lunedì 31 gennaio 2022

Eloy Sánchez Rosillo

 NOTTURNO DI FEBBRAIO

 

Guardo la luna sopra il mare calmo,

il riflesso sull’acqua, argento vivo.

La sua scia che mi segue

accompagna i miei passi sulla riva deserta.

Che mistero insondabile il riflesso,

e che io sia qui, che questa notte esista.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Las cosas como fueron - Poesia completa, 1974-2017, Tusquets Editores, 2018 

venerdì 28 gennaio 2022

Sulpicia

 LE MICROELEGIE


1

 

Finalmente è arrivato, l’amore! 

Senza pudore lo dico: avrei

più vergogna a nasconderlo.

Venere, impietosita dai miei versi,

me l’ha donato e posto

in cuore: ha mantenuto

le promesse. La mia felicità

ora narri colui che non ne ha avuta.

Non vorrei confidarlo

a parole di cera quest’amore:

che nessuno lo sappia

prima di lui, il mio amato.

La colpa è troppo dolce:

fingere la virtù perché dovrei?

Ci dicano degni l’uno dell’altra.


2

 

Ecco giungere odioso il compleanno

che nella noia della campagna,

triste, trascorrerò, senza Cerinto.

Della città cos’è più dolce? È adatta

a una ragazza forse la tua villa

in campagna, Messalla, e il freddo fiume

nell’aretino? Calmati, di me

non preoccuparti, questi viaggi sono

inopportuni e se mi porti via,

perché non posso scegliere,

lascerò qui ogni cosa, anima e sensi.


3

 

La minaccia del viaggio ha abbandonato,

lo sai?, il cuore della tua ragazza.

Perciò nel giorno del tuo compleanno

resterà a Roma. Lo festeggeremo

insieme il giorno che per te ora giunge,

forse inatteso.


4

 

Ti sono grata perché ti permetti

di tutto, senza più curarti

di me: eviterò di cadere

da sciocca, in malo modo.

Tieni più a cuore la veste

di qualche puttanella con la cesta

sul capo di Sulpicia, figlia

di Servio? C’è chi è in ansia

per me, ma soprattutto

l’addolora pensare che potrei

cedere a un letto ignobile.

 

5

 

Ti sta a cuore davvero, Cerinto,

la tua ragazza mentre la febbre

ne brucia il corpo indebolito?

Perché vincere la triste malattia

se non sapessi che anche tu lo vuoi?

Per chi dovrei guarire, se con cuore

indifferente sopporti di vedermi soffrire?


6

 

Che, mia luce, io non sia

più l’ardente passione

tua, come sono stata

nei giorni trascorsi, se in tutta

la giovinezza commisi una colpa –

che confessi più pentita –

insensata, come questa:

averti abbandonato, ieri notte,

da solo, per volerti

nascondere il mio ardore.

 

Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Servi filia Sulpicia. È l’unica notizia certa che abbiamo di questa ragazza poeta (del suo innamorato, Cerinto, si sa anche meno). La parentela con Messalla, che ne ebbe anche la tutela, ha fatto pensare che il padre fosse un tale Servio Sulpicio Rufo, nominato da Cicerone, e di Messalla forse cognato. Ma, dopotutto, cercare di stabilirne l’esatta identità è ozioso. Che Sulpicia facesse parte dell’aristocrazia romana, lo testimonia la raffinatezza della sua educazione, anche letteraria; ma a noi importa che – oltre a costituire un rarissimo esempio di poesia femminile in epoca romana – le sue microelegie, veri bigliettini amorosi, hanno un sapore di toccante, godibile freschezza, la grazia di un dire urgente e quasi smanioso, una secchezza incisiva e senza pudore, che va dritta allo scopo che le preme, al dire e al fare di una storia d’amore intensamente vissuta.

