lunedì 30 maggio 2016

Gerard Manley Hopkins

MI SVEGLIO E SENTO

Mi sveglio e sento l’ammanto del buio, non il giorno.
Che ore, oh che ore oscure trascorremmo stanotte!
Che vedute, tu, cuore, vedesti; che vie percorresti!
E ancora dovrai, nell’indugio più lungo della luce.

Io ne parlo con prove. Ma dove dico ore
intendo anni, intendo vita. E i miei lamenti sono grida
sterminate, grida uguali a lettere perse spedite
a lui, il più caro, che vive ahimè! lontano.

Io sono bile, sono bruciore. Il decreto più segreto di Dio
volle farmi assaporare l’amaro e quel sapore ero io;
ossa eressero in me, carne s’incarnò, sangue colmò la sventura.

Il lievito stesso dello spirito guasta l’inerte impasto.
Per i dannati è così; e il loro flagello è, come io sono
il mio, essere i sudanti se stessi; ma al peggio.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da I sonetti terribili, Il Labirinto, 2003

venerdì 27 maggio 2016

Paolo Ruffilli

DELL’ACCELERAZIONE



Appena alzato,
il pettine percorra
tante volte
il capo dalla fronte,
indietro, sulla nuca
e, poi, le unghie
grattino le tempie.

Una spazzola di ferro
raspi la barba,
tagliata di frequente
e non rasata mai. Che
è tra i segreti, con
lo strofinamento,
della prontezza d’animo.

Due o tre starnuti
prima di lavarsi.
E due o tre venti in
altrettanti piegamenti.
Sciacqui con acqua
di salvia e rosmarino,
forti brevi e frequenti.

E strofinàti il naso,
orecchie e mento.
Le palme a conca
con l’acqua fredda
contro gli occhi
aperti e chiusi, di
seguito, più volte.

E acqua fredda
gettata sulla fronte
e intorno al collo,
dietro, sulla nuca.
Ma, di mattino, sopra
ai denti niente pasta
e niente spazzolino.

Le frizioni escludono
gli umori e, nello stesso
tempo, aprendo i pori
tirano il sangue
verso il fuori.
Rifanno duro e molle,
spesso e raro.

Che si riscaldi e
prenda il suo colore,
avanti al cibo
e già svuotati il
ventre e la vescica.
E seguiti la quiete, di lì
in poi, senza impedimenti.

L’acqua e il massaggio
lento rimuovono le
parti morte e rinverdiscono
la pelle. Il sangue,
effervescente, conduce
l’ossigeno al cervello e,
poi, da quello in giro.

L’ora e quelle corte
pratiche rendono
volatile il pensiero
più elastica la mente.
Più acuto, l’orecchio
sente il suono e l’occhio
coglie i segni intorno.

Che, poi, andando
dentro al giorno
più lento, a poco
a poco, il corpo si
dispone all’abbandono.
Volge lo sguardo e
abbraccia il suo passato.

Solo accarezza quello
che aveva dominato
dall’alto della vetta.
Più dolce, poi, ma
fiacco e più offuscato.
Senza il distacco
della linea retta.

