lunedì 30 settembre 2013

Attilio Zanichelli

CADUTA DEGLI UCCELLI

La caduta degli uccelli e il loro parco, dove
e quando espresse la ragione fragile dell’albero,
in quanto non ha più gioia il becco
e la luce non è più gioia! Io dimoravo sotto
la bella erba verde che ha per calore l’effimero,
e i poveri uccelli vidi ballare la polka dentro
la morte. Ma quando gli uccelli cadono, non sono
polvere al vento per i duri sarcasmi dell’uomo.
Rìmano in un ampio destino volentieri, come poeti
che hanno osservato le nuvole scendere dal misero
tetto. Né dimenticheranno. Non passerà mai l’inverno,
per essi cadrà un rintocco e il buio li addormenterà.
Rannuvola le loro ali la tetraggine solita che, indifeso
il branco vede, soffrendo per ordine cupo
quando l’animo loro di fogliame, come l’uomo perduto
nel mondo stringe l’inferno suo come corredo.
Ed è per questa stretta al corpo
che io cado; gli uccelli cadono ed io cado
nell’animata e ultima luce. S’addentra
la cieca ventilazione che fa torcere la bocca
e asciuga nell’oscurità, dopo che opaca, tenue,
spossata sugli abitati ogni cosa declina.
Se vivessi, fino a potermi con preghiera e amore
gridare la loro anima libera! I loro canti!
Ma così, nella disperazione come davanti a un’immensità
senza fine, con la gobba speranza
di attirare verso di me la felicità, bere
i tralci macchiati di luna e di sangue,
come un uccello in gabbia, come una rosa estrema
senza peccato il mio salmo è già pronto. Voglio
morire. La caduta degli uccelli e il loro parco
andranno a splendere nella morte.

Da Una cosa sublime, Einaudi, 1982

venerdì 27 settembre 2013

Luigi Manzi

L’ECO

Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste
e s’arrovella.

Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei passi sul selciato
rimandati dall’andito.

Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.

Da Fuorivia, Edizioni Ensemble, 2013

mercoledì 25 settembre 2013

Mariella De Santis

IN ATTESA DEI BARBARI

Non saremo noi esempio per i timidi i deboli di cuore
Non mescolammo il sangue per fare nuova specie
Rimarranno i forti con i forti i deboli coi deboli
Noi illusi d’essere primi strappati alla carena
Ci togliamo dalle labbra vocali e consonanti
Con cui ardimmo profetare di parole nuove
Non ci renderà migliori la disdetta al sogno
Non interesserà che a uno il nostro sacrificio
Ma tu mentre nella notte ti spogliavi eri solenne
Quanto me credevi nell’onore che portavi al rito

da In attesa dei barbari, Alla pasticceria del pesce, 2013

lunedì 23 settembre 2013

Constantinos Kavafis

QUANDO LA VEDETTA VIDE LA LUCE

Estate e inverno sul tetto degli Atridi
sedeva la vedetta. Ora grida l’annuncio 
di un fuoco che s’è acceso in lontananza. 
E ne esulta felice: finita la fatica.
È difficile restare giorno e notte 
al caldo e al freddo, aspettando che una luce
brilli sull’Aracneo. Alla fine il segnale 
tanto atteso è arrivato. Giunge sempre
con meno gioia del previsto la felicità. 
Ma liberarci da speranze e attese 
questo almeno l’abbiamo guadagnato.
Molto accadrà alla casa degli Atridi –  
e per saperlo non è necessario 
essere un saggio – ora che la vedetta 
ha visto il fuoco. Ma non esageriamo: 
la luce è buona, e è buono anche chi arriva, 
come le sue parole e le sue azioni. 
E noi speriamo che ci aspetti il meglio. 
Argo può fare a meno degli Atridi:
neanche le antiche case sono eterne.
Molti avranno da dire. E noi ascolteremo.
Ma “indispensabile”, “unico” e “grande”,
sono parole che non ci inganneranno.
Un altro indispensabile unico e grande,
si può trovare in qualunque momento.

