mercoledì 29 aprile 2015

Gary Snyder

BRUCIANDO, 8

John Muir sul Monte Ritter:

Dopo averne lungamente scrutato il volto,
Cominciai a scalarlo, scegliendo i miei appigli
Con grande attenzione. Arrivato a metà
Dalla cima, mi trovai improvvisamente
Fermo senza vie d’uscita, con le braccia tese
Strettamente aggrappate al volto della roccia
Incapace di muovere una mano o un piede
Né verso l’alto né verso il basso. La mia sorte
Sembrava decisa. DEVO cadere.
Ci sarà un attimo di
Sgomento, e poi, 
Un capitombolo senza vita giù per la rupe
Fino al ghiacciaio sottostante.
La mia mente sembrava invasa da un
Fumo soffocante. Questa terribile eclisse
Durò solo un attimo, quando la vita rifulse
Di nuovo con chiarezza soprannaturale.
Mi sembrò a un tratto di essere dominato
Da un senso nuovo. I miei muscoli tremanti
Divennero di nuovo sicuri, ogni crepa e ogni asperità
Della roccia sembrarono viste attraverso un microscopio,
Le mie membra si mossero con un’efficienza e una precisione
Con le quali sembrava che io
Non avessi niente a che fare.

Traduzione di Giulio Saponaro

da Fernanda Pivano: poesia degli ultimi americani, Feltrinelli UE, 1964

lunedì 27 aprile 2015

Jaime Gil de Biedma

NEL NOME D’OGGI    

Nel nome d’oggi, giorno ventisei
dell’aprile del mille novecento
cinquantanove, domenica
di nuvole col sole, alle tre –
come dispone il tempo – 
del pomeriggio nel quale do inizio
all’esercizio sul primo pronome 
del singolare indicativo,

come pure nel nome dell’uccello,
della schiuma del mandorlo,
ed infine del mondo che abitiamo,
vi dico cosa intendo.
Prima di andare avanti
voglio da questa pagina
dare un saluto ai miei genitori
che non mi leggeranno.

A te, che ora non nomino,
amore mio – e adesso sono serio –,
a te, sole dei giorni
e delle notti, premio 
meraviglioso della vita,
di tutta la mia vita, cosa posso
dire, e che cosa vuoi
che scriva sulla porta dei miei versi? 

Ed infine agli amici,
ai compagni di viaggio,
e soprattutti loro
a voi, Carlos, Ángel,
Alfonso e Pepe, Gabriel
e Gabriel, Pepe (Caballero)
e a Miguel, mio nipote,
a Joseaugustín e a Blas de Otero,

a voi, voi peccatori
come me, vergognoso
delle botte non ricevute,
signorini per nascita,
per cattiva coscienza
scrittori di poesia
sociale, anche un ricordo
dedico, e a chi mi segue in generale.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Antología poetíca, Alianza Editorial, 1981



venerdì 24 aprile 2015

Kriton Athanasulis

BRANO DAL MIO TESTAMENTO

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali
t’indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo,
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu
guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
Vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione m’ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite a bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen ed Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: già! I nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.

Traduzione di F. M. Pontani 

Da Poeti greci del Novecento, a cura di Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani, I Meridiani Mondadori, 2010



qui una bella lettura di Gianni Conversano di questa poesia:
  http://youtu.be/zb_2KWRZ2qU?list=PLH5sXzMrw1eYWClreyixTu41-7OGzFQLk


mercoledì 22 aprile 2015

Onofrio Lopez

L’OMBRA DEL CIPRESSO                                                                                  


                         I

Il cipresso, l’ultimo qui rimasto,
soverchia il mio punto d’osservazione,
ombra scomposta da un vento privato
sul telo bianco che copre una porta- 
finestra, barriera a contaminazioni
di alfabeti irrisori, non sempre efficace 
a tenere distanti intrusioni non eque.

                         II

Questo diaframma di opacità ripara
la visione da una luce inguardabile,
mentre ritento la mia vocazione
muta – incombente o necessaria,
chi sa? – di dar peso ai dettagli:
rimedio neurale da tempo incubato 
in un me inutilizzato, che esonda.

