mercoledì 30 novembre 2011

Wallace Stevens


PARAFRASI LUNARE

La luna è madre di pietà e di pathos.

Quando alla fine esausta di novembre
La sua antica luce si muove lungo i rami,
Flebile, lenta, e si sostiene ad essi;
Quando il corpo di Cristo, umanamente
Vicino, pende appeso nel pallore e toccata
Dalla brina, la figura di Maria si ritira
In un riparo di foglie cadute e marcite;
Quando un’illusione dorata riconduce
Sulle case una lontana stagione di calma
E sogni confortanti a chi dorme nel buio –

La luna è madre di pietà e di pathos.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Collected Poetry & Prose, 89-90, Library of America, 1997


lunedì 28 novembre 2011

Gerard Manley Hopkins


L’ECO DI PIOMBO


Come serbare – c’è un modo, o proprio nessuno, in nessun posto noto, nodo o spilla, 
         nastro o stringa, laccio o gancio, chiave o chiavistello per serbare
la bellezza, preservarla bellezza, la bellezza, la bellezza… dal rapido svanire?
Oh, non c’è modo di lisciare le rughe, quelle profonde rughe in riga?
di scacciare con un gesto quei luttuosi messaggeri, silenziosi messaggeri, quei tristi 
         furtivi messaggeri di canizie? –
No, non c’è nessun modo, nessuno, no, non ce n’è uno,
né ancora per molto, come ora, potranno dirti bella,
per quanto tu faccia, per quanto, sì, per quanto potrai fare,
e è saggio ben presto disperare:
perciò inizia; perché no, non c’è niente da fare
per tenere a bada
l’età coi malanni dell’età, la canizie dei capelli,
pieghe e rughe, il mancare e il morire, della morte le cose peggiori, sudari tombe e vermi, 
          cedendo alla corruzione;
perciò inizia, su inizia a disperare.
Non c’è modo, non c’è, no, non ce n’è uno,
perciò inizia a disperarti, disperati, dispera
dispera dispera dispera.

(1882)


Traduzione di Francesco Dalessandro


da The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1970






venerdì 25 novembre 2011

Gianfranco Palmery


IL NOME FERITO

Sarà questo forse l’inferno: mantenere
una mente mondana e fatti d’aria
e fuoco vagare per il mondo invisibili,
con il carico fiammeggiante dei desideri
traditi e irrealizzati e contemplando
la propria opera incompiuta, abbandonata
diabolicamente a metà rimpiangere
la mancata divinità del compimento;
e in un vento che affascina e sferza
consumarsi di inutile ardore
per ciò che al mondo si è amato senza
perfezione e annientamento: sospirare
le azioni, le irraggiungibili figlie
del cielo, o le parole che restarono
un sotterrato tesoro. E così bruciare
senza lacrime
per il nome ferito che si lascia,
e poiché nessun fiato di verità
e pena alla vita svilita sopravvive,
con cuore umano disperare in eterno.


ANTIFONA

Oh cuore umano: tu solo fai del tuo inferno
la tua consolazione. Sono aria
che rianima quei macchinosi, risibili
venti infernali, soffi, folate d’un respiro
che dirada i sospiri arieggia il covo
soffocante dove oppresso vivi dal peso
dei progetti mancati delle opere
lasciate a metà, da polvere e oblio mutati
ormai in parodia di se stessi;
e il fuoco futuro inganna il raggio
infuocato del rimorso in questo
lento languire che arde, l’occhio rivolto
al cielo basso dei sogni dei pensieri
dissipati, vani vapori, nuvole
pigre ondanti sotto un sole diafano, bianco,
un fantasma
di sole, questa luce dell’accidia:
poiché l’obliqua finzione illude e attesta
la verità di una pena che è eterna, ora
e qui, nel presente, e senza redenzione.


da L’opera della vita, Edizioni della Cometa, 1986


mercoledì 23 novembre 2011

Percy Bysshe Shelley

ESORTAZIONE


I camaleonti si cibano di luce
e d'aria; amore e fama sono il cibo
dei poeti: se i poeti potessero,
in questo vasto mondo di pena,
anche loro trovarlo senza tanta
fatica - muterebbero mai come fanno
i camaleonti mutevoli che accordano
il loro colore ad ogni raggio
di sole, almeno venti volte al giorno?

Sono i poeti sulla gelida terra
come sarebbero i camaleonti, nascosti
dalla nascita in una grotta marina;
dove è la luce cambiano colore
i camaleonti: così i poeti dove
non è l’amore. Poiché è amore
camuffato la fama – e se pochi
l'uno o l’altra raggiungono, non giudicate
strano questo anelare dei poeti.