Traduzione di Nail Chiodo e Francesco Dalessandro


venerdì 20 settembre 2013

Guido Cavalcanti

TU M’HAI SÌ PIENA DI DOLOR LA MENTE

Tu m’hai sì piena di dolor la mente,
che l’anima si briga di partire,
e li sospir’ che manda ’l cor dolente
mostrano agli occhi che non può soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,
dice: «E’ mi duol che ti convien morire
per questa fiera donna, che nïente
par che piatate di te voglia udire».

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.



mercoledì 18 settembre 2013

Francesco Petrarca

LA VITA FUGGE E NON S’ARRESTA UN’ORA

La vita fugge e non s’arresta un’ora
e la morte vien dietro a gran giornate
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra, e le future ancora;

e ’l rimembrare e l’aspettar m’accora
or quinci or quindi, sì che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate
i’ sarei già di questi pensier fora.

Tornami avanti s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo, e poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i venti:

veggio fortuna in porto, e stanco omai
il mio nocchier, e rotte arbore e sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.

lunedì 16 settembre 2013

Matteo Maria Boiardo

IL SOL GIRANDO IN SU QUEL CELO ADORNO 

Il sol girando in su quel celo adorno 
Passa volando e nostra vita lassa, 
La qual non sembra pur durar un giorno 
A cui senza diletto la trapassa; 
Ond’io pur chieggio a voi che sete intorno, 
Che ciascun ponga ogni sua noia in cassa, 
Ed ogni affanno ed ogni pensier grave 
Dentro ve chiuda, e poi perda la chiave. 

Da Orlando innamorato, II, XXXI

venerdì 13 settembre 2013

Torquato Tasso

CANZONE AL METAURO


   O del grand’Apennino
figlio picciolo sì, ma glorioso,
e di nome più chiaro assai che d’onde,
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’ i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al più denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dea, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.
   Ohimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sàssel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
con sospir mi rimembra e de gli ardenti
preghi che se ’n portar l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.
   In aspro esiglio e ’n dura
povertà crebbi in quei sì mesti errori:
intempestivo senso ebbi a gli affanni;
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime e le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto...


mercoledì 11 settembre 2013

Isabella Morra


POSCIA CHE AL BEL DESIR TRONCATE HAI L’ALE

   Poscia che al bel desir troncate hai l’ale,
che nel mio cor sorgea, crudel Fortuna,
sì che d’ogni tuo ben vivo digiuna,
dirò con questo stil ruvido e frale
alcuna parte de l’interno male
causato sol da te fra questi dumi,
fra questi aspri costumi
di gente irrazional, priva d’ingegno,
ove senza sostegno
son costretta a menare il viver mio,
qui posta da ciascuno in cieco oblio.
   Tu, crudel, de l’infanzia in quei pochi anni
del caro genitor mi festi priva,
che,se non è già pur ne l’altra riva,
per me sente di morte i grevi affanni,
ché ’l mio penar raddoppia gli suoi danni.
Cesar gli vieta il poter darmi aita.
O cosa non più udita,
privar il padre di giovar la figlia!
Così, a disciolta briglia
seguitata m’hai sempre, empia Fortuna,
cominciando dal latte e da la cuna.
   Quella ch’è detta la fiorita etade,
secca ed oscura, solitaria ed erma
tutta ho passata qui cieca ed inferma,
senza saper mai pregio di beltade.
È stata per me morta in te pietade,
e spenta l’hai in altrui, che potea sciorre
e in altra parte porre
dal carcer duro il vel de l’alma stanca,
che, come neve bianca
dal sol, così da te si strugge ogni ora
e struggerassi infin che qui dimora.
   Qui non provo io di donna il proprio stato
per te, che posta m’hai in sì ria sorte
che dolce vita mi saria la morte.
I cari pegni del mio padre amato
piangon d’intorno. Ahi, ahi, misero fato,
mangiare il frutto, ch’altri colse, amaro
quei che mai non peccaro,
la cui semplicità faria clemente
una tigre, un serpente,
ma non già te, ver noi più fiera e rea,
ch’al figlio Progne ed al fratel Medea.
   Dei ben, che ingiustamente la tua mano
dispensa, fatta m’hai tanto mendica,
che mostri ben quanto mi sei nemica,
in questo inferno solitario e strano
ogni disegno mio facendo vano.
S’io mi doglio di te sì giustamente
per isfogar la mente,
da chi non son per ignoranza intesa
i’ son, lassa, ripresa:
ché, se nodrita già fossi in cittade,
avresti tu più bismo, io più pietade.
   Baston i figli de la fral vecchiezza
esser dovean di mia misera madre;
ma per le tue procelle inique ed adre
sono in estrema ed orrida fiacchezza;
e spenta in lor sarà la gentilezza
degli antichi lasciata a questi giorni,
se dagli alti soggiorni
pietà non giunge al cor del Re di Francia,
che, con giusta bilancia
pesando il danno, agguaglie la mercede
secondo il merto di mia pura fede.
   Ogni mal ti perdono,
né l’alma si dorrà di te giamai
se questo sol farai
(ahi, ahi, Fortuna, e perché far no ’l dêi?)
che giungano al gran Re gli sospir miei.