Diverso è il caso di chi rielaborò i suoi bigliettini, o da essi prese spunto per confezionare un piccolo ciclo di cinque elegie. Chi lo fece era poeta vero, non c’è dubbio; ma chi fosse anche in questo caso non sappiamo: si è pensato a Tibullo giovane, ma nel circolo di Messalla operavano forse anche poeti che non conosciamo e uno di essi potrebbe essere l’autore delle cinque elegie. In ogni caso, colui che scrive sull’amore di Sulpicia, pur nell’elaborata raffinatezza formale, e benché non abbia la stessa spontaneità – e tantomeno la sfrontatezza – della ragazza, mantiene un tono fresco e appassionato, diretto e incisivo, di buona presa emotiva.





mercoledì 26 gennaio 2022

Sulpicia

ELEGIE SULL'AMORE


III

 

Qui vieni, Febo, e libera dal male

la tenera fanciulla, vieni qui,

Febo, superbo dei lunghi capelli.

Affrettati e, credimi, non

ti pentirai d’imporre, per guarirla,

le mani su una donna tanto bella.

Non lasciare che le pallide membra

smagriscano e un colore malato

sfiguri il candore del corpo

e qualunque sia il male, qualunque

il pericolo temuto la furia

del fiume lo trascini in mare.

Vieni, e porta le formule, i farmaci

che risanano un corpo malato;

non tormentare chi teme per la vita

della sua donna e fa voti infiniti,

chi, vedendola star male, promette

o bestemmia gli dèi…

Non temere, Cerinto, gli dèi

non arrecano danno agli amanti

e tu ama, continua ad amarla,

la tua ragazza, finché sarà salva.

Non piangere; alle lacrime farai

ricorso quando con te sarà severa:

ora è tua, tutta tua,

e solo a te, nel suo candore, pensa,

mentre illusi l’assediano.

Buon Febo, ti faranno grandi elogi:

salvando un solo corpo, a due persone

hai reso la vita. Sarai presto

celebrato, contento quando, a gara,

ti renderanno grazie sugli altari.

Gli dèi tutti felice ti diranno

e per sé vorrà ognuno le tue arti.


 IV

 

Sempre, Cerinto, il giorno che ti diede

a me, per me sia sacro e benedetto.

Quando nascesti, a te un regno superbo

concessero le Parche e alle ragazze

predissero una nuova schiavitù.

Io più di tutte brucio; ma ch’io bruci,

Cerinto, è così dolce se in te arde

per me lo stesso fuoco! Che l’amore

sia ricambiato, io prego, per la gioia

segreta degli incontri, per i tuoi occhi

e per il Genio. Accogli lieto, Genio,

l’incenso del mattino e favorisci

i miei voti, purché d’amore arda

pensandomi. Ma se per altri amori

già sospira, abbandona quella casa

infedele. E tu, Venere, non essere

ingiusta: che ci avvinca il tuo servizio

uniti o sciogli i vincoli. Legàti

da una forte catena però è meglio,

e nessun giorno possa mai spezzarla.

Il mio ragazzo esprime questo stesso

desiderio, in segreto: si vergogna

di farlo apertamente. Tu che ascolti,

ugualmente esaudiscilo. Che importa

se ti prega in silenzio, o a voce alta? 


 V

 

Giunone protettrice delle nascite,

accetta il sacro incenso che t’offre

la ragazza devota con tenera mano.

A te, oggi, si dedica e per te

s’è fatta bella, per farsi ammirare

ai tuoi altari. Il motivo sei tu

perché si mostra adorna, ma in segreto

vuole piacere a qualcun altro. Tu

assecondala, o dea: che gli amanti

nessuno separi e un reciproco legame

al giovane prepara. Sarà bella

l’unione: a nessun’altra sarà degno

di dedicarsi, lui, né ad altri lei.

Nessun custode li sorprenda, mai:

l’amore trovi il modo per sfuggirgli.

Esaudiscila e splendida, tutta vestita

di porpora, vieni: tre volte focacce

avrai offerte, dea, e tre volte vino.

