mercoledì 30 gennaio 2013

Antonio Seccareccia


PAROLA

Sei tu, parola, il mistero antico e nuovo
d’un pensiero che si fa suono e vive
appena lo spazio d'un attimo, ma lascia
spesso il suo segno nel tempo e può bruciare
i sogni e le sper anze di una vita.

Sei tu, parola, che covi e trami nel buio
le tue imprevedibili sortite, che ti fai pietra
e fuoco nel petto dell’uomo in hora mortis,
o émpito di gioia quando ti sciogli
in gola, al risveglio, voce del mattino.


Da La memoria ferita, Caramanica Editore, 1997

lunedì 28 gennaio 2013

Alberto Bellocchio


E QUANDO DOPO I MESI PIÙ FREDDI

E quando dopo i mesi più freddi
si apre un po’ la stagione,
gli argini del fiume sono quelli
dove prime fioriscono le margherite.
Vi si trova gran gente, alcuni
senza meta in solitudine errare,
altri in compagnia di se stessi,
e coppie per mano. La notte estraggono
dal bagagliaio un telo per fare l’amore
al riparo delle nuove corsie del ponte
autostradale, tra gli enormi pilastri.
Gli argini del Po sono stati la patria
primaverile.
                        Attraversare quel ponte
significava andare a Milano, l’età adulta,
dove le cose accadono in grande. Invece
ho preso la strada per Roma.

Da Sirena operaia, il Saggiatore, 2000

venerdì 25 gennaio 2013

William Wordsworth


PER NOCCIOLE

Era uno di quei celesti giorni
(Parlo di un giorno scelto in mezzo a tanti)
Che sembra mai non debbano morire.
Così, ragazzo ardente di speranza,
Lasciai la soglia della casa, un grande
Sacco buttato sopra le mie spalle
Ed in mano la pertica uncinata,
E volsi i passi ad un remoto bosco,
Strana figura in fiero abbigliamento
Di vecchissimi cenci. (A quel servizio
Li destinò la mia frugale Dama).
Abito senza tema di roveti
E siepi e spini, invero più strappato
Del necessario... E per balze selvagge,
Letti di felci e macchie aggrovigliate
Aprendomi una strada, arrivo a un caro
Angolo solitario, dove un solo 
Ramo rotto non v’è con le sue foglie
Vizze, testimonianza di saccheggio,
Ma un alzarsi d’arbusti eretti, dolci
A vedere nei grappoli pendenti.
Vergine scena! Un istante ristetti,
Con il cuore sospeso come quando
Troppa gioia l’ingombra, e saggiamente
In voluttuoso ritegno adocchiai
Senza timor di rivali, il festino.
Fra gli alberi sedetti, in mezzo ai fiori,
E con essi mi trastullai in una
Disposizione che conosce solo
Chi dopo lunga attesa benedice
Una gioia che vince ogni speranza.
Forse era un pergolato sotto il quale
Nascevano e sfiorivano violette
Senza che occhio umano le mirasse
Ed un’acqua incantata mormorava
Eternamente. Vedevo la spuma
Scintillare all’intorno, e con il capo
Adagiato su uno di quei sassi
Muschiosi sotto le fronzute piante
E sparsi come pecore d’un gregge,
Ascoltavo quel murmure, nel dolce
Umore che ha il piacere quando paga
Un tributo alla quiete, e della gioia
Sicuro, il cuore gode delle cose
Indifferenti e si consuma solo
In rami e rocce la sua gentilezza.
All’improvviso balzai sù, piegai
Sino a terra quei rami, senza alcuna
Pietà: l’ombrosa valle, il pergolato
Muschioso di nocciole, tutto giacque
Devastato e violato, tutto perse
Quella sua quieta esistenza di prima.
Se non confondo il mio presente stato
Con il mio antico sentimento, allora
Prima di ritornare esultante
Dal saccheggiato bosco, ricco d’una
Preda più grande d’ogni altra ricchezza,
Penosamente mi strinse il cuore
Alla vista degli alberi silenti
E del cielo importuno. Così, cara
Fanciulla, muovi lungo queste piante
Con dolce cuore, con soave mano
Toccale: v'è uno spirito nei boschi.