da Natura morta, Nino Aragno Editore, 2012



mercoledì 25 maggio 2016

Kenneth Rexroth

CATTIVI TEMPI CHE FURONO

Durante l’estate del diciotto
lessi The Jungle e The
Research Magnificent. In autunno
morì mio padre e mia zia
mi portò a vivere a Chicago.
Per prima cosa presi il tram
che portava ai recinti del bestiame.
Nel pomeriggio d’inverno,
fetido e sporco, camminavo
sulla neve sudicia delle strade
squallide fissando diffidente
le facce di quelli che il giorno
restavano a casa. Facce
logore e corrotte, cervelli
vuoti e saccheggiati, facce
come quelle che si vedono
nelle corsie dei manicomi
o degli asili per vecchi poveri. 
Avide facce di bambini.
Poi, non appena la lurida luce
del crepuscolo svaniva,
sotto i verdi lampioni a gas
e le sfrigolanti lampade ad arco,
le facce degli uomini che tornavano
a casa dal lavoro, qualcuno
ancora vivo, con un ultimo sussulto
di speranza o di coraggio,
alcuni diffidenti e amareggiati,
altri svegli ma stolidi, i più
ormai vuoti e avviliti, non vita,
solo atroce stanchezza,
sfruttati peggio che animali.
Nelle strade colava l’odore
sgradevole di migliaia di pasti
a base di patate e cavoli fritti.
Mi dava le vertigini e la nausea,
e dalla pena sentivo nascere
una rabbia terribile e dal-
la rabbia un impegno solenne.
Oggi il male prospera pulito,
non devi prendere il tram
per incontrarlo, e è lo stesso
dovunque. Ma sono gli stessi
anche pena, rabbia e impegno. 



Traduzione di Francesco Dalessandro

da  The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

lunedì 23 maggio 2016

Giosuè Carducci

ALLA STAZIONE
IN UNA MATTINA D’AUTUNNO

Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tènebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tocco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.


Da Poesie, Zanichelli, 1957



venerdì 20 maggio 2016

Paolo Ruffilli

DEL MOTO E DELLA QUIETE


Corrobora il calore
naturale, assale e
asciuga le superfluità,
più agile fa il corpo
e saldi i nervi, allora
grato, sì, ma solo
se leggero e moderato.

Pochi e lenti sempre
i movimenti, tali
da non forzare mai
il ritmo che è usuale,
necessari e sufficienti.
E, corte, tutte le
azioni accelerate.

Perché il moto, appena
spinto in corsa, è
principio di morte:
il suo precipitare
dentro al vuoto,
rompere e spezzare
i termini, le porte.

Ed è la quiete, invece,
il passo della vita:
andante cadenzato
vibrante modulato
di toni e di battute,
in un tracciato
di piccole impennate.

Il moto avvince
il freddo, lo deprime.
La quiete va più
a fondo e tempera
il calore, sa trarne
ogni vigore. La quiete
è la regola del mondo.

Ma non l’inerzia
che consuma, corrompe
le forze come il moto
estingue l’energia,
e svuota di ogni volontà
e rende schiavi, prede
in tutto della gravità.

Lo stato di deriva
e di galleggiamento
in cui il ritmato
e lento scorrere
degli atomi
li rende scivolosi
e più leggeri.

L’andare delle parti
una sull’altra,
il loro sollevarsi
e levitare al movimento.
L’essere è intanto ravvivato
appena con la spinta
in un momento.

da Natura morta, Nino Aragno Editore, 2012 



mercoledì 18 maggio 2016

Camillo Sbarbaro

PIANISSIMO, Prima parte, 4

Esco dalla lussuria.
                                    M’incammino
pei lastrici sonori nella notte.
Non ho rimorso e turbamento. Sono
solo tranquillo immensamente.
                                                          Pure
qualche cosa è cambiato in me, qualcosa
fuori di me.
                      Ché la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l’ore.
A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.
                                      Mi pare
d’esser sordo ed opaco come loro,
d’esser fatto di pietra come loro.
Ché il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come morti da tanti anni,
come sepolti già nella memoria.
Il nome dell’amico è un nome vano.
Tra me e loro s’è interposto il mio
peccato come immobile macigno.
E se sapessi che il mio padre è morto,
al qual pensando mi piangeva il cuore
di essere lontano ora che i giorni
della vita comune son contati,
se mi dicesser che il mio padre è morto,
sento bene che adesso non potrei
piangere.

Son come posto fuori della vita,
una macchima io stesso che obbedisce,
come il carro e la strada necessario.

Ma non riesco a dolermene.

                                                    Cammino
pei lastrici sonori della notte.