Ma non osate macchiare con ricchezza
o potere la mente celestiale,
libera di un poeta: se i luminosi
camaleonti si nutrissero d’altro
che di raggi e di vento, diventerebbero
subito terreni, come i loro fratelli
ramarri. Figli di una più fulgida
stella, spiriti che venite da oltre
la luna, rifiutate quei favori!


Traduzione di Gianfranco Palmery

Da Alla Notte e altre poesie, Il Labirinto, 2002


lunedì 21 novembre 2011

Lucio Piccolo


GUIDA PER SALIRE AL MONTE

Così prendi il cammino del monte: quando non
sia giornata che tiri tramontana ai naviganti,
ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola
e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento
al cantico d’ogni anno s’avvolge di bianco la crescenza,
trabocca dai recinti, l’acquata nuova ravviva
la conca, l’orizzonte respira – da lì
alito non soverchio di vento di mezzogiorno,
e allato ti sarà e ti farà leggero
compagno che non vedi, presente
per una foglia che rotola o un ramo che oscilla,
e sono i sandali il curvarsi dell’erbe innanzi . . . canna
non avrai né fiasca di zucca per la sete come
al tempo delle figure, dal vento nascono i sogni. Ancora
un indugio tiene l’estate, di dalie, di gravi
campanule troppo accese ai giardini bagnati,
guai se l’aria l’agiti un poco!
e vengono afflati di vane danze – ma
la risacca indolente nelle insenature
cullò già rottami sperduti di mesi,
è questo il tempo, prendi il cammino del monte
e non discordi il passo nella salita al soffio
tacito – se i rami svolta agli arbusti
rassembrano pendenti piume di tortore di beccacce.
Spiazzo dinnanzi e un fonte, e questo è l’imbocco
della salita, scalea montana che poggia
su arcate giganti in muraglia coeva
alla rupe e stipano i vani siepaglie
densissime di sterpi serpigni, rifugio
nell’ore della luce di quanto la notte
ronfa, erra, sfiora – l’acciottolato rurale
fa scivoloso il piede, ché ogni pietra circonda
il muschio ora verde ora arsiccio,
ai margini il muretto a secco sgretola
e sul pietrisco punge il cardo violetto . . . ma guarda
sopra l’altura, è vicina, non la tocchi con mano?
Pure se vi affiorano nuvole a ricci a corimbi
spume che nel celeste muovono i venti dell'alto –
subito si discosta la vetta, t’incombono sopra le nubi.
Silvestri le prime rampe, quando svolti alla terza
intorno t’è l’aria del monte come non altrove:
un liquore di fiori rupestri, d’antiche piogge e segreti,
e vedi calcare che un giorno immemoriale una stecca
segnò come creta a incavi sottili, a mensole, a nicchie,
e incontri già la capanna dell’eremita:
edicola o cella? senza copertura o riparo
squallida d’inverni, agli schianti
quì che il monte s’interna, di levante o scirocco,
lontano pareva di vimini, di carta –
pesta dipinta – s’asconde o vien fuori secondo
ch’è nuvolo o secco il solitario? L’eremita
chi lo vide mai? E noi pensiamo mattini
boschivi, anime di cortecce, veglie . . . ma così non è.
Forse erano suoi enigmi di schioppo e lanterna,
forse era lui a cercare nella forra angusta
il bulbo che alimenta la notte?
Solitudine trasparenza d’abisso? –
E le notti, le notti hanno un tarlo rovente
né giova scongiuro, le pietre della capanna
serbano ancora le losanghe scure che lascia
fuggendo il rosso devastatore dal manto . . . e questo
avvenne una volta: nell’ora
che su la città è una coltre in caligini,
e scende, né la ferma spranga o chiavistello,
e posa a ognuno la sabbia del sonno su le palpebre,
da un’intacca della rupe sprizzò la scintilla:
saio barba cappuccio, il fagotto d’orbace e stoppa
fu tutto ruote di fuoco sbocchi di fumo . . . l’ombre
dell’energumeno su le pareti di roccia
come di notturni avvoltoi in turbinio d’ali!
Più delle fiamme paurose. . . tardi dal mucchio
si partirono in volo dintorno maligne
pirauste, lampiri – e dalla pianura
di giù se alcuno vide il bagliore
pensò forse: accende il capraio a conforto
la fiammata, ora che autunno avanza . . .