lunedì 9 settembre 2013

Bernardo Tasso

ODE AL SIGNOR LELIO CAPILUPO

   Lelio, qui dove il Sole
con l’obliquo suo raggio,
né d’April, né di Maggio
fa, come altrove suole,
dilettoso il terreno
a mille vari fiori aprire il seno:
   o ne l’orrido verno
tiene il nevoso Regno,
e pien d’ira e di sdegno
si fa di Flora scherno
ov’Aquilone irato
copre di gelo ogni monte, ogni prato:
   ove il ghiaccio aspro e duro
pon freno a i fiumi vaghi;
e i freddi stagni e i laghi
nascondeno il suo puro
fondo, qui dove il Cielo
si veste ognor di tenebroso velo:
   fra queste strane genti,
dove virtù et onore,
qual fuor del suo licore
pesci smarriti e spenti
stan, per lungo camino
m’ha scorto il mio infelice, empio destino.
   Qui misero, qui vivo,
se chiamar si può vita
questa, lasso, che invita
l’uomo di gioia privo
in dolorose tempre
a sospirar, a lacrimar mai sempre.
   E se talor mi volto
in quella parte bella,
’ve la mia fida stella
con rugiadoso volto
mi chiama da lontano,
e mi sospira lungamente invano:
   prendo tanto conforto
da quel Cielo amoroso,
ch’ogni stato noioso
pongo in oblio; ma corto
è quel diletto e frale,
poi che lontano è il ben, presente il male.
   O patria illustre, o madre
d’imperadori e regi;
che color fatti egregi
rendono oscure, et adre
tutte l’opre onorate
de l’anime più chiare, e più lodate:
   o patria illustre, o albergo
di quanto ben ci mostra
questa terrena chiostra,
a te m’inalzo et ergo;
e t’onoro e t’esalto,
quanto le rime mie posson gir alto.
   Felice voi, felice
tre volte e più, che il giorno
in sì lieto soggiorno
passate, ove non lice
veder ciò che non sia
tutto pien di virtù, di leggiadria.
   Voi solingo talora 
toltovi al volgo ignaro,
con l’altre muse a paro,
dove Zefiro e Flora
spargon le lor ricchezze,
cantate le divine alme bellezze.
   Di quella, che prescrive
i chiari giorni nostri:
talora con gli inchiostri
purgati, per le rive
vergate, d’un bel rio
carte secure da l’eterno oblio.
   O se benigna sorte
m’apre da l’Oriente
quel dì chiaro e lucente,
ch’al bel desio mi porte,
chi più di me contento 
spargerà voci d’allegrezza al vento?
   Nocchiero accorto e saggio,
c’ha guardata la nave
da tempesta atra e grave,
giunto al fin del viaggio
appende su le sponde
l’umide vesti al Dio de le fals’onde:
   io gli sproni e ’l cappello
qual stanco pellegrino,
che da lungo camino
venga, ad un ramoscello
d’un pino e d’un abete
vo sacrar a la Dea de la quiete:
   indi gioioso e lieto
ne l’onorato monte
ch’orna la bella fronte
del gran Salerno, queto
mirar or ne le chiare
onde scherzar gli ispidi dèi del mare:
   e Dori e Galatea
di perle e di coralli
cinte, amorosi balli
guidar con Panopea:
et arder co sospiri
l’acque nel foco de lor bei desiri.
   E i lascivi Tritoni
talor andar guizzando;
desiosi cercando
i più preziosi doni
per coronare il crine
de le lor ninfe vaghe e pellegrine.
   Talor con la vezzosa
mia pastorella, e lieta,
quando il sovran Pianeta
rende vaga ogni cosa,
e col raggio fecondo
orna di varie sue bellezze il mondo,
   nei mattutini albori,
mentre i soavi augelli
sopra i verdi arboscelli,
che spiran mille odori,
salutan lieti il die,
dolcemente cantar le pene mie:
   e fra il canto, a le rose
de la purpurea bocca,
onde Amor vibra e scocca
le sue gioie più ascose,
involar dolci baci;
e far, con lor garrendo, e guerre e paci.
   Or con le muse amiche,
che stan meco sovente,
cantar lieto e ridente
l’onorate fatiche
del mio Signor gentile,
con colto, vago e dilettoso stile,
   o di chiaro io ti sacro
questa penna; e se mai
a me lieto verrai,
ti farò un simulacro
ne le vivaci carte
’ve fian le glorie tue pinte e cosparte.
   Sì, che mill’anni e poi
le genti che verranno
come al più bel de l’anno,
alzin’ a gli onor tuoi
ricchi e festosi altari,
et vivi ognor fra più famosi e chiari. 