Da Pianissimo, Marsilio, 2001

lunedì 16 maggio 2016

Gino Scartaghiande

ALLORA SOLO UN CASTELLO

Allora solo un castello
ampi muri chiari parlanti
il sorgere della grigia luna
dalla grigia acqua dal
grigio corpo ti sfaldi
l’eco brucia nelle stanze
la castellana i paggi
i suonatori come vertebre
o bicchieri tende tavoli
enigmi dell’estetica
ancora metamorfosi della
logica. O solo un castello
dentro altri castelli il
brulichio di un milione di
corpi. Senza piacere, no.

da Oggetto e Circostanza
raccolta inedita in pubblicazione presso Edizioni Il Labirinto


venerdì 13 maggio 2016

Berardino Rota

ERTI CALLI, ALTI COLLI ORRIDI ED ERMI

Erti calli, alti colli orridi ed ermi,
riposte valli, ombrose selve e sole,
ove mai l’occhio suo non volge il sole,
cerco (chi ’l crederà?) per riavermi.
Né veggon gli occhi tenebrosi infermi
fin qui quel sol che serenar li sòle,
né so trovar conforme al duol parole,
perché, quanto io vorrei, possa dolermi.
Che non sì tosto il cor apre la via
per la lingua al suo mal, ch’ella s’agghiaccia
e nel mezzo la voce trema e more.
In cotal guisa ognor la vita mia,
reciso il germe, avvien che cada e giaccia,
e passan gli anni e non passa il dolore.

da Rime, Guanda, 2000


mercoledì 11 maggio 2016

Serafino Aquilano

L’AQUILA, CHE COL SGUARDO AFFISA EL SOLE

L’aquila, che col sguardo affisa el sole,
tutti i soi figli ancor prova a la spera,
e qual fissar non può, sdegnata e fiera,
morto lo tra’ del mondo e non lo vole.
Simile spesso far mia mente suole
de’ soi penser, poi che son nati a schiera,
che, qual non mira a la mia donna altiera,
presto l’occide e mai non si ne duole.
Questo è quel sol ch’ogni altra vista abaglia,
che, se ’l vedesse ognun come el vidi io,
dirria ch’al mio nisiun stato se aguaglia:
perché la mente a ciascun penser mio
spesso convien per lei tanto alto saglia
che conoscer mi fa che cosa è Dio.


lunedì 9 maggio 2016

Giovan Battista Leoni

TANTO SO D’ESSER VIVO

Tanto so d’esser vivo,
quanto di voi ragiono, penso o scrivo;
ma non ponno aiutarmi
pensier, parole, o carmi,
sì ch’io non pera nel cospetto vostro,
e non divenga in me cieca la mente,
muta la lingua, inutile l’inchiostro.
Così vivo lontan, moro presente
tormento inaudito,
et in me sete voi fine infinito
di speranze, di pianto e di querele,
spirto omicida, anima mia crudele.



venerdì 6 maggio 2016

John Marin

NOTE, DIVAGAZIONI

A una persona che volesse dipingere – o fare qualunque altra cosa – (se mi fosse chiesto) – direi
   Osserva il volo degli uccelli – il modo di camminare dell’uomo – il movimento del mare

   Essi hanno un loro modo – di mantenere il movimento – le leggi naturali del movimento vanno rispettate – e anche tu devi seguirle

   – Il buon quadro accetta queste leggi – i migliori del passato lo fecero – è questo che dà loro vita

   L’uccello intuisce subito che sta facendo la cosa sbagliata – il volo è disturbato – ed esso controbilancia immediatamente quel disturbo per mantenersi in volo

   L’operaio sensibile si rende presto conto della disposizione sbagliata
   L’uccello è (immediatamente) consapevole dell’ala rotta
   L’artista della linea senza vita

   La Terra gira così veloce intorno al Sole – pensi che dovrebbe frantumarsi
   ma no – l’attrazione solare è giusta
   Guarda in alto – il sole splende
   La terra è qui e tutto va bene – la legge basilare è stata rispettata

