venerdì 30 settembre 2011

Massimo Gezzi

QUATTORDICI FOGLIE

Stamattina la luna ha un fumo pallido intorno
e i parabrezza sono carichi di gelo:
le mani cavate dal tepore delle tasche
si arrossano, a graffiarli. Restano quindici foglie
di castagno appese ai rami: quattordici,
quando un refolo più lungo le agita
e ne manda una in terra: cielo concluso,
appuntamento a qualche mese per vedere
di nuovo la piccola mano riformarsi,
dov’era poco fa. Magari fosse questa identica
logica a guidarci: persa una vita
che faceva meno vuoto il nostro corso,
aspettare qualche mese, scrutare negli angoli
o sotto le lenzuola, con pazienza registrare
gli indizi di una nuova comparsa:
i capelli sul cuscino, lo spigolo dei libri sistemati
con cura, il profumo del caffè,
quando siamo ancora a letto.
E invece non c’è nulla,
e nemmeno la foglia che in aprile
tenterà la prima luce sarà uguale
a quella precedente. I rami cuciranno
i loro vuoti in silenzio, non impiegheranno
troppo tempo per capire.


Da L'attimo dopo, Luca Sossella Editore, 2009

mercoledì 28 settembre 2011

Giancarlo Pontiggia

PENSIERI, IN AUTUNNO

Fin qui gli sciami ronzanti, le volte
porose del cielo che si dilata, si espande
nella sera che brucia, e l’ombra
di azzurre mattine. Ma ora nuvole
basse e ferrigne, e acque
diluvianti, e il tempo
che s’impigra in scure
scure anse, e si dipana, lento,
ma le forme del mondo che si cela.

Quanti autunni hai guardato, e quante
foglie incartocciate, che danno
addio ai loro rami, quante,
mentre Orione ruotava intorno
allo zenit, e il mare, freddo,
rumoreggiava? Siamo tutti

ospiti della vita – vedi –
per poco. Il riflesso della luna
sulle rive algose di Poros, i cippi
delle strade di Smirne, che contasti,
la notte, nello specchietto retrovisore,
la stirpe fuggente dei sogni
che il bimbo, avido, inseguiva, dove

siete? Niente è più misero della vita
che si perde, e dei suoi
malinconici trofei: l’estate
era immensa, e ora, ovunque, è
solo un algido vuoto. Chi è solo
resta solo; stridono le porte contro
la pietra del tempo, e l’angelo
del tedio siede alla tua tavola,

in silenzio. Mi senti, lettore
benigno e sperduto? Le senti, le ore
tristi, che non passano, che battono contro
un cielo basso, anonimo, umido?
Accendi, allora, se puoi, un fuoco,
e, ascolta il crepito dei legni,
che gemono. Altro sfarzo vantava
la luce di ieri; un ardore
di brace ora si consuma
nelle stanze chiuse, di rame.


Da Bosco del tempo, Guanda, 2005

lunedì 26 settembre 2011

William Shakespeare

Le poesie di questa settimana - oggi un sonetto di Shakespeare, mercoledì la poesia di Giancarlo Pontiggia che apre la sua raccolta Bosco del tempo e venerdì una poesia del giovane Massimo Gezzi dal suo libro L'attimo dopo - sono il seguito ideale di quelle pubblicate sotto il titolo comune Generazione di foglie. 


SONETTO LXXIII

Quella stagione in me tu puoi vedere
quando foglie ingiallite, nessuna, o poche, pendono
appese ai rami tremanti contro il freddo,
spogli cori in rovina dove dolci cantavano gli uccelli.
In me vedi il crepuscolo del giorno
che svanisce a occidente dopo sera,
che porta via pian piano notte nera,
simulacro di morte che nel riposo ogni cosa sigilla.
In me vedi quel fuoco che sfavilla
e langue sulle ceneri della sua giovinezza,
letto di morte in cui dovrà spirare
consumato con quel che lo nutriva.
Questo tu percepisci che rafforza il tuo amore,
per meglio amare ciò che presto dovrai abbandonare.



Traduzione di Francesco Dalessandro

William Shakespeare, Complete Sonnets and Poems, Oxford University Press, 2002


venerdì 23 settembre 2011

Beppe Salvia

IL PORTATORE DI FUOCO

nudo smagrito le ossa forti
corre gli altipiani e si nasconde

tra fronde, dove scintilla quel lume,
e le foglie ne primeggiano l’ombra;

inseguito assomiglia l’inseguitore a
nulla, notte non offre specchio,

il suo volto, da nulla apparso, là
dove biforcano a sella i rami
d’una sacra querce, è sottile

e non ha occhi come stelle
bocca che meravigli un sorriso,

e spavento e meraviglia
al fulmine che breccia le stelle –

l’ampio gesto che atteggia lontano
il braccio a ricevere l’ampio
lontano frastuono di nebbie
su chiarità d’acque, nelle acque