venerdì 6 settembre 2013

Giovanni Della Casa

QUESTA VITA MORTAL, CHE ’N UNA O ’N DUE

Questa vita mortal, che ’n una o ’n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda, involto avea fin qui la pura
parte di me ne l’atre nubi sue.

Or a mirar le grazie tante tue
prendo, che frutti e fior, gielo e arsura,
e sì dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzi ’l dolce aer puro e questa luce
chiara, che ’l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d’abissi oscuri e misti:

e tutto quel che ’n terra o ’n ciel riluce
di tenebre era chiuso, e tu l’apristi;
e ’l giorno e ’l sol de la tua man son opre.

mercoledì 4 settembre 2013

Berardino Rota

ORRIBIL VERNO IN SEN DI PRIMAVERA

Orribil verno in sen di primavera,
avoltoi al pensier, chiodi al cor fissi,
aspidi sotto fior, porpore e bissi
che riescon poi tela e vile e nera,

Cerbero, arpie, sirene, idra e chimera,
diluvi, terremoti, incendi, eclissi,
ima profonda altezza, eccelsi abissi,
son della vita mia l’immagin vera.

Né però, perché al passo ultimo giunga
l’alma, uscir vuol della prigione antica,
anzi al suo strazio i termini prolunga.

Oh va’, per viver suda e t’affatica,
dannoso empio desir di morte lunga,
pace guerriera e nimistate amica!

lunedì 2 settembre 2013

Michelangelo Buonarroti

MILLE RIMEDI INVAN L’ANIMA TENTA

Mille rimedi invan l’anima tenta:
poi ch’i’ fu’ preso alla pristina strada,
di ritornare endarno s’argomenta.
Il mare e ’l monte e ’l foco colla spada:
in mezzo a questi tutti insieme vivo.
Al monte non mi lascia chi m’ha privo
dell’intelletto e tolto la ragione.