   Così di fronte al quadro – nel rispetto – sei libero e puoi guardare senza alcuna preoccupazione mentale

   In quanto al messaggio – al racconto – Il fare stesso – il modo stesso in cui è fatto – la cosa stessa che si sta facendo e chi la sta facendo – le sue parti – conducono a questo messaggio – a questo racconto – in realtà sono il messaggio – sono il racconto


   Tu, operaio, t’interessi che un lavoro si ben fatto – ma attento a non sbagliare – poiché – poche linee in apparenza trascurate – poche apparenti macchie di colore – se trattate in modo che il tutto costituisca una cosa viva – be’ – anche questo sarebbe un lavoro ben fatto –


       Non cercare di essere grande
       Non cercare di essere importante

   Tratto dalla mia esperienza personale – Ricordo che un giorno – guardando i miei quadri – la mia testa cominciò a gonfiarsi – si gonfiò enormemente – arrivò quasi ad uccidermi –

   L’antidoto fu un bambino di sei anni – con la sua piccola pittura a colori in un libro
   La cura fu cattiva quanto la malattia – la testa mi si gonfiò così in fretta – che di nuovo – arrivò quasi ad uccidermi –

   Stai costruendo una struttura – come la struttura di un ponte – il ponte convince se strutturalmente in regola – così il tuo quadro


   le cose dovrebbero sembrare giuste
   Anche una piccola cosa come scrivere l’indirizzo su un busta – quanti ne hai visti che si bilanciavano – che adornavano la busta col suo francobollo


   Cerchi di vedere gli oggetti nelle loro posizioni – in movimento – cerchi la (spina dorsale) di questi oggetti oscillanti – ad essa devi attaccarti con tutta la forza che hai
   Tutta la buona letteratura – tutta la buona musica – tutta la buona pittura – rispettano questo principio
   perché – come si piega la spina dorsale – l’intera struttura si piega e io vorrei pensare il quadro – lo scritto – la musica – come strutture collegate che si piegano – e oscillano – sulle loro spine dorsali

   Le buone cose iniziano – le buone cose finiscono – non esitano – iniziano
   – ancora – esse non portano a qualcosa che indebolisce ciò che sta all’interno
   quando il margine è raggiunto – la storia è raccontata – completa – soddisfacente      
   – detto  abbastanza –

   Arte sotto qualunque forma – come la vedo io – non è realistica non è romantica non è astratta non è concreta – non è nient’altro che Arte – semplicemente 
   qualcosa che esiste completamente in se stessa – e si dona solo a – Persone sensibili
perché esse le si accostano correttamente
   ma
       Dio
   ci dev’essere un po’ di sensibilità nella tua composizione – nutrila – coltivala – falla crescere
   ricordati però che è una di quelle cose che – non si possono forzare


   Proporrei (come esercizio) che qualche volta tu prendessi i tuoi due occhi con te – e lasciassi a casa il tuo intelletto – e gli intelletti dei tuoi amici – senza questi intralci – potresti – cominciare a vedere cose che potrebbero sorprenderti

   La parola scritta soffre perché lo scrittore non può darle le sfumature della sua voce –
   per di più – soffre per le molte stupide prefazioni
   La musica scritta soffre perché i professori – i dottori della musica – maltrattano – confondono – con tutti i loro segni e note a piè pagina – lo spirito del compositore
   La parola scritta dovrebbe essere una bella cosa a vedersi – ben spaziata ben bilanciata sulla pagina –
   La musica scritta dovrebbe apparire bella sull sua pagina – le sue note nude – prive di ogni indicazione  
   Il quadro – be’ nessuno può corromperlo – può cambiarlo –
       non che loro non tentino con tutte le forze
   Non ti dicono nella loro stupidità come guardare – dove guardare e guardando cosa vedere – come interpretarlo – cosa leggervi

   – Mettiamo  che sei fuori a spasso – oh nei boschi – lungo i ruscelli – sulle colline
   e – ad ogni passo sulla strada ci fossero cartelli per dirti come camminare – dove camminare – quando fermarti – a quale ritmo camminare – cosa   guardare – e come guardarla
   – di’ – ti saresti goduto la tua passaggiata?

