel cortile 
per crederlo, quel piccolo rumore,
il suono dei tuoi passi
per farmi tremare”.
                                   Così
piange e ti prega. Non l’ascolti.
“Chi con uguale amore 
non ricambia il tuo amore” 
gli dico “più infelice 
e crudele amore dovrà piangere 
un giorno”. 
                      Cerco 
di fargli forza ma non serve. 
Potresti
mostrarti brutta senza trucco 
coi capelli arruffati dal sonno 
e trascurata ugualmente
lui t’amerebbe. Nessun
incanto l’ha stregato. La bellezza 
non ha bisogno di magie. L’aver
toccato il tuo corpo l’averti
baciata tanto e aver unito fianco 
su fianco gamba a gamba
intrecciando: ecco quale
male l’ha vinto! 
                             Per questo non farlo 
soffrire troppo e non chiedergli doni 
oltre tutto se stesso che ti dona
già pienamente. Fra 
le tue candide braccia 
stringilo contro il seno
che ti stringe tremando
timidamente e lingua contro lingua 
guizzando umidi baci dagli e coi
denti segnagli il collo…
Solo così è felice.

(Imitazione da Tibullo, Corpus tibullianum, I, 8)




lunedì 1 dicembre 2014

Valerio Magrelli

RACCOGLIMENTO

              Uno diceva: io sono prevenuto contro me stesso fin dalla nascita.
                                                                                   Friedrich Nietzsche

Mia debolezza, debolezza mia,
ma che devo fare con te?
Ho cinquant’anni e tremo quando tuona,
e sbaglio ancora posto
come quando sbagliai banco all’asilo.
Ho un corpo trapunto da graffe,
il sonno come un campo di macerie,
la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi,
e in questo Grande Sfascio, l’unica cosa intatta resti tu,
mia ferita, mio Graal, codice a barre
di un estraneo che è leso, che è fallato,
costretto a essere me.
Mia debolezza, talpa del nemico,
creaturina indifesa che mi rendi indifeso,
il solo, vero premio della morte
sarà saperti morta insieme a me,
mio motore,
mio orrore,
mia consustanziale sconfitta.

Da Il sangue amaro, Einaudi, 2014

venerdì 28 novembre 2014

Mauro Ferrari

da I LIBRI DI PROCULO

MEDITA SULLA LIBERTÀ

Ma poi l’assurda libertà, gli spazi
finti che al volo si offrono
indagatore di abissi, i cieli
sfregiati e i fondali inquieti
diventano questo piacere ottuso
di un pasto di rifiuti,
un festoso sciamare a questi
campi d’abbondanza dove il fetore
è l’aria stessa, immobile, la notte
esala lucori di metano e il giorno
ti rivela senza volo, stordito e sazio,
riconoscente e nauseato.


DISSERTA FRA SÉ E SÉ SUL FUTURO DELLA POESIA

«Ma avremo Storia a sufficienza
per rimediare alla stoltezza,
o in chiostri ombrosi vagheremo
come druidi di antichi riti,
paghi di balbettare alle fontane
e miti sopravvivere alla spada?

Se il fuoco che ci colse sarà estinto,
l’umano combustibile bruciato,
il gesto quotidiano e antico
che logora la penna e la coscienza
avrà lo stesso avuto una ragione?
Ammireranno i nostri calchi
reclinati nel sonno della cenere...» 

Così pensava Proculo, crucciato,
davanti ad un boccale di falerno.


RECRIMINA SULLA STORIA

No, non avremo storia a sufficienza,
la pelle rugosa della pietra
rannicchiata sotto la tempesta
o la fredda ostinazione vegetale
che serba il pino nell’inverno
sotto il carico del gelo;
e i giorni caleranno come figli
degeneri da lungi a governarci.

Al giusto guasto della Storia
i piedi strascichino il corpo;
la fronte china al suolo,
il culto umiliato di dèi terribili.
Sarà soltanto Carne ciò che vive
e carne ciò che soltanto muore;
conscia degli aliti possenti
che sventrano le vele dell’Egeo.


Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014

mercoledì 26 novembre 2014

Mauro Ferrari

da I LIBRI DI PROCULO

PROCULO MEDITA SULLA STORIA

Nell’acqua fino alla cintola
controcorrente mirava gli acquitrini
livellati da una marea pietosa,
quando il suo sguardo si incagliò in un’ansa
da cui dedusse fanfo e canneti

splendida vita da carpe.