quel gesto non specchia
altrimenti che schegge scagliate

da dita che han l’unghie
lambite dal filo d’un chiaro lucore;

sull’acqua chetata a disappunto
le bianche spille del fuoco

rapiscono un crepito, ramifica
il loro disegno sottili cristalli,

le valli s’accolgono al varco
d’un lago, le cime spezzate
dei monti d’intorno, alle rive
circolari accrescono creste

poi cespi rovéti e l’intera
foresta –



avvertono i passi, e il profumo
di siepe avvicina quel fiato,
una cagna e i miti ospiti
dei nidi, trema il manto
della gazzella, lascia cadere uno spigo;

non corre il portatore di fuoco
s’è riconosciuto in quel luogo

e riposa il dolore ove nasconderlo
è stolto;

nel vuoto più sotto una rupe
s’apre la chiara lontananza
del mare, e su quelle altre rive
gli abitanti –

abitarono dove non s’accorse
divieto, il più gramo, o fu povero
d’offese il vento lavico, e abitarono
propria riconoscenza dove poi
abiterà l'inganno, abiteranno

il borgo amico e abiteranno
il borgo pavido, come abitarono
il crinale di schisti ove nascondersi,

abiteranno un tempo là
dove abitarono non visti,
non visti e infine fatti arguti
menzogneri d’un limite

malinconici gli abitanti –



l’alba respira, ammirando, le nebbie
s’animano, adesso corre
lasciando l’orma brillare
il portatore di fuoco, solitario

animale, animano le sue peste
mille abbagli, iscrizioni egli
incontra sulle vie, nei sentieri
le sue orme una brina, scintille
di ghiaccio, sfavilla –
adesso la preda ha preso vigore

attraverso deserti pochi fiori
piccole corolle rosa dell’erica
sono le faville, il portatore
di fuoco demone alato erede
d’ogni dono, regnante ignoto
s’è fermato;

ascolta nelle mani lo strepito
le prime parole avvezze
al cieco dimorare,

                             e sulla terta gocciano
                             da quelle mani i petali
                             raccolti, le rosee scintille,

                             e quella terra ha nuova
                             tetra vitalità,

                             dimenticato è il fuoco –



sotto una roccia a tetto, e fuori
è nuvolo, lampeggia, un fuoco,

un nido raccolto splende,

il soffio che entra nel coperto
spuma le faville, un vortice

le brilla contro l’urlo aperto,
il dispiegato paese di bufera –


(1980)

da Poesia verso..., a cura di Luigi Amendola e Francesco Dalessandro, CCRS BNL – Sezione Culturale «Arti e Scienze», 1982

mercoledì 21 settembre 2011

Isaac Rosenberg

SPUNTA IL GIORNO IN TRINCEA

L’oscurità si sgretola.
Il Tempo è lo stesso vecchio druido di sempre,
una sola cosa viva scavalca la mia mano,
uno strano sardonico topo,
mentre colgo un papavero dal parapetto
per metterlo all’orecchio.
Buffo topo, ti sparerebbero se sapessero
le tue simpatie cosmopolite.
Dopo avere sfiorato questa mano inglese
farai lo stesso con una tedesca,
e certamente presto, se ti piace
attraversare il verde che fra loro riposa.
Sembri ridere nell’intimo mentre superi
occhi attenti, belle membra, atleti superbi,
meno fortunati di te nella vita,
legati ai capricci dell’assassinio,
allungati nel ventre della terra,
i campi squarciati di Francia.
Cosa vedi nei nostri occhi
al ferro e al fuoco scagliati
urlanti attraverso cieli attoniti?
Quale tremito – quale cuore atterrito?
Mentre cadono, continuano a cadere,
i papaveri con radici nelle vene dell’uomo,
il mio dietro l’orecchio è al sicuro –
appena un po’ sbiancato dalla polvere.

Giugno, 1916




Traduzione di Francesco Dalessandro



da The Collected Works of Isaac Rosenberg, Chatto and Windus, London, 

1984




Il poeta inglese Isaac Rosenberg (1890-1918), uno dei cosiddetti “war poets”, è quasi sconosciuto in Italia e perciò pochissimo tradotto. Questa poesia fu scritta in trincea e, come molte altre, inviata per posta ad amici e parenti. La traduzione di essa e di altre poesie è uscita sulla rivista Pagine, Anno XXI, numero 63, gennaio-aprile 2011.







lunedì 19 settembre 2011

Camillo Fonte


ELEGIA A PENELOPE

Ti recai lo stupore d’un ritorno
tardivo, nel quale non credevi:
troppo lunga l’attesa. Da un paese
straniero recavo, straniero
io stesso, temesti,
nuove menzogne e lacrime.

Ma no, cara, sognavo
la quieta forma delle braccia
tue, la bianca tua mano… Se tessevo
anch’io tele d’inganni, se provavo
gli altri e me stesso al gioco multiforme
della vita non era per capriccio.
Qui, amore, il rondone,
volando addormentato sopra cumuli gonfi
di nuova pioggia, qui tornava, al nido
di primavera.

                           Poi la tua, la nostra
stagione ci vinse. Spendemmo
senza risparmio tutti i nostri giorni,
lieti di farlo e fu dolce la notte
scivolare nel sonno come ladri
dopo il furto d’amore. Quanto tempo
ci fu negato (e forse ci negammo)?
Di quanto ci restò non fummo avari.

Così l’amore, il nuovo, il ritrovato
nostro amore quietò le vecchie smanie
mie d’avventura. L’ordine,
la preziosa abitudine fu il vanto
della nostra vecchiaia, fu la gloria
che ancora posso offrirti, oggi, domani.

(inedita)



Camillo Fonte è nato il 1 giugno 1951 all’Aquila; vi è morto, di sua mano, il 21 giugno 1987. Era insegnante di lettere in un istituto tecnico per ragionieri. Poeta conosciuto appena in ambito locale, è del tutto inedito. Quest’elegia è tratta da un poema, L’isola, un’odissea riscritta modernamente, al quale egli stava lavorando al momento della morte e del quale la sola prima parte era conclusa; di una seconda, non restava che il progetto. Mi è sembrata la risposta a quella di Luigi Fenga pubblicata venerdì scorso.

venerdì 16 settembre 2011

Luigi Fenga

Da "MONOLOGO DI PENELOPE"

                                                                                                         Ad Anna Menichetti

Sei tu, torni davvero, e da dove, da quanto
tempo manchi, di quanto tempo fa è la tua voce,
allora correvo per strade piazze, sola, o con te
con il mondo, luce dovunque, divorando
cieli, ora cammino, talvolta rido di me,
attenta al marciapiedi, il mio respiro sibila
se affretto il passo, ho grate di prigione
nel petto,
e sei di nuovo qui, sei proprio tu,
l’atteso, il pensiero di fuoco, com’eri lieve
tenero quando narravi storie sovrumane,
rapimenti, notti che non conoscono alba,
mi davi sopori blandi, non il manto di cuoio
del sonno che opprime,
e sei di nuovo qui,
in mezzo a queste cose, cieca, che non so più
distinguere, polverose, pachidermi imbalsamati,
mi circondano mute, anch’io tra loro ferma,
sedia davanti al tavolo, statua...

da Le amorose fiamme, S. Marco dei Giustiniani, Genova, 1999


mercoledì 14 settembre 2011

John Keats


SFOGLIANDO PER LA PRIMA VOLTA L’OMERO DI CHAPMAN




Molto ho viaggiato per reami d’oro,


e molti ricchi stati e regni ho visto,


molte isole a occidente ho costeggiato


che devoti ad Apollo i poeti governano.


E spesso ho udito di un’estesa terra


che un accigliato Omero ha in dominio.


Ma il puro sereno non ne avevo respirato


finché non ascoltai Chapman, chiaro


e forte: mi sentii come chi osserva il cielo


quando un nuovo pianeta nello sguardo


gli nuota o come Cortez mentre guarda


fisso, con occhi d’aquila, il Pacifico –


i suoi uomini incerti si guardano tra loro –


in silenzio, a Darién, da un alto picco.





Traduzione di Francesco Dalessandro

John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972  






lunedì 12 settembre 2011

Nicola Bultrini

QUATTRO POESIE

*

La pioggia ha portato nuvole grosse
e bianche che scivolano lungo la tangenziale
e i prati della periferia. Ti ho salutato
ancora baciandoti la fronte col gesto
assonnato e caro sulla porta. Furtiva
sulle scale un altro sguardo, come di chi
non sa se dire, rimanere, attendere
un’ora nuova al giorno. La vita
ha un osso dentro, che lentamente
si piega lungo il corpo. Un fossile
di nervi, aggrovigliati ai sentimenti.
Quel nostro parlare e tradire le voci,
all’alba, le pigre e vergini emozioni.


*

Il cortile silenzioso ospita ombre
in tagli perfetti nell’arco di un giorno.
Remoti i rumori della strada e radi
talvolta dai caseggiati. Il muro antico
di mattoni imperfetti, come un vecchio
figurante, sorregge la scena. Le foglie
secche, i vasi di terra, e vuoti.
I panni stesi, talvolta, l’unica impronta
di un transito animale. Un cenno d’aria,
appena a mezzogiorno. E tutto torna normale.
Ma questa pure è la mia verità di pietra,
di morbidi suoni e colori. Lo spazio
chiuso di un’età infantile. Tutto il suo
sognare, il dire, il modesto fare.


*

L’estate fa la solitudine di paglia
bruciata, che sale dai campi. Roma
vive di questi silenzi, d’asfalto e popolari.
Muore Roma di questo vento che solca
gli animi e lascia sui vecchi un’africa
di pianto. Malinconia lontana, tempo
che secca la pelle e rende soli,
più della morte, più della virtù agostana.
Le cicale invadono la piazza nella
controra e la ragazza al bar le segue
con lo sguardo, fingendo di fumare.
Tutto è necessario, come il tempo
che sale, l’inverno italiano.


*

Deserti cortili, respirano ostili
nell’afa che viene e quieta. Dici
della speranza, che è l’ultima
eppure muore un giorno anch’essa,
tra muti piazzali che spirano vuoti
nell’assolare delle cicale. Quanta
città della memoria che ci consola
negli occhi e s’abbandona. Ah, Roma
di luce e pianto, sorda che disperare
fai la fede di domani. Morire, rispondo,
è vivere nel lato sconosciuto.


Da I fatti salienti, Nordpress 2007

venerdì 9 settembre 2011

Domenico Adriano


Forse perché dentro di me


Forse perché dentro di me
avevo deciso un tuo ritratto,
eccoli nei prati del pensiero
mille e più mille papaveri rossi.

Sotto il cielo di tanta bellezza
sono quasi cieco, ma vedo
meglio adesso, si tratta infine solo
di affinare, come in poesia, l’arte

di togliere, lasciandosi guidare
da ogni fiore se dentro ognuno
di loro c'è già la tua figura,
semplice e perfetta come il fuoco.

Da Papaveri perversi, Il Labirinto, 2008

mercoledì 7 settembre 2011

Guillermo Carnero


LA POESIA NON SCRITTA

Mi piace contemplarti quando esci dalla doccia
come fanno con Susanna gli anziani della Bibbia.
Dalla porta socchiusa ti spio quando avvolgi
dentro l’asciugamano la coscia o la caviglia,
il seno traboccante oltre il segno del braccio:
odalische di Ingres, pastore di Boucher,
tranquillamente calde ed innocenti,
ninfe di Bouguereau, schiave di Gérôme,
Venere di Cabanel – orizzontale schiuma –,
appetitosamente rotondette.
Avrà un nome la piega dell’ascella
che si apre biforcandosi fra i denti;
la soave paffutezza che circonda
il fregio della calza proprio sotto la natica;
quell’incavo rosato dove finisce l’inguine,
e in brevi cerchi si contrae il pollice
dischiudendo l’astuccio della lingua.
Devo consultare un professore
di anatomia.
                        Tornerò sul tema
quando sarà morta l’arte del desiderio.

Traduzione di Emilio Coco
da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008


lunedì 5 settembre 2011

Francesco Paolo Memmo


GLI UCCELLI

Piove da tanto tempo per tanto ancora
pioverà sulle magnolie sull’erba sull’asfalto
coraggioso s’inerpica sul muro e sì
ce la farà prima o poi il rampicante
getta ponti invita alla salvezza altrui e sì
ce la farà con l’aiuto degli uccelli
in volo

Stormo di mezzogiorno sibilo fruscìo
dalle finestre aguzzano l’ingegno (simili
e consimili) provando la dialettica a specchio
metteranno radici a dispetto del pulviscolo
africano moltitudine sfrecciante ad intervalli
infinitesimi l’inverno già alle porte quasi
fosse

E finalmente metteranno ordine nel tempo
epilogante che precario incede fremiti
esalando gli uccelli in picchiata per antica
abitudine ma in dedizione totale e che
altro dovrei chiedere che infatti chiedo
dal mio tetro obitorio ai bicolori ora disposti
a squadra

Se ci pensi a pensarci mai deludono
le attese rammentano i giochi dei ragazzi
ce n’era uno incomprensibile ma splendido –
abbarbicati ai muri trovavamo chiarezza
in sintonia con l’invenzione di vittorie
stupide da essere cantate e che cambiavano
il mondo


Da Le precipue funzioni, Quaderni di Messapo, 1980

venerdì 2 settembre 2011

Gianfranco Palmery

MERIDIANA


Buona, mia belva, ritira gli artigli: lasciami
quieto e illeso al sole – allontanati
tutti i pensieri, via nell’azzurro fluttuanti con
le nivee lane dei tigli che l’attraversano
e trascorrono per l’aria come una bufera
d’anime: animale celeste
e terrestre che una certezza riempie
d’immortalità e restituisce a cielo
e terra: un corpo che riposa e il sole
scalda, mentre i merli tra i rami, i passeri
a volo e i colombi assidui sui cornicioni
fanno il loro meridiano dolce strepito


da Compassioni della mente, Passigli, 2011