   Le persone sensibili vogliono ascoltare per conto loro – vedere per conto loro
       e non vogliono strafare
  
       perché uno può vedere troppi quadri
       sentire troppa musica
       leggere troppi libri
       vedere e sentire troppo d’ogni cosa
arrivare al punto in cui – non ha più un pensiero originale né alcun sentimento – quasi tutto è preso in prestito
   Ci devono divertire
se ci divertissimo per conto nostro – potrebbe svilupparsi una razza di dilettanti – alcuni dilettanti furono di valore – alcuni hanno fatto cose per la semplice gioia di farle –
       La gente da divertire incoraggia la disonestà
   – la disonestà qualche volta è causata dalla paura di essere presi per stupidi


       Lascia che gli altri si dicano da soli come
       Prenditi la libertà di dirti come

   Queste note – queste mie divagazioni – se ti dànno qualcosa che valga la pena – tanto meglio – se non te la dànno – be’ non te la dànno – ma – temo  mi si debba prendere con molti grani di (sale, credo) se – è il caso
   Si pratica ciò che si predica?
       – anche  se si fa del proprio meglio per riuscirci
        che è ciò che faccio – più o meno

Traduzione di Francesco Dalessandro

John Marin (1870-1953),il grande acquarellista americano dà, in queste Note, divagazioni, una significativa sintesi del suo modo di vedere le cose dell’arte.

mercoledì 4 maggio 2016

Giosuè Carducci

RAGIONI METRICHE

Rompeste voi ’l Tevere a nuoto, Clelia, come
l’antica vostra, o a noi nuova Rea Silvia uscite?

Scarso, o nipote di Rea, l’endecasillabo ha il                                                                              [passo,
a misurare i clivi de le bellezze vostre:

solo co ’l piè trionfale l’eroico esametro puote
scander la via sacra de le lunate spalle.

Da l’arce capitolina del collo fidiaco molle
il pentametro pender, ghirlanda albana, deve.

Batta ne ’l raggio de gli occhi che fiero corusca sì                                                                            [come
tra i colli prenestini dietro l’aurora il sole,

batta l’alcaica strofe trepidando l’ali, e si scaldi
a i forti amori: indietro, tu settenario vile.

Oh, su la chioma ondosa che simile a notte                                                                           [discende
pe ’l crepuscolo pario de le doriche forme

(lasciate a le serve, nipote di Rea, gli ottonari),
corona aurea di stelle fulga l’asclepiadea.


Da Poesie, Zanichelli, 1957

lunedì 2 maggio 2016

Aleksandr Blok

I DODICI

5.

Sul tuo collo ancora, o Cate,
c’è uno sfregio di coltello;
sul tuo seno ancora, o Cate,
c’è uno sgraffio fresco e bello!

            Danza danza, orsù!
            Bei piedini hai tu!

Bianchi pizzi tu portavi –
            vieni qua con me!
Gli ufficiali accompagnavi –
            peccherò con te!

                        Oh peccare insieme
                        all’anima fa bene!

Ti ricordi l’ufficiale?
Dal coltello non scampò...
Scellerata, quale male
la memoria ti rubò?

                        Ti ricordi? Perché
                        non dormi più con me?

Ghette tortora indossavi,
sgranocchiavi dolci rari:
coi cadetti civettavi,
ora vai coi militari...

                        Su, pecchiamo insieme:
                        al cuore farà bene!



Traduzione di Renato Poggioli

I DODICI, Einaudi, 1965