Traduzione di Attilio Bertolucci

Da Attilio Bertolucci, Imitazioni, Libri Scheiwiller, 1994

mercoledì 23 gennaio 2013

Alessandro Peregalli


LO SGUARDO

Una sera che ti parlavo di Baudelaire,
tu mi guardavi coi tuoi occhi chiari
limpidi azzurri come l’acqua o il ghiaccio
(io sono abituato ad occhi neri,
vellutati, profondi).

Così mi guardavi anche la volta
ch’io dicevo la vera filosofia
esser la scienza
(la taverna del Lyskamm scintillava;
fuori la neve, la notte azzurra, le luci
di Gressoney; dentro si rideva
in tanti e l’amico mondano, eterno oggetto
della mia invidia, esortandoti
a sedere tra noi, mentre tu andavi
e venivi dal bar perché portassero
subito lo champagne, esclamava: “Vogliamo
te!” E chi non ti vorrebbe,
bella come un novello albero, un fiore,
seria come il cielo stellato, luminosa
come la brezza che percorre il mare!).
Tu mi rispondevi ch’eri d’accordo,
ma lo dicesti con tal sicurezza
ch’io credetti scherzassi,
                                                        e tu guardavi
appunto con quegli occhi aperti chiari
come l’acqua l’argento il ghiaccio il cielo,
il mare.


Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003


lunedì 21 gennaio 2013

Roberto Pazzi


LA FINESTRA

Consumata dai voli delle tortore
guarda a nord.
I mesi affollano la luce
ed è tutta bianca.
La pianta curva le foglie verso
il varco, dopo la lunga notte.
Gli uccelli volano da un lato
all’altro della luce
ma non verrà mai il sole.
È la perfezione della casa,
la verità delle sue porte
e delle alte finestre.

Da Calma di vento, Garzanti, 1987

venerdì 18 gennaio 2013

Giancarlo Pontiggia


D’ESTATE, OGNI MATTINA, MI LEVAVO

D’estate, ogni mattina, mi levavo
all’alba, tra la fresca brina: erano,
in cielo, uccelli misteriosi
che stridevano, e un’aria pungente, aspra
che mi rapiva. Plinio leggevo, il Giovane,
in quelle albe, le sue epistole
soffuse di una verde ombra muschiosa,
come un criptoportico nell’ora
verde della prima mattina. Passavano
le ore, di quegli anni troppo lontani,
presagendo un umile destino, com’è stato.
Anche oggi, talvolta, ripensandoci,
provo lo stesso senso docile, stremato
di una vita sospesa in un suo strano

suono, in un tempo semplice, inviolato.

Da Bosco del tempo, Guanda, 2005

mercoledì 16 gennaio 2013

Vittorio Bodini


IL DESTINO DELL'UOMO

Quando dai pomodori uscirà il sangue
il destino dell'uomo sulla terra
sarà segnato
Gli animali che hanno per vita privata un continente
grattacieli d'arnie o l'insonne arabesco
saranno nei tuoi occhi come un campo da tennis
Gli ingegneri si rompono senza un grido
Avran le sere cere minuziose
sere dal volto aguzzo inesatte chimere
Sono i calici d'ombra
Sono i calici in fiamme
Il vuoto dei manichini attirerà le montagne

Da Tutte le poesie, Besa, 2004

lunedì 14 gennaio 2013

Gilberto Sacerdoti


SAILING FROM BYZANTIUM

Questa non è terra per i giovani. Qui l’acqua
rancida nutre alghe voraci e poi corrotta
fermenta tra le pietre antiche infette
costrette ad esibirsi per gli sguardi
ebeti di popoli bastardi.

Qui tutta l’estate è efflorescenza
putrida e lucrosa sopra i resti
di un tempo invivibile ma immoto:
l’estate è miserevole mercato
dell’ostentata morte del passato.

Qui l’acqua corrotta è corruttrice
di giovani lascivi ed indolenti
che eruditi in ignavia e in ignoranza
dimenticano o irridono anche il resto
di magnifici edifici d’intelletto.

Chi all’ombra loro sosta troppo a lungo
s’educa allo sguardo e al disincanto
del tempo che corrompe e innobilisce;
assorto dal passato non conosce
la forza dell’uomo che costruisce

e quando egli parte non gli è dato
scordare gli alti segni del passato.
L’oro che conosce è già brunito;
all’anima sua solo domanda
di dire forte il tempo che comanda.