                          III

Se il profilo del fusto fosse davvero
puntato all’infinito non avrebbe scopo
il ricorso al gioco rischioso di figurazioni
quasi sempre fittizie. Autentica e terrena,
invece, rimane l’esigenza di un nuovo sillabario
che evolva in testo e illustri gli ossimori
nel decalogo delle sbandierate virtù.                                              

                          IV

Ora, o in altro momento, se qualcosa 
di non risolto traboccasse dal passato, 
se affiorassero impulsi primitivi 
e gli effetti sonori delle parole, confusi 
tra sopraggiunte opzioni digitali, 
si perdessero senza scampo nell’amnesia, 
l’equazione relativa avrebbe un risultato?

                              V

Nell'immediato c’è solo l'albero sopravvissuto 
intatto con le sue bacche brune, valore 
di una variabile che risolva l’operazione;
il medium – se si vuole – che annunci 
l’esito favorevole di una pratica 
abbandonata, il ritrovamento d’intenzioni
annichilite e qui rianimate. 

(inedita)                              



lunedì 20 aprile 2015

Mariella De Santis

L’UTILE E IL NECESSARIO

Siccome da nessuna finestra della mia casa
Io vedo alberi, cespugli o vette
Debbo innaffiare con cura ogni mattina
La piantina sul balcone. Fermarmi ogni due
O tre giorni a carezzarla un poco, osservare
Il germoglio spuntare, sperare cresca sano.
Nel fusto immaginare la valle, la foresta, il prato
Nel frattempo s’è fatta ora d’uscire, sistemare
Il collant sulla gamba, la sciarpa intorno al collo
Sopportare la folla, la metropolitana, tenendo tra
Le mani il sogno del giardino senza più distinguere
Nelle ore quello che sia utile e quanto necessario.

Da La cordialità, Nomos Edizioni, 2014

venerdì 17 aprile 2015

Giovanni Pascoli

ALEXANDROS

I.

– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell’aria, 
quella che in mezzo del brocchier vi brilla.

o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,

l’ultimo fiume Oceano senz’onda.
O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,
ecco, la terra sfuma e si profonda

dentro la notte fulgida del cielo.

II.

Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.

Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidiate.

Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:

il sogno è l’infinita ombra del Vero.

III.

Oh! più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!

Ad Isso, quando divampava ai vènti
notturno il campo, con le mille schiere,
e i carri oscuri e gl’infiniti armenti.

A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere,

sempre più lungi, ardea come un tesoro.

IV.

Figlio d’Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l’auleta:

soffio possente d’un fatale andare,
oltre la morte; e m’è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.

O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
Ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente...

e il canto passa ed oltre noi dilegua. – 

V.

E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall’occhio nero come morte;
piange dall’occhio azzurro come cielo.

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano;
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.

Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,

come trotto di mandre d’elefanti.

VI.

In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
per dolce Assente la milesia lana.

A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.

Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita

le grandi quercie bisbigliar sul monte.


Da Tutte le poesie, I Mammut, Newton Compton

mercoledì 15 aprile 2015

Eloy Sánchez Rosillo

SUL CARDELLINO

Per iniziare il giorno, annoto qui
che degli uccelli visti ed ascoltati
quello più mio fra tutti è il cardellino.
Ne dico il nome e mi torna l’infanzia,
vado a ritroso ed eccomi di nuovo
in quella casa bianca con i muri
che s’alzavano in mezzo alla campagna
e nel cuore del mondo e dell’estate.
Vedo me stesso nel mattino d’oro
– all’inizio di un mito promettente – 
la prima volta all’ascolto di un canto
da dove viene, da quale creatura
meravigliosa e pura. Ascolta, ascolta, 
bambino, e poi avvicinati pian piano 
al luogo da cui nasce ininterrotta 
la bella musica. Non far rumore.
A poco a poco, a passettini vai
sotto un mandorlo. Eppure guardi in alto 
e non vedi che foglie verdi e cielo 
azzurro. Ora non muoverti, ma insisti, 
osserva attentamente. Insisti. Vedi?
C’è qualcosa, e si muove, su quel ramo. 
E lo vedi, lo vedi! È un cardellino.
Lo vedi oggi e l’avrai visto per sempre.
E chi potrà scordarlo? Lo vedesti.
Io continuo a vederlo con chiarezza,
ne copio emozionato sul quaderno
il corpicino abbandonato al canto
e provo a disegnarne anche la grazia,
la mascherina rossa, e la delicatezza
della sua veste bruna che si adorna  
di pennellate bianche, gialle e nere.
Canta, canta il cardillo, nel mattino
remoto dell’origine, poi s’alza 
in volo e via per l’aria. Ma da allora 
vibra al tuo orecchio, al mio, nella profonda
verità il canto di quel giorno, canto 
miracoloso.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da La certeza, Tusquets Editores, 2005