(Più innanzi, passata la pianura,
l’acqua tornava a rivoltare
bianca e impetuosa i ciottoli,
precipitando quindi
da una rupe di cinabro.)


È ASSALITO DALLE FURIE

Appollaiato su una cengia, ammirando
il volo planato dei gabbiani
senza sforzo esplodere nel controluce
e riapparire sopra il mare

per un istante ha immaginato
rostri che gli estirpano le viscere
e ai polsi catene eterne
(per quale colpa, fra le tante?);

solo un istante, che perdura un altro istante
quando, le palme sulle palpebre,
ritrova i rostri sulla retina, ed ali,

finché l’abbaglio torna compiacente,
il fuoco sferza la coscienza
e il vento spazza via le scorie.

Si stende madido, cullato
dall’urlo quasi umano degli scogli.

Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014

lunedì 24 novembre 2014

Mauro Ferrari

IL GABBIANO INEBRIATO

Il gabbiano inebriato
che ci volteggiava attorno
si è posato a pochi metri dalla riva
nell’acqua fredda del lago, scura:
se gli osservi l’occhio
riconosci lo sguardo soddisfatto

e l’ebete domanda dell’iride
stupita dalle montagne tutt’intorno,
quando la sua ragione monca
è tersi orizzonti che attendeva,
scirocchi e presagi d’Africa.


Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014

venerdì 21 novembre 2014

Domenico Vuoto

FOSSE IN TE, MIA GATTA

Fosse in te l’indolenza andrebbe elevata a virtù cardinale,
somma virtù dell’esistenza – la sua pigra cadenza – e il moto  
a eccezione, a stretta necessità – cibarsi, sfuggire all’ipotetico 
predatore, cacciare o finger di farlo, mia fantasiosa cacciatrice. 

Fosse in te, il cielo, la celeste volta non andrebbe mai oscurata
da satelliti aerei missili e altre amenità. Tu la vorresti levigata
nella sua purezza – libera – tutt’al più segnata qua e là da tenui
arabeschi -- uno scarabocchio d’ombra, una screziatura di luce.
                     
Fosse in te, Nina, l’intero universo andrebbe conformato ai tuoi 
bisogni – un pascolo di delizie, carne pesce a volontà e un 
                                                                                           [corredo 
di tenerissima erba. E la terra un cuscino o un seguito di giacigli 
dove attraverso un incessante sonno passare da un sogno 
                                                                                           [all’altro. 

La vorresti silenziosa, la terra – non certo muta – ma il silenzio 
non è di questo mondo, non è facoltà degli umani condannati 
a perpetuarsi nel rumore – dannati. Ti ci vorrebbe, mia gatta, 
un pianeta tuo, appartato – un silente giardino di 
                                                                               [contemplazioni.

Se fosse in te… il se non esisterebbe né il detto e il non detto,
l’interpunzione, il discorso diretto e indiretto, il monologo  
il sintagma, il fonema – la parola non esisterebbe. Forse ma qui 
è a te che mi affido – al tuo giudizio – non esisterei neppure io 
                   
(inedita)



mercoledì 19 novembre 2014

Elio Filippo Accrocca

IL CORSO

I

La ragazza che liscia
i capelli e poi sguiscia
tra la folla del corso,
ha rimorso di ritardare all’ora
d’appuntamento... Poi s’indora, pare
pentirsi, quando sfiora
una vetrina: odora
con gli occhi, vi s’infila, va a servirsi.

II

Questa città si sente
fluire tra la gente
che non ha più pensieri:
di ieri già dimentica, di oggi
non sazia. Se ti volgi, già la senti
dispersa sopra i poggi,
ai lidi già la scorgi
(in “1100” è un volo) lieta, immersa.

da Roma così... per il Duemila, Istituto Nazionale di Studi Romani, 2000


lunedì 17 novembre 2014

Fernando de Villena

EPITAFFIO

Non turbi la mia tomba il rauco vento
né la pioggia d’inverni successivi.
Per posare quegli iris sensitivi
invano cercherai il mio monumento.

Non voglio nella terra insediamento
e neanche nella pace degli ulivi
né stare accanto ad un mondo di vivi
quando finirà il senso di che sento.