Da Fabbrica minima e minore, Pratiche editrice, 1979

venerdì 11 gennaio 2013

Gerard Manley Hopkins


IN ONORE DI SANT’ALFONSO RODRIGUEZ

DUE VERSIONI DI UN SONETTO DEL 1888


1a VERSIONE

La gloria è il fulgore dell’impresa, noi diciamo, e i mortali 
colpi che già sfregiarono la carne, fregiarono lo scudo, 
saranno la lingua di quel tempo, ora, squille del campo 
di battaglia, testimoni, sul combattente forgeranno 
la vittoria. Sul Cristo lo fanno, sul martire lo possono; 
ma quando la guerra è interiore, la spada impugnata 
non si vede, l’acciaio non riveste l’eroico petto, 
la terra non ode il fragore della più furibonda contesa.

Ma colui che modella montagne, continenti,
terra e tutto, del resto; lui che con sottili incrementi
stillanti vena viole e gli alti alberi fa crescere più alti
seppe colmare una carriera di conquiste, scorrendo
nel frattempo anni e anni di un mondo senza eventi,
mentre a Majorca Alfonso custodiva la porta.


2a VERSIONE

L’onore s’irraggia dall’impresa, noi diciamo; e i colpi 
che già squarciarono la carne, scrostarono lo scudo,
saranno la lingua di quel tempo, ora, squilli del campo
di battaglia, sul combattente forgeranno il suo giorno
di gloria. Sul Cristo lo fanno e sul martire possono;
ma essendo la guerra interiore, il brando impugnato
non visto, non rivestito d’acciaio l’eroico petto,
la terra non ode il fragore della più furibonda contesa.

Pure Dio (che modella montagne e continenti,
terra e tutto il resto; che con stillanti incrementi
vena viole e fa crescere gli alberi sempre più alti)
seppe colmare una carriera di conquiste, scorrendo
nel frattempo anni e anni di un mondo senza eventi,
mentre a Majorca Alfonso custodiva la porta.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1970


Le due versioni sono dell'autore, naturalmente, prima che del traduttore.

mercoledì 9 gennaio 2013

Roberto Coppini


NON UNA TERRA

*

L’uomo rovescia nella corrente
gli avanzi del giorno;
non distoglie lo sguardo dalle acque
anche se un volo di uccelli,
risaliti fin qui dalla foce dei venti,
porta burrasca. Altri compagni verranno
e tu tra tutti indossato il tuo corpo.
Non è medicina che possa guarirti,
né cera pigiata dentro gli orecchi,
ti tradisce l’odore che hai
di un’erba rara, domestica.

*

Tarderà la vendemmia nei vigneti.
L’aria quasi notturna ci volge
a folate nel tepidario
affollato di anime impazienti.
Chiedevi per te un destino
diverso, ma da una parte sola
ti sbilancia l’amore e più ancora
la pena del suo contrario.
Il traghetto si stacca da terra,
ci si chiama per nome da riva a riva
illusi in questo modo di conoscerci.

*

Fu dove il ponte passa
in altra terra
e il pulviscolo d’acqua
assembrava la pioggia,
fu lì che dicesti: « Il luogo
non è questo ». Tutto parve
usuale: la freccia di confine,
le sentinelle aggravate dal sonno,
il volto inerte di chi impersona
un dio sdoppiato,
specchio che ti ravvisa.

*

« Ubique domus mea », ma se la casa
è il tuo corpo, chi lo respira ora,
chi ne allontana i battenti
o li tira a sé, impedendo
la sera del terzo giorno
che tu ritorni tra i vivi?
La ronda che rientra dalle mura
è il numero dei passi che ci fu dato.
Se indugi è per toccare
l’effige di un re
sul dorso di una moneta
che ti affrancava dal male.

*

Nessuno trovò il libro che lasciasti cadere,
un libro che non leggesti mai, percorso
a ritroso fino alla porta chiusa
oltre la quale pensavi gli animali
del primo giorno e non una terra,
ma un luogo che a saperlo era soltanto amore;
dove le mura si aprivano al passo
perché le muoveva una primaria carità,
la febbre che spinge alla luce
le cose germinate dal suolo
o da se stesse, che insieme viaggiano
giorno e notte, astri indivisibili.