lunedì 13 aprile 2015

Georg Trakl

IN RIVA ALLA PALUDE

Viandante al vento nero; piano mormora il secco canneto
nella pace della palude. Nel cielo grigio
passa uno stormo d’uccelli selvatici;
volando di sbieco su foschi acquitrini.

Tumulto. Da una capanna cadente
svolazza con ali nere putredine;
storpie betulle sospirano al vento.

Sera nell’osteria desolata. La via del ritorno
è aureolata dalla dolce tristezza di greggi brucanti.
Appare la notte: rospi emergono da acque d’argento.

Traduzione di Ervino Pocar

da Poesie, BUR, 1974

venerdì 10 aprile 2015

Giovenale

LASCIANDO ROMA
(SATIRA III)


La partenza di un vecchio amico mi rattrista
ma non posso che approvare la sua scelta 
di stabilirsi nella vuota Cuma offrendo 
così un cittadino alla Sibilla. Porta di Baia, 
spiaggia gradevole è Cuma e ritiro accogliente. 
Io stesso alla Suburra preferirei Procida. 
Per quanto desolato e misero, esiste 
un luogo che non sia preferibile al terrore 
continuo degli incendi e del crollo dei tetti 
e ai pericoli infiniti di questa città terribile, 
ai poeti che leggono versi anche ad agosto? 
Mentre caricano la casa tutta su un carro 
l’amico si trattiene un momento con me 
sotto gli archi umidi di porta Capena. 
Dove Numa di notte incontrava l’amica 
e oggi il tempio e il bosco della fonte sacra 
sono presi in affitto da certi giudei 
padroni di un unico bene: un cestello di fieno 
(difatti per legge ogni albero paga una tassa 
e da quando ne scacciarono le Camene 
la selva è ridotta in miseria), nella valletta 
di Egeria tra caverne scavate scendiamo, 
là dove sentiremmo più forte la presenza 
del nume della fonte se l’erba tuttora
incorniciasse di verde l’acqua corrente 
e i marmi non deturpassero il tufo originario;
là Umbricio mi dice: 
                                         «A Roma non c’è posto 
per un onesto lavoro né compenso alle fatiche, 
la roba oggi vale meno di ieri e domani 
varrà ancora meno, per questo ho deciso 
di andarmene a Cuma dove Dedalo depose 
le ali stanche. Finché la mia canizie 
non si nota e la vecchiaia incipiente 
non mi toglie vigore, finché ancora Lachesi 
per me ha filo da torcere e mi reggo 
sulle gambe senza bastone, via da qui! 
Ci vivano mercanti e affaristi , ci resti 
chi cambia nero in bianco o vince appalti 
per la pulizia di templi fiumi e porti, 
chi è capace di spurgare fogne, di portare 
cadaveri al rogo, di vendere teste all’asta, 
quelli che un tempo suonavano il corno 
nelle arene di provincia, famigerati in tutti 
i paesi, che ora si permettono d’offrire 
spettacoli gladiatòri e quando la gentaglia 
lo vuole per compiacerla pollice verso 
decidono morte. Poi tornano agli appalti 
di latrine. Perché no? La Fortuna capricciosa
si diverte ogni tanto a portare al successo 
gente così. Perciò a Roma io che ci faccio?
A mentire non riesco, a lodare un cattivo 
libro o a consigliarne la lettura nemmeno, 
dei movimenti degli astri non so niente, 
il funerale di un padre non voglio né posso 
prometterlo, viscere di rana? mai studiate, 
portare a una donna sposata i messaggi 
dell’amante? lo sanno fare in tanti, ma non io. 
Tenere mano a un ladro, in nessun caso
io potrei farlo; ecco perché quando esco 
di casa nessuno m’accompagna, peggio che 
se fossi monco o con un braccio paralizzato, 
peggio che se fossi un buono a nulla. Solo
chi è complice di qualcuno o sa avere 
un animo fervente di segreti indicibili 
oggi si fa amici. Chi ti fa una confidenza 
in buona fede non pensa di doverti qualcosa 
perciò non ti dà niente. A Verre invece 
sta a cuore solo chi può denunciarlo 
in ogni momento. Nemmeno tutto l’oro 
che la sabbia del Tago fangoso trascina in mare 
è così importante da perderci il sonno 
o da farti accettare regali che un giorno 
dovrai tristemente lasciare o che possano 
suscitare la diffidenza di un amico potente. 