Da Plumelia, All’insegna del pesce d’oro, 1979

venerdì 18 novembre 2011

Attilio Bertolucci


DISCENDENDO IL COLLE


I

A quest’ora al tramonto se a occidente
il cielo nuvoloso si piagava e diveniva celeste
a oriente il campo mietuto e saccheggiato
ardeva di tanti fuochi: era la città di Roma

nel tardo autunno e qui il Tasso a occidente
del mio cammino in Sant’Onofrio e a oriente Gramsci
in Regina Coeli patirono la bellezza di cieli
similmente piagati un tale ardere di fuochi

poi che un altro anno finiva assai
amaramente della loro vita entrambi
da reclusione e castità sorrisi mentre
più giù più giù nell’ombra che infittisce

e palpita di corpi abbracciati un commercio
prospera per cui non moriranno i borghi
da queste alture ancora ocra e rosa
prima della notte e di un lume di luna

tiepido come latte e portatore d’insonnia.


II

Splendi ottone risuona legno poi che
dicembre ha disperso la nuvolaglia e viene
Natale tutto il cielo è celeste
chiara la città come una rosa.

O pomeriggio trasmutato in sera o baci
nell’illuminarsi e perdurare scuro
di vicoli e piazzette, petali
umidi di una polluzione notturna:

questa notte sveglia, la rosa
e le cornamuse dolcemente nasali
che seguirono il sereno e i suoi
lempi, lontane. E fu

il marasma o la sua prova
generale: doveva accadere qui in un
inverno corruttore e languido
così che il sudore improvviso sembrasse naturale.


III

Lo stesso amaro profumo del sempreverde
e sapore di fumo in bocca per
sarmenti bruciati – è il lavoro d’ogni giorno
da metà gennaio per questi
giardinieri avventizi, uomini
di grandi vizi e d’una media miseria,
adulteri stempiati per cui
i minorenni s’equivalgono, amati
più della vita.
Qui dove ormai, e sempre,
la bellezza soltanto dà suono
sincero, metallo che corrusca
non si consuma alla saliva dei baci.
Ne riceve ferite discendendo
il colle inebbriante di sereni lontani –
l’orizzonte aperto perché le giornate s’allungano –
chi si credette temprato dai rigori
d’un’infanzia ostinata
nell’Italia e nell’Europa che ancora
avvolge notte e nebbia e stringe gelo delirante d’inverno.
Ma lascia che al braccio piegato
(piagato) d’una curva sbianchi
la facciata d’un ospedale
dove soffrono bambini, senti
gemere il sempreverde nel piccolo
falò terminale: non disperare.

Da Viaggio d’inverno, Garzanti, 1971

mercoledì 16 novembre 2011

Attilio Bertolucci


PICCOLA ODE A ROMA

                                                                       a P.P. Pasolini

Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell’azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà.

Tu eri viva alle nove della mattina,
come un uomo o una donna o un ragazzo che lavorano
e non dormono tardi, hanno gli occhi
freschi attenti all’opera assegnata,
nell’odore di legno bagnato e di foglie bruciate
o in quello amarognolo degli alberi sempre verdi
che crescono sui tuoi fianchi e si vedono dall’altura
per cui io scendo inebriato ai ponti
fitti di gente in transito, da qui silenziosi e bianchi
come ali d’uccello a pelo dell’acqua giallina.

Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate da geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all’altra, una persona all’altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.



Da Viaggio d’inverno, Garzanti, 1971




lunedì 14 novembre 2011

Francesco Dalessandro


Il prossimo venerdì, 18 novembre, è il centenario della nascita di Attilio Bertolucci. Voglio ricordarlo dedicandogli questa settimana: oggi con una mia poesia a lui ispirata e mercoledì e venerdì con due sue poesie dedicate a Roma, tratte da Viaggio d’inverno, uno dei più bei libri di poesia di fine Novecento.



OMBRE
                   
                                         per A. B.

Io dove vado poi che m’allontano
da voi nell’ora temperata e quieta
della sera? Con passo svelto elastico
(di voi chi m’accompagna ombre perdute?)
dove sono diretto mentre il silenzio
nella mia mente aggroviglia un nodo
di pensieri dolenti e irragionevoli
che invece di frenarmi mi sospinge
più avanti verso il buio della notte
quindi dove la notte si schiarisce
nel chiasso cittadino che ingombra
le piazzette notturne e le feconda
poi che nessuno più m’attende o cerca
o domanda notizie o le dispera?”