Da “Arsenale”, Rivista trimestrale di letteratura, N. 0, ottobre-dicembre 1984, Il Labirinto

lunedì 7 gennaio 2013

Gianfranco Palmery


LA NOTTE E LE SUE NOIE

Niente più notti illuminate, luci
di notturne tenebre – la notte
e le sue noie, consumate, spese, come
i calmi fervori che le hanno accompagnate
negli anni – e ora soltanto ore
vane, lente, disertate
sedia e carte nell’alone di lampade
laboriose: finite qui, o notti, spente
le luci sulle insonni, sonnolente
pose


Da Medusa, Il Labirinto, 2001

venerdì 4 gennaio 2013

Salvatore Ritrovato


FARSI GIORNO

   «Sic unum quicquid paulatim protrahit aetas 
    in medium ratioque in luminis eruit oras.»
    (Lucrezio, De rerum natura, V, 1454-1455)


L’alba, pensavo tra me, ora è un’ampia mucosa
dell’universo, scintilla a tratti sui parabrezza,
per poco, e i balconi quando abbraccia
il fuligginoso deserto di questo sogno.
Sogno allora di sdraiarmi all’erba e da lontano
nel cielo ardesia cercare una via di fuga
al tempo che si spegne su una riva rapinosa.
Alcuni uomini laggiù nelle strade nere
con i rombi, in un’aria bassa, hanno già in mano
la loro vita, aprono e qualcosa celano
perdutamente, che non sanno neppure, un timore
piovuto sulle ustioni del giorno prima.
La città si rallegra di questa sordina,
libera una brezza generosa alla rapida
confusione delle prime ore della mattina.
Ma altre ombre negli avidi lampi
del nuovo giorno che prende fuoco
lentamente si accendono, io non vedo.
Bruceranno nell’ingorgo quel senso di esodo
dalla morte o appressamento insensato
che mute le attraversa nel quotidiano diluvio
di storie e l’oblio spinge all’amore.
Forse restano così, legate in un tenace
bagliore di un pensiero improvviso
al sole che colpisce con un taglio obliquo
e duro rasoterra e scalda a lungo la materia
e ogni angolo di questa civiltà, ogni pietra
o foglia che sanguina sotto le scarpe,
ogni ombra che adesso muore.


Da Come chi non torna, Raffaelli Editore, 2008

mercoledì 2 gennaio 2013

John Keats


LA BELLE DAME SANS MERCI
Una ballata

I
Cosa ti affligge, cavaliere in armi,
E trattiene qui, pallido e solo?
In riva al lago il giunco è secco
E non cantano uccelli in volo.

II
Cosa ti affligge, cavaliere in armi,
Così affranto, così sconvolto?
Lo scoiattolo ha pieno il granaio,
È già ammassato il raccolto.

III
Vedo un giglio sulla tua fronte
Da un’angoscia febbrile imperlata,
Sulla tua guancia una pallida rosa
Troppo presto è sfiorita.

IV
Una dama incontrai per la strada,
Di beltà piena, una figlia di fata,
Capelli lunghi, passo leggero,
E due occhi di sparviero.

V
Una ghirlanda in capo le metto,
Bracciale e cinta profumata;
Lei mi guarda, con dolce lamento,
Come fosse innamorata.

VI
Sul destriero al passo la porto,
E nient’altro quel dì ho scorto, 
Ché contro me reclina cantava
Una canzone incantata.

VII
Per me trova le dolci radici,
Miele selvatico e manna-rugiada,
Con lingua strana certo mi dice – 
Di te sono innamorata.

VIII
Mi conduce a una magica grotta,
Là sospira e si scioglie nel pianto,
Là i ferini suoi occhi selvaggi
Io sigillo con baci quattro.

IX
Là mi culla finché non dormo
E – me misero – subito sogno
Il mio ultimo sogno, sognato 
Sul pendio d’un colle ghiacciato.

X
Là, re e principi vedo, e guerrieri 
– E su tutti un pallore di morte – 
Che mi gridano «La belle dame 
Sans merci ti stringe forte».

XI
Nella sera labbra orride e vuote
Ad ammonirmi spalancate
Vedo e mi sveglio, mi trovo gettato 
Sul pendio del colle ghiacciato. 

XII
Ecco perché io qui dimoro
E mi trattengo, pallido e solo:
In riva al lago il giunco è ormai secco
E non cantano uccelli in volo.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da «Pagine», XVIII, 54, gennaio-marzo 2008