Una madre premurosa raccomanda

alla ragazza ciò che crede meglio

per lei, ma la ragazza, ormai padrona

di se stessa, chiede altro nel segreto

del suo cuore. Arde ora come fiamma

d’altare e se potessero salvarla

non vorrebbe. Tu aiutala, Giunone,

e immutato, riviva quest’amore,

già vecchio, l’anno prossimo nei voti.


 Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Servi filia Sulpicia. È l’unica notizia certa che abbiamo di questa ragazza poeta (del suo innamorato, Cerinto, si sa anche meno). La parentela con Messalla, che ne ebbe anche la tutela, ha fatto pensare che il padre fosse un tale Servio Sulpicio Rufo, nominato da Cicerone, e di Messalla forse cognato. Ma, dopotutto, cercare di stabilirne l’esatta identità è ozioso. Che Sulpicia facesse parte dell’aristocrazia romana, lo testimonia la raffinatezza della sua educazione, anche letteraria; ma a noi importa che – oltre a costituire un rarissimo esempio di poesia femminile in epoca romana – le sue microelegie, veri bigliettini amorosi, hanno un sapore di toccante, godibile freschezza, la grazia di un dire urgente e quasi smanioso, una secchezza incisiva e senza pudore, che va dritta allo scopo che le preme, al dire e al fare di una storia d’amore intensamente vissuta.

Diverso è il caso di chi rielaborò i suoi bigliettini, o da essi prese spunto per confezionare un piccolo ciclo di cinque elegie. Chi lo fece era poeta vero, non c’è dubbio; ma chi fosse anche in questo caso non sappiamo: si è pensato a Tibullo giovane, ma nel circolo di Messalla operavano forse anche poeti che non conosciamo e uno di essi potrebbe essere l’autore delle cinque elegie. In ogni caso, colui che scrive sull’amore di Sulpicia, pur nell’elaborata raffinatezza formale, e benché non abbia la stessa spontaneità – e tantomeno la sfrontatezza – della ragazza, mantiene un tono fresco e appassionato, diretto e incisivo, di buona presa emotiva.

SEGUE

lunedì 24 gennaio 2022

Sulpicia

 ELEGIE SULLL'AMORE


I

 

Per la tua festa, Marte, s’è agghindata

Sulpicia. Se sei saggio, di persona

scendi dal cielo per vederla; Venere

ti perdona, però bada alle armi,

irruento che sei: mentre la guardi,

con vergogna potrebbero caderti.

Due fiamme nei suoi occhi accende amore,

che infiammano gli dèi; qualunque cosa

faccia, dovunque vada e muova i passi

una segreta grazia l’accompagna.

Se libera le trecce, coi capelli

sciolti è bella; li lega e ricompone,

è due volte più bella. Se vestita

di porpora incede, t’infiamma;

se in veste bianca, luminosa, incontro

ti viene, infiamma. Così, sull’Olimpo

eterno, il dio Vertumno ha mille e mille

ornamenti  e con grazia li indossa.

Lei sola è degna tra tutte da Tiro

di ricevere soffici vesti

due volte tinte di preziosi succhi,

di possedere ogni nuovo profumo

che l’arabo distilla dalle essenze

dei suoi campi odorosi e le perle

raccolte sulla riva del Mar Rosso

dal nero indiano. Durante la festa,

lei, Pièridi, cantate, e tu, superbo

della tua lira, Febo. Per molti anni

celebrerà il solenne rito: degna

nessuna più di lei del vostro coro.


II

 

Il mio ragazzo risparmia, cinghiale

che verdi pascoli cerchi

di pianura, o l’ombra dei monti;

per assalirlo i denti aguzzi

non affilare: l’amore, sua scorta,

lo salvi e me lo renda

incolume. La dea di Delo

l’ispira: la passione per la caccia

lo porta lontano. Le selve

brucino, i cani scappino!

È