Per quale porta o suburbano varco
il tuo cuore spaurito fuggirà
dalla crescente onda che l’incalza
e ne minaccia al polso il sordo battito
costante anche se l’ansia lo sfida
e ne accelera il ritmo se avrai
attraversato in tempo la palude
limacciosa del sonno e dei suoi incubi
e sarai sceso a ristorarti all’acqua
Marcia dietro le mura alte e sovrane
della santa città che è silenziosa
e solitaria come te, eremita
che vai ora per vie nuove ma antiche
già prima d’intraprendere il cammino?


Da Lezioni di respiro, Il Labirinto, 2003

venerdì 11 novembre 2011

Francesco Varano


VI                                                 (per Alessandro R.)

Quando s’infittisce l’esperienza di perdere il ricordo
quando la giovane vita ripeta la vita già è un vedere
dal balcone alla stanza, non sembra, fasciati d’indifferenza,
è un campo di concentramento, poiché nessun altro
ci crede, lo percorriamo, abbandonati da solitudine
fino a sera o notte che inizi! Quando nell’acqua si avvolge
l’opacità della storia, i suoi sentieri uno a uno
nei loro smottamenti precipitano, dai balconi alle
stanze dei Palazzi, senza alcuna vergogna si mostrano
gli uomini del potere.

Il via vai della notte, negli arrivi della vita, ai
cancelli appoggiate le mani, fino alle ombre dei varchi
della metro, dai marciapiedi la sera scende sul volto
il canto che c’era, che sostava , che tu portavi
e la fragranza dei gerani nella carta del pane
avvolti, il canto sale ancora alla memoria dalle
stanze alle stanze della gioventù, s’inalbera un’ombra
molto fonda, e la primavera?
Interruppe l’esserti amico, come l’ultima stagione tua, che
come coloro che vivono a lungo con gli altri, si
protende per un saluto, salvandoci da ciò che cade,
che rapisca, o che nasconda; ritorna un tuo sorriso triste
a colorare questo mio camminare tra le merci quotidiane,
il giardino ricordato e il verde a sormontare altre barriere,
dove rifioriva la tua passione nel giro delle stanze su
via Ozanam, nel loro silenzio che non ti cancellava, ti
sfiorava il respiro dell’inquietudine, il respiro dell’acqua
che scendeva su piazza S. Giovanni di Dio, da dove
cominciavi a guardare il sorriso, un tempo diverso dal
tuo, gentile indugiava e celeste una ragazza non più
adolescente, illuminata sul volto d’attrice, nella sua inquadratura;
un tratto oscillante più volte s’infoltiva nella tua mente,
piegandoti verso di lei, nella bianchissima aria di Settembre,
era un tratto gentile verso cui ti distendevi nel viale irrequieto
sorvolando l’estremità della piazza, sopravvivevi al sonno,
alle canzoni lontane, al tardo smarrimento, vagante verso la calma,
la bellezza che irrompeva nel tuo mattino, giardino, ricordo,
fuori dalla tua ansia, per un istante eri libero in quella attesa dal dolore di
sempre, in quel mattino in cui mi raccontasti che
quel giorno sarebbe passato alla tua storia personale, in cui
vestita di verde e bianco si avvicinava agli ingressi della vita
misurando incanti meno dolci e tristi, con in mano la
sceneggiatura da studiare per il film successivo.


La mia va fino a dimenticare la sua identità, a perdersi
la vita, se si apre qualche squarcio,
è un’antica primavera dei popoli, e la sua cenere scende
e un giorno sul tuo volto fino a ridurre il mio (a) quasi
ombra, uno scatto, improvvisa ombra interrotta sulla
soglia, quando si profila per noi un’intesa di parole, di
accenni, di saluti, quasi ci si sgola: un antico accordo
mentre sali mi chiedi di registrare Lord Jim. Poi da
un mese a un altro un vuoto, che ci lasci liberi di fuggire
da soli per qualsiasi tempesta persi negli incanti veloci,
quando il colore delle chiacchiere ha perso il suo essere
era vivo e mi ricorda l’ultimo anno che è passato, era
una vita che non cerca altro, desidera abituarsi lei
agli anni che si sono accumulati sulla polvere, prendendo a
prestito carezze come dolcezze per tenere in esercizio
un’anima senza risorse nel reale mondo e tempo e colore
e più tempo e più colore e meno di uno e più dell’altro
mescolando con le labbra sillabe nuove per l’orchestra silenziosa
e nascosta e sente il male senza senso il mondo reale.

da La Beltà Brillava, raccolta inedita, 2010

mercoledì 9 novembre 2011

Alessandro Ricci


GIULIANO *


Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio, lisciate
dal levante che le invadeva, le issava
in un mare di chiaro: 
                                         là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi –, pensò alla consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
                                Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la colpa
del destino che li attendeva, ma non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.