Una celeste e tiepida sera estiva
le ceneri darai al mare latino
e sopra le sue onde prontamente

dissolte andranno in Grecia, Italia e Libia,
cercheranno un palazzo submarino
o troveranno quiete più ad oriente.


Traduzione di F. D.

venerdì 14 novembre 2014

William Shakespeare

SONETTO LXXVI

Perché di novità il mio verso è spoglio 
e ignora variazioni o cambiamenti?
Perché non guardo, seguendo la moda, 
a trovate del momento e a forme strane?
Perché scrivo di un unico soggetto 
e vesto l’invenzione col mio solito stile 
così che ogni parola il mio nome rivela
e mostra con l’origine la propria inclinazione?
Sappilo, amore dolce, che sempre di te scrivo
che tu e l’amore siete il solo tema;
il mio meglio è vestire vecchie parole a nuovo, 
quanto già spesi rispendere ancora.
Come ogni giorno invecchia il nuovo sole,
ridice amore le stesse parole.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da William Shakespeare - Ladro gentile, di prossima pubblicazione per Edizioni Il Labirinto

mercoledì 12 novembre 2014

Osip Mandel’štam

O CIELO, CIELO, TU MI APPARIRAI IN SOGNO

O cielo, cielo, tu mi apparirai in sogno!
Non può essere che abbagli del tutto
e il giorno bruci, come una pagina bianca:
solo un po’ di fumo e un po’ di cenere!

Traduzione di Gianfranco Lauretano

da La pietra, il Saggiatore, 2014

lunedì 10 novembre 2014

Gerard Manley Hopkins

AL SUO OROLOGIO

Mortale mio compagno, che del mio cuore in tumulto
il caldo battito col freddo battito accompagni, di noi 
per primo a chi mancheranno le forze e giacerà 
rovina, saccheggiato, un tempo un mondo d’arte?                            
Scandire il tempo è il nostro compito: una parte,
non tutto, poiché per mancare e morire fummo fatti –
un turno, e quello bene. In questo, ah solo questo 
è il canto che tutto conforta o la pena più acuta.

Volato sui campi, il giorno andato più nessun mattino 
reca con sé, dicendo ‘Era tuo’, ma uno nuovo, peggiore,
fino all’ultimo, il più breve…

Traduzione di Francesco Dalessandro


da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003

venerdì 7 novembre 2014

Sauro Albisani

COME LE FOGLIE, GIÀ DICEVA OMERO

a Gianfranco Palmery

Come le foglie, già diceva Omero,
proprio come le foglie siamo noi;
lo ripeteva nella Grande Guerra,
nella trincea della speranza, un fante,
con disperata allegria, si sta.
Ma non vediamo il picciòlo, e una brezza
ora calda ora gelida accarezza
la nostra bocca che non sa che dire.

Quell’alito ci fa rabbrividire:
oscilliamo, oscilliamo, si resiste
appesi all’invisibile, sospesi
al semaforo rosso, sull’ignoto;
seduti, muti, chiusi in una stanza,
o forse. O forse in bilico sul vuoto.

Da Orografie, Passigli, 2014

mercoledì 5 novembre 2014

Mario Santagostini

CODA

E come sarà il primo gabbiano
in volo sulle discariche?
Forse, una creatura
ignobile, e attratta dal pattume.
Ma disposta a tutto,
pur di raspare qualcosa.
L’amatissimo Ovidio vedeva i gabbiani
dai becchi ferrati.
Eppure, rimanevano in aria.


Da Felicità senza soggetto, Mondadori, 2014 

lunedì 3 novembre 2014

Philippe Jaccottet

PORTOVENERE

Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questo «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta. 


Traduzione di Fabio Pusterla

da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi, 1992

venerdì 31 ottobre 2014

Eloy Sánchez Rosillo

L’ESTATE  

Meglio non ricordare ancora i giorni
passati come carezze crudeli 
sulla tua pelle, sopra le mie mani.
Brillarono alla luce del desiderio i corpi 
ed ascoltammo insieme la voce ampia del mare.
Le fragranti ferite di quel tempo persistono
come dolori antichi recenti nella carne.
Io non voglio ascoltare il linguaggio avvizzito
delle cose bruciate. 
Ma è inutile negarsi, lo so. E non è possibile
rivolgersi a un presente fatto di solitudine
per cancellare il canto di un’estate, 
quelle braccia, e perché si consumi in cammino 
il fuoco che m’accende ancora non volendo le parole.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Las cosas como fueron. Poesía completa, 1974-2003, Tusquets, 2004

mercoledì 29 ottobre 2014

Kenneth Rexroth

DE SIGNATURA RERUM         

Con la testa, le spalle e il libro
all’ombra, al fresco; col corpo                                   
allungato in un bagno di sole,
vicino alla cascata, me ne sto 
a leggere Boehme, De signatura
rerum. Per tutto il lungo giorno 
di luglio, le foglie del lauro, 
nelle varie sfumature dorate, 
s’avvitano nella loro stessa ombra 
scura in movimento. Fluttuano 
per un attimo nel riflesso
del cielo e della foresta, poi ancora
vorticando lente affondano
nel cristallo profondo dello stagno
fino al suolo dorato da altre foglie.
Il santo vide scorrere il mondo 
nell’elettrolisi dell’amore.
Metto da parte il libro e attraverso 
l’ombra chiusa nell’ombra del lauro
snello, guardo foglie e tronchi   
pieni di sole. Lo scricciolo cova 
sotto la volta del suo nido di muschio. 
Un tritone è alle prese con una 
falena bianca che annega
nello stagno. I falchi gridano, 
giocano insieme sotto la volta 
celeste. Passano lunghe ore. 
Ripenso a chi mi ha amato,                    
ai monti che ho scalato, 
ai mari dove ho nuotato. 
Il male del mondo sprofonda. 
Il mio stesso peccato e la pena 
svaniscono come il fardello 
del Cristiano, e io guardo 
le mie quaranta primavere 
cadere come le foglie morte 
e l’acqua stillante sospesa 
in eterno nell’aria estiva.



Nel plenilunio di luglio, i cervi 
scalpitano nelle radure.                                  
C’è odore d’erba secca nell’aria,
e più debole l’odore di una puzzola
lontana. Stando ai margini del bosco 
a scrutare nel buio, in ascolto 
della quiete, un piccolo gufo,
con ali più silenti del mio respiro,
si posa sul ramo sopra di me.
Quando gli punto contro la luce,
i suoi occhi brillano come gocce 
di ferro e lui come un gattino 
curioso alza testa verso di me.
Il prato è luminoso come neve.
Il mio cane fiuta l’erba, macchia
nera in una macchia di lucentezza.
Attraverso il querceto dove
una volta c’era il campo indiano.
Là, in una ragnatela di luce 
e macchie scure, confuse nella foschia
blu, ci sono venti vitelle Holstein,
bianche e nere, stese in terra
tutte insieme, quiete, sotto 
enormi alberi radicati nelle tombe.



Quando lo tirai fuori dal fondo 
dello stagno, quel ciocco fradicio
sembrava pesante come un masso.
Lo lasciai al sole per un mese. 
Per farne legna da ardere,
poi, lo spaccai in tante parti, 
che sparsi per farle seccare 
ancora un po’. Quella notte 
sul tardi, dopo aver letto per ore – 
filosofi e santi sull’umano 
destino –, mentre le falene 
sbattevano contro la lampada,
uscii sulla veranda e attraverso 
l’oscura foresta guardai in alto 
isole oscillanti di stelle.
E subito vidi ai miei piedi,
disseminate sul fondo della notte, 
barre di tremula fosforescenza,
e sparse tutt’intorno schegge
di luce pallida e fredda, ma viva. 


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

lunedì 27 ottobre 2014

Francesco Dalessandro

MICROELEGIE


I

«Eccola, la tua bella, è pronta per 
la festa.
Due lampi gli occhi perché vi rifulge
amore 
e luminoso il volto. Neanche un dio
potrà incontrarla senza
voltarsi.

Qualunque cosa faccia con che grazia
la fa!
Libera i bei capelli e con le trecce
sciolte è bella. Li lega
e ricompone, è doppiamente bella. 
Veste di rosso e infiamma 
il cuore; ma se candide 
semplicissime vesti indossa tutta
ne arde.
Qualunque cosa indossi è la sua grazia
a far bella la veste ed ogni cosa
su lei è bella e tutto
le si confà».


II

Finalmente l’amore!
Lo dico a tutti senza
pudore. Perché avrei
più vergogna a nasconderlo.
Se stiamo insieme parlo
a voce alta: che tutti
sappiano quanto l’amo. 
La colpa è troppo dolce: 
fare finta di niente
e fingermi virtuosa 
come posso? Si dica 
che ci amiamo e che l’uno 
dell’altra siamo degni.


III                                                                  

1.

Miele segreto è amore
se mi guardi o ti penso.
Quando mi baci e abbracci
è fuoco che divampa e brucia.

2.

«L’uno all’altra in eterno.
Legaci l’uno all’altra 
e i lacci siano i baci
scambiati, il desiderio».

Io ti prego così davanti a tutti.
Lui in cuor suo: ha paura
che lo prendano in giro ma è sincero.
Se ti prega in privato cosa cambia?

3.

Nessun altro potrei
amare dopo te.
Anche tu nessun’altra
potresti amare, giuri.

A chi ti dice «è insania
l’amore» tu rispondi
«a un così dolce male
non c’è rimedio  

né io 
vorrei guarirne 
finché anche lei per me 
sta male».


IV                                                                   

Non è qui.
La passione per la caccia
me lo tiene lontano.
Non è stupido è folle
al brivido dell’unghia sulla schiena
preferire le spine
dei rovi che gli graffiano
le gambe!

Però le reti
porterei cercherei
tracce del cervo liberando il cane                         
io stessa se potessi
stargli accanto.

Luce mia, se davanti
alle reti abbracciata
con te potessi amarti e abbandonarmi
alla passione allora
allora, luce mia, sì che amerei
la caccia.


V

Che vuoto compleanno
senza vederti! La campagna è triste
come me. Roma annoia. Dove sei?


VI
                                                                    
«Non atteso il tuo nuovo compleanno 
è giunto. Un anno in più. Cos’è cambiato?

Con non indegni amici
festeggialo l’anno che finisce
se ti lascia anche un solo 
ricordo d’amore. 
Se no piangilo, sola. Dimenticalo presto».


(Imitazione da Sulpicia, Corpus tibullianum, III, 8, 13, 11, 9, 14, 15)

venerdì 24 ottobre 2014

Teh Hughes

IL FALCO NELLA PIOGGIA

Affogo nel tambureggiante campo, estraggo
un calcagno dopo l’altro dall’ingorda bocca della terra,
dal fango che mi afferra ogni passo alla caviglia
con la tenacia della fossa, ma il falco

libra in alto senza sforzo l’occhio fermo.
Le sue ali tengono il creato in una imponderabile quiete,
ferme come un’allucinazione nell’aria che scorre.
Mentre il vento percuote a morte queste ostinate siepi,

mi preme gli occhi, mi toglie il fiato, mi afferra il cuore,
e la pioggia mi incide la testa fino all’osso, il falco regge
il punto adamantino della volontà che guida come un nord
la resistenza del naufrago: ed io,

stordito, ghermito boccone di sangue che conta l’ultimo istante
nelle fauci della terra, tendo al supremo
fulcro della violenza dove posa il falco.
Che forse incontra quand’è l’ora la bufera

proveniente dalla parte sbagliata, sopporta, scagliato a testa in 
                                                                                       [giù,
che l’aria gli cada dagli occhi, le pesanti contee gli crollino 
                                                                                       [addosso,
l’orizzonte lo intrappoli; e, sfracellato quell’occhio tondo
d’angelo, il sangue del suo cuore si mischi alla mota.

Traduzione di Nicola Gardini

Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008 

mercoledì 22 ottobre 2014

Teofilo Folengo (alias Merlin Cocai)

BALDOVINA CASAM REMANET SOLETTA


Baldovina casam remanet soletta, nec imbrem
acquetare potest oculorum, abeunte marito.
Pensorosa manu guanzam sustentat et ecce,
ecce repentinae sua brancant viscera doiae,
namque novo partu miseram fiolare bisognat.
Argutos meschina foras mandare cridores
cogitur, ac ne sit compresa in pectore calcat
spicula quae nondum natus tirat undique Baldus.
Tantum invita fremit, nunc ve uno saepe fianco,
nunc altro se se (visu miserabile) voltat.
Non commater adest, solitum quae porgat aiuttum,
ancillas, servasque vocat, quibus ante solebat
commandare, velut commandat filia regis,
at vocat indarnum, quia tantum gatta valebat
respondere gnao sed non donare socorsum. 

Da Baldus, II, vv. 433-447

lunedì 20 ottobre 2014

SEGUENDO UN VERSO (ADDENDUM)

SEGUENDO UN VERSO (ADDENDUM)


I lettori abituali di questo blog ricorderanno che qualche tempo fa abbiamo seguito l’ultimo verso del perfetto e celebre sonetto del poeta barocco Luis de Góngora (1561-1627): Mientras por competir con tu cabello: un verso che porta all’estremo il vecchio tema del Carpe diem. Il 12 maggio abbiamo letto il sonetto in originale, nella traduzione di Leone Traverso e in quella più celebre di Giuseppe Ungaretti; il 14 maggio, le versioni di due traduttori più recenti, Loris Pellegrini e Giulia Poggi. Il 16 maggio abbiamo letto un’imitazione e una riscrittura. La prima, del nostro Ciro di Pers (1599-1663), successiva all’originale di alcuni decenni appena. Il verso viene posto a chiusura di uno dei sonetti che costituiscono la sequenza per Lidia, nel quale torna il tema oraziano. La seconda, della messicana Suor Juana Inés De La Cruz (1651-1695), è di un secolo dopo. Guardando un proprio ritratto per osservarvi l’ombra della morte, Suor Juana pronuncia una sentenza. «Il modello torna ad essere Góngora» commenta il poeta catalano Pere Gimferrer, «ma gli allusivi “terra” e  “fumo” sono soppiantati dalla visione diretta del “cadavere”. Maturando, il Barocco diventa più violento, visionario». Infine, il 19 maggio abbiamo letto una poesia, La spiaggia, del poeta spagnolo Eloy Sánchez Rosillo nella quale il verso che stavamo seguendo, a distanza di secoli subisce una trasformazione. 

Ora torniamo sul sonetto di Góngora per proporne altre due versioni di Ungaretti: la prima del 1932, che dunque precede di sedici anni quella qui pubblicata il 12 maggio, e molto diversa; la seconda, appena successiva, del 1948, è uguale a quella da noi pubblicata solo nei primi sei versi. Il resto è una revisione completa, col sigillo, appunto, dell’ultimo verso che perde una parola: ombra. «Ritocco decisivo»,  commenta ancora Gimferrer, «e tributo al proprio modo di dire». 
Una interessantissima comparazione delle due versioni qui proposte la fa Franco Fortini da pag. 133 a pag. 143 di Lezioni sulla traduzione, Quodlibet 2011. Da esso ci siamo permessi di trarre anche altre due versioni dello stesso sonetto: l’una di Gabriele Mucchi, anch’essa del 1948, e l’altra di Cesare Greppi del 1984.

Luis de Góngora

Mientras, por competir con tu cabello,
oro bruñido al Sol relumbra en vano;
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente el lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,                  
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
del luciente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fue en tu edad dorada                  
oro, lilio, clavel, cristal luciente,

no sólo en plata o vïola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

(1582)



(Versione di Ungaretti del 1932)

Finché vano emulo dei tuoi capelli,
l’oro cupo nel sole sia splendore;
finché sdegnosa la tua fronte bianca
veda fiorire i gigli alla pianura;

finché bramosi attragga più gli sguardi

il tuo labbro che il precoce garofano,
finché coll’orgogliosa sua gaiezza
vinca l’avorio, il tuo collo grazioso;

bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,

prima che ciò che fu in età dorata
giglio, oro, fuoco e cristallo lucente

non solo in viola appassisca e in argento,

ma tu più non sia tu, a fondo mutata,
e tutto non sia più, confusamente,

che terra, fumo, polvere, ombra, niente.




(Versione di Ungaretti del 1948)


Finché dei tuoi capelli emulo vano

Vada splendendo oro brunito al Sole,
Finché negletto la tua fronte bianca
In mezzo al piano ammiri il giglio bello,
Finché per coglierlo gli sguardi inseguano
Più il labbro tuo che il primulo garofano,
Finché con la sdegnosa sua allegria
Vinca l’avorio, il tuo gentile collo,
Bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
Prima che ciò che fu in età dorata,
Oro garofano e cristallo lucido,
Non solo in una viola tronca o argento,
Ma si volga, con essi tu confusa,
In terra, fumo, polvere, niente.