La gente più gradita ai nostri ricchi, 
che io cerco di evitare, romani, basta poco 
a dire. Non sopporto una Roma tutta greca! 
E in questa feccia quanti sono dopotutto 
gli autentici achei? Già da un pezzo
l’Oronte siriano sfocia nel Tevere e trascina 
con sé lingua costumi flautisti e corde oblique, 
tamburi esotici e giovani prostitute del Circo. 
Chi le trova di suo gusto, queste puttane 
esotiche con la mitra dipinta, si faccia sotto. 
Quirino, il tuo bracciante ora calza scarpette 
eleganti e al collo ben curato s’appende 
medaglie. Chi dall’alta Sicione e chi da Amìdone 
o Andro, uno da Samo un altro da Tralli 
o Alabanda, dànno tutti l’assalto all’Esquilino 
o al colle che prende nome dal vimine: oggi 
per insinuarsi nell’intimità delle grandi case 
e domani per esserne padroni. Mente sveglia 
audacia e sfrontatezza lingua pronta, 
più impetuosi d’Iseo: sono così. In ognuno 
c’è un uomo tuttofare: grammatico retore 
geometra pittore massaggiatore funambolo 
augure medico e mago, tutto sa fare 
il grecuccio affamato: chiedigli di volare, 
volerà. Ma del resto non era né mauro 
né sarmata o trace quel tale che mise le penne: 
no, era ateniese di Atene.
                                                   Così non dovrei 
evitare le loro porpore, io? Anzi dovrei 
sopportare che uno portato a Roma 
dallo stesso vento che porta prugne e fichi 
firmi prima di me nei contratti o che a cena 
si sistemi in un posto migliore del mio? 
Che la nostra infanzia abbia respirato 
sotto il cielo dell’Aventino e sia stata nutrita
con olive sabine non conta più niente?
Previdenti e adulatori, lodano i discorsi 
del primo imbecille, la brutta faccia dell’amico 
comparandone il collo troppo lungo 
a quello d’Ercole che solleva Anteo da terra, 
ne ammirano la voce anche se più sgraziata 
e straziante di quella del gallo che becca 
la gallina. Anche noi potremmo farlo, 
ma a quelli la gente crede. Sulla scena, 
chi interpreta meglio Taide o una moglie
o Doride discinta? Sembra che a recitare 
non sia un attore ma proprio una donna 
piatta nel basso ventre e con la fessa. 
Neanche Antioco è così bravo né Stratòcle 
o Demetro o Emo l’effeminato: una nazione 
di commedianti. Se ridi ecco un greco 
che ride più forte, se un amico piange 
giù a piangere benché gli importi poco, 
se fa freddo e domandi un po’ di fuoco 
lui indossa il mantello, se dici ‘fa caldo’ 
già suda. Non siamo mai pari perché 
è sempre in vantaggio chi di giorno o di notte 
cambia faccia secondo quella degli altri, 
sempre pronto a un applauso di gioia, 
a osannare l’amico che ha fatto un gran rutto 
o una lunga pisciata o gli è riuscito un bel 
rimbombo sul fondo di un pitale dorato.
Per essi non c’è niente di sacro o al riparo 
della loro libidine: la padrona di casa 
la figliola vergine il fidanzatino imberbe 
il ragazzino ancora ingenuo: nessuno. 
E se questi non ci sono sbattono sul letto 
la nonna dell’amico. Conoscono i segreti 
di casa e si fanno temere. Non sono dicerie: 
il vecchio stoico lo scellerato delatore 
che fece uccidere Bàrea, allievo e amico, 
era nato e cresciuto dove caddero le penne
del cavallo della Gòrgone.
Per un romano non c’è posto dove impera 
questa gente che per vizio innato s’accaparra 
l’amico e non lo divide con nessuno. 
Basta che uno di loro versi solo una goccia 
del veleno che possiedono per natura 
o per dote patria in un orecchio meschino 
e mi mettono alla porta, la mia opera è presto
scordata. Non c’è un altro posto dove abbia
meno importanza perdere un amico. E del resto, 
non prendiamoci in giro, che merito può avere 
o che rispetto il poveraccio che si butta 
addosso la toga e si precipita in piena notte 
se certi pretori scapicollano il littore 
a spiare il risveglio di Modia o di Albina 
perché a darle il buongiorno non li preceda
un collega? Il figliolo di un uomo libero 
fa la scorta allo schiavo di un ricco, qualcuno
regala a Calvina o a Catiena uno stipendio 
intero di tribuno per ansimare una o due volte 
su di loro. Tu invece quando hai voglia 
di una puttana curata e ben vestita 
ti fai prendere dai dubbi e non sai deciderti 
a far scendere Chione dalla sua lettiga.

Trova se ci riesci in tutta Roma un testimone 
onesto come chi un giorno fu degno 
d’ospitare la dèa dell’Ida. Da Numa in persona 
o da quello che salvò Minerva terrorizzata 
dal fuoco del tempio vorranno sapere 
chi sono e cosa fanno, poi per ultima cosa 
quali sono i loro costumi. Quanti schiavi 
mantiene? Quanti ettari di terra possiede? 
E sono grandi, sono ricchi i piatti in cui cena? 
Reputazione e credito dipendono dai soldi 
che uno ha in banca. Se non hai denaro, 
puoi giurare sugli dèi ma tutti penseranno 
che menti e che non hai timor di dio. 
E se per caso hai il mantello sdrucito 
o vi si nota un rattoppo, se hai la toga 
fuori moda o un buco in una scarpa 
il riso si spreca: la miseria ti regala il ridicolo… 
“Vergogna! Fuori chi non ha diritto di sedersi
nei posti riservati ai cavalieri e ai figli dei ruffiani, 
anche se generati in un bordello. Tra rampolli 
di gladiatori e maestri d’armi può applaudire 
solo il figlio di un banditore ben nutrito”. 
Così volle Otone, quell’inetto, per separarci.
Un genero di più basso rango o che porti 
una dote inadeguata a quella della sposa 
non piace a nessuno. S’è mai visto il nome
di un poveraccio scritto in un testamento? 
E uno senza soldi può essere ammesso 
alla carica di edile? Già da un pezzo i romani 
in bolletta dovrebbero essere emigrati 
in blocco perché senza un patrimonio 
qui non fai molta strada. Un appartamentino 
costa un occhio. Così mantenere dei servi 
o permettersi una cenetta fuori. Mangiare
in piatti di terracotta tra i marsi e i sabini
è normale, ma qui ancora se ne vergognano. 
Ammetterai che in mezza Italia ormai la toga 
non s’indossa che da morti: portano tutti 
gli stessi vestiti. Perfino nelle feste e a teatro, 
dove si corre a rivedere la solita farsa 
e le smorfie delle maschere spaventano 
i bambini in braccio alle madri, vestono 
tutti allo stesso modo. Solo i magistrati, 
per rispetto alla carica, indossano tuniche
bianche. A Roma ci si veste per sembrare 
più ricchi e per farlo si è disposti perfino
a ficcare le mani nelle tasche altrui. 
È vizio comune pretendere di vivere 
da gran signori senza avere un soldo. 
A Roma tutto ha un prezzo, perfino i saluti 
distratti e gli sguardi indifferenti. Cosso 
è in bagno a farsi la barba? Veiento festeggia 
un pupillo? Mentre aspetti, i loro servi 
t’offrono focacce ma devi pagarle. Fa rabbia
ma è il destino dei clienti di certi ricconi.
Nella fresca Preneste o a Bolsena, tra verdi 
colline boscose, nella quieta Gabi o nella rocca 
di Tivoli chi vive nel terrore che gli crolli 
addosso la casa? Invece noi abitiamo 
in una città che sta in piedi su travi malferme 
perché l’amministratore non fa rinforzare 
i muri pericolanti e quando ha richiuso 
qualche vecchia fenditura ci dice di dormire 
tranquilli, lasciandoci con quella continua
minaccia sulla testa. Non è meglio vivere 
dove non c’è il pericolo d’incendi e la notte 
puoi dormire senza paura? senza che qualcuno
chiami i pompieri e intanto metta in salvo 
i suoi stracci? Tu lo ignori ma sotto i tuoi piedi 
il terzo piano è in fiamme e mentre in basso 
già si sparge il terrore chi ha solo le tegole 
a ripararlo dalla pioggia, lassù dove covano
le colombelle, benché ultimo è destinato 
a morire arrostito. Cordo aveva un lettuccio 
troppo piccolo anche per Procula la nana,
sei orcioli su una credenza, una brocca
sotto un tavolino di marmo sorretto 
da un Chirone piegato; in una vecchia cesta 
conservava certi libretti greci dai quali 
i topi ignoranti rodevano i carmi divini. 
Quindi Cordo, chi lo nega? non aveva niente. 
Ma adesso ha perso anche quel niente. 
E per colmo di sventura, benché nudo
e affamato, nonostante le sue preghiere, 
nessuno gli darà da mangiare o gli offrirà 
un riparo per la notte. Invece se crolla 
il palazzo di Asturico le matrone si scarmigliano, 
i patrizi si vestono a lutto e il pretore rinvia 
le udienze: tutti piangono per la città 
sciagurata e se la prendono col fuoco.
Il palazzo brucia ancora e già c’è chi accorre 
con marmi nuovi, chi porta denaro, chi offre 
altre statue, capolavori di Eufranore 
o Policleto, una signora dona vecchi gioielli 
asiatici, un tale libri e scaffali dove metterli, 
chi un busto di Minerva chi un moggio d’argento.
Persico il riccone raccoglie più di prima 
e anche roba più bella: c’è da credere 
che abbia dato lui stesso fuoco a casa. 
Se sei forte abbastanza per rinunciare 
agli spettacoli del circo, a Sora a Fabrateria 
o a Frosinone e al prezzo che qui paghi 
in un anno per un buco senza luce, 
c’è pronta per te una bella casa con un orto 
e un piccolo pozzo dal quale senza corda
puoi cogliere l’acqua per irrigare le piantine. 
Puoi coltivare l’orticello e viverci bene, 
ricavandone verdure a sufficienza per tutti
i vegetariani del luogo. Non è poco, dovunque 
in qualunque angolo di mondo, poter dire
di possedere anche solo una lucertola.
A Roma puoi ammalarti e morire d’insonnia 
perché il cibo indigesto ti brucia lo stomaco.
Non c’è casa in affitto dove puoi dormire: 
lo permettono solo tanti soldi. E la colpa 
principale è dei carri che in vicoli stretti
come budelli fanno avanti e indietro 
e delle mandrie che si fermano facendo 
un tal fracasso che sveglierebbe anche Druso 
o un vitello marino. Quando esce per affari, 
trasportato sulla lettiga il ricco passa 
tra la gente che si scansa come una liburna 
veloce: lì dentro legge e scrive, magari dorme: 
le tendine abbassate gli conciliano il sonno. 
E arriva sempre prima di me: anch’io vado
di fretta ma l’onda della folla che mi precede 
mi rallenta e quella che mi segue m’incalza 
alle reni: chi mi dà una gomitata, chi mi picchia 
con un asse di legno, chi mi dà in testa 
una trave, chi una botte. Le gambe sono presto
tutte imbrattate di fango, suole enormi 
mi pestano i piedi a ogni passo e un soldato 
mi trafigge l’alluce coi chiodi degli scarponi.
Intorno alla sportula guarda che fumo 
e che calca! Convitati a centinaia e ognuno 
si porta dietro la cucina. A stento Corbulone 
riuscirebbe a tenere i grandi vasi e tutti 
gli arnesi che un piccolo schiavo infelice 
col collo teso regge in bilico sulla testa 
e mentre corre tiene acceso il fornelletto.
Le tuniche rammendate si strappano di nuovo.
Ecco passare un lungo abete traballante 
sopra un carro, seguito subito da un pino
su un altro carro: ondeggiando sulla gente 
tutt’e due minacciano di cadere. Se l’asse 
di uno dei grandi carri carichi di marmi 
della Liguria si rompe e il monte di marmo 
si rovescia sui passanti, mi dici cosa resta 
dei corpi? Chi ritrova più membra e ossa? 
I cadaveri stritolati della gente svaniscono 
come aria. In famiglia intanto lavano 
tranquillamente i piatti, soffiando sul fuoco 
lo ravvivano, fanno risuonare le striglie ingrassate 
e riempita d’olio la boccetta preparano i lini. 
Ma mentre i servi sistemano ogni cosa 
il morto è già seduto sulla riva dello Stige 
fangoso e, novizio coi capelli dritti, di fronte 
al cupo nocchiero dispera salire sulla nave 
perché in bocca non ha l’obolo richiesto. 

Pensa a tutti i pericoli della notte; all’altezza 
tra te e i cornicioni dei tetti: può cadere 
una tegola e spaccarti la testa, ai vasi rotti 
che spesso cadono dalle finestre: visto 
che segni sul marciapiede? Se vai fuori a cena 
senza fare testamento diranno che non ti curi 
degli incidenti imprevisti perché sei pigro
e imprevidente. Puoi morire tante volte 
quante finestre affacciano sulla strada 
per la quale stai passando. Devi augurarti 
devi sperare che le finestre si accontentino 
di versarti sulla testa soltanto il contenuto 
dei loro catini. Un ubriaco prepotente, 
in pena perché non ha ancora preso a botte 
qualcuno, che urla e piange come Achille 
l’amico morto, che si gira e rigira nel letto
non riuscendo a dormire, ti si para davanti 
cercando la rissa che gli faccia venir sonno. 
Ma né il vino né la rabbia gli impediscono 
di stare prudentemente alla larga da quel tale 
che un mantello di porpora o un gruppo
di gente al seguito con torce o lampade 
di bronzo consiglia di non molestare.
Di me, che cammino alla luce della luna
o al lume di candela che riparo con la mano 
non ha né paura né rispetto e mi blocca 
con arroganza. È l’inizio della rissa, se è rissa
quando mena uno solo e l’altro le prende.
Meglio fermarmi. Di fronte a un tale pazzo 
scatenato, come posso difendermi? Urla. 
‘Da dove vieni?’ vuol sapere. ‘Con chi 
sei stato a cena? Rispondi o ti prendo 
a calci in culo. Dove vai? Dove pensi 
di rintanarti? In quale buco ti ritrovo?’ 
Perché se cerchi di scappare, giù botte! 
E magari poi ti cita anche in giudizio.
Ecco la libertà dei poveracci: supplicare 
d’esser lasciato in pace e di tornare a casa 
tutto intero. E c’è di peggio! Puoi correre 
pericoli anche più seri. Quando case 
e taverne sono chiuse e silenziose,  
le porte serrate, rischi che qualcuno
ti piombi addosso dal buio con un coltello 
e ti finisca in fretta per ripulirti di tutto.
Ogni volta che le guardie presidiano
la palude Pontina o la pineta Gallinaria 
i briganti invadono Roma come una riserva.
C’è un’incudine ormai, c’è una fornace 
dove non si forgino catene per i ceppi?
Fra un po’ mancherà il ferro per le zappe,
per i vomeri e i sarchielli. Che fortuna 
ai tempi dei nostri bisnonni dei re dei tribuni 
quando a Roma bastava solo un carcere!   

Potrei continuare, ma s’è fatto tardi. 
Il sole sta calando e le giumente chiamano. 
Devo andare. Il carrettiere già da un pezzo 
mi fa cenno col bastone per dirmi ch’è ora. 
Perciò addio! Ogni tanto ricordami. 
E tutte le volte che a rimetterti in forze 
andrai nella tua Aquino fammelo sapere 
e io verrò a trovarti. Metterò gli scarponi 
e a piedi da Cuma verrò alla tua fredda 
campagna e se non si vergogneranno 
di me ascolterò volentieri i tuoi versi ».


Traduzione di Francesco Dalessandro




mercoledì 8 aprile 2015

Edoardo Ferri

LINEA DI FONDO

Non linea immaginaria
ma limite reale 
confine e regola
la linea è disegno d’ordine
controllo del peso
presa di posizione 
in campo e fuori
se sono in linea con te
ti sto parlando forse
o andiamo solo d’accordo?

C’è sempre una linea di fondo
dove devi fermarti
per non perdere il respiro
quel limite estremo
che vorremmo prolungare
disegnare un campo profondo
le porte lontane anni luce
e il manto verde
dove la corsa non ha fine
viaggio fino al termine 
della notte dei tempi. 

Da Linea di fondo*, Il Labirinto, 2014


*) il libro si presenta oggi da Empiria, via Baccina 79, Roma

lunedì 6 aprile 2015

Francesco Tentori

RITRATTO DI FAMIGLIA

Brucia un lume sul tavolo? La luce
disegna a grandi tagli, squadra e isola
i profili abolendo la penombra.
Nulla distrae lo sguardo dall’evento
minimo eppure arcano: tre figure
distanti e unite, che un lampo ha fissate
in gesti ai quali affidano il segreto
di un istante. O di sempre? ti domandi
e scruti il breve spazio che le ospita.

Assorto in sé, un sorriso che gli sfiora
appena il labbro, un giovane si piega
indietro sulla sedia, forse intento
ad un giuoco di carte o ad un oroscopo.
Protesa avanti la donna ne spia
fra dubbio e orgoglio l’ambiguo atteggiarsi
che vorrebbe sorprendere nell’intimo
inconoscibile di dove nasce.
Ritta fra i due la ragazza è la sola
che sfidi l’obiettivo con il riso
di chi misura su se stesso il rischio
e il bene dell’esistere, deciso
a giocare, sia quale sia, la carta.

Tu manchi, com’è giusto se la parte
che ti riservi è di testimone
e fai tua nell’immagine quell’ora,
quell’istante compiuto, irripetibile.

da Il segreto degli specchi, Poesie 1949-1994, Biblioteca di Ciminiera, 2005

venerdì 3 aprile 2015

Torquato Tasso

IO SON LA PRIMAVERA

Io son la Primavera
che lieta, o vaghe donne, a voi ritorno
col mio bel manto adorno
per vestir le campagne d’erbe e fiori
e svegliarvi nel cor novelli amori.

A me Zeffiro spira,
a me ride la terra e ’l ciel sereno:
volan di seno in seno
gli Amoretti vezzosi a mille a mille,
chi armato di stral, chi di faville.

E voi ancor gioite,
godete al mio venir tra risi e canti;
amate i vostri amanti
or che ’l bel viso amato april v’infiora:
primavera per voi non torna ognora.


Da Poesie, a cura di Francesco Flora, Riccardo Riccardi Editore, 1952

mercoledì 1 aprile 2015

Folgóre da San Gimignano

D’APRILE

D’april vi dono la gentil campagna
tutta fiorita di bell’erba fresca;
fontane d’acqua che non vi rincresca,
donne e donzelle per vostra compagna;

ambianti palafren, destrier di Spagna,
e gente costumata alla francesca
cantar, danzar alla provenzalesca
con istormenti nuovi d’Alemagna.

E d’attorno vi sian molti giardini,
e giacchito vi sia ogni persona;
ciascun con reverenza adori e ’nchini

a quel gentil, c’ho dato la corona
de pietre prezïose, le piú fini
c’ha ’l Presto Gianni o ’l re di Babilona.


Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007