* Giuliano l’Apostata. All’alba della disfatta subita dai persiani nella battaglia del 25 o 26 giugno del 363 d.C.

Da I cavalli del nemico, Il Labirinto, 2004

lunedì 7 novembre 2011

Luigi Fenga


TESTAMENTO

Io, Giuliano, l’imperatore, avvolto
dalle sabbie di Persia, sotto cieli
di fuoco, vedo incombere la notte
sul mondo che si inchina al nuovo dio
degli eserciti, io, l’ultimo filosofo
con gli occhi fissi al sole, cieco agli occhi
di quei ciechi che cercano il riscatto
fra le ombre, io disperdo nei millenni
l’impero senza fine e all’avvenire
restituisco il carro ed i cavalli
mentre attendo la freccia che tormenta
Zenone il saggio e penso agli imminenti
secoli bui, io, già di pietra, immobile,
in questo tempo supremo, nell’ora
in cui morendo snebbiano i misteri.


Da Molti dei, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 1987

venerdì 4 novembre 2011

Brad Leithauser


UN DORMIENTE RUMOROSO

                    I. 1958

Il dormiente rumoroso
nell’altra stanza è mio
Nonno il cui russare fa su & giù
su & giù come una lampo. Più profondo

ancora più profondo per il buio
il suo respiro pesante s’arrampica
& discende
come la luna come il giorno

come Cinny che io volevo
tanto che restasse
qui con me in questo letto troppo grande
per me solo. Ma Cinny quando lasciai che se ne andasse

sparì nel buio
col ticchettio delle sue zampette
e le piccole fessure
del naso nero aperte

e neanche un brivido lungo la schiena
per ciò che là fuori forse
l’aspettava. È stesa nella notte, lo so,
tranquilla su qualche pavimento

con il corpo acciambellato
in un anello sicuro, nel centro
peloso del quale la sua testa
entra perfettamente.

Per portafortuna, lui tiene nella scrivania
un centesimo con l’effige
di un indiano e l’anno
della sua nascita, il 1898.

Mi promise di cercarne
uno anche per me, un portafortuna
del 1953.
Qualunque cosa

ci sia di sbagliato
so che c’è bisogno
d’essere accorto, forte
semplicemente

benché un respiro simile
sia troppo grande per questa casa
dove dormiamo insieme,
io & lui, ma io non dormo.


                    II. 1983

       Ricordare adesso,
Dal limite delle memorie
Più precoci che sprofonda,
I rumori notturni di quell’uomo,
Mio nonno, vuol dire sapere
Che anche a cinque anni si possono
Accettare rassicurazioni come
Se fossero credibili mentre
Si continua oscuramente a rimuginare
Le cose – a vedere quanto presto
La mente impara a trovare un accordo
Con la complessità dell’ignoranza,
Mentre si comincia a sapere

       Che non si sa.
Ora, qualunque fosse in realtà
L’ignota causa che quella notte
Mi piazzò nel letto di quel gigante
(Una malattia in famiglia?
Qualche vecchio inaudito litigio?
O più probabilmente un disastro sorto
Dal fuoco dell’immaginazione eccitata
Di un bambino… ), essa passò
Come notte che sfuma nell’alba,
Inosservata e alla fine senza lasciare
Traccia mentre se ne andava alla deriva,
Lontana dalla mente. Scomparsa –

       Come l’esistenza
Di tutti gli altri in quella casa. Certo,
Anche mia nonna era lì che
Dormiva o, come me, che fingeva
Di dormire, ma non ne ricordo
La presenza, o chi quel giorno
Avesse giocato con me, o cosa scomparve
Il giorno dopo. No, nel ricordo
Ci sono solo due persone
Completamente sole: nonno e io,
Uniti dalla distanza
Di una notte che scende
E si rialza di continuo.

       Eppure, dati i suoi
Limiti, ancora ci stupisce il potere
Che ha la memoria di restituire
Il senso di timore di quel bambino,
O il modo con cui prende un vecchio
Morto ormai da circa vent’anni
E ce lo riavvicina, abbastanza
Da poterne sentire il saliscendi
Lento del respiro, proprio
Come se il suo fosse ancora
Quel tipo di sonno – rotto
Da grugniti meditativi e rauchi
Rantoli di assenso – dal quale
Potesse essere ancora svegliato.


Traduzione di Aldo Rosselli e Nail Chiodo



da Between Leaps – Poems 1972-1985, Oxford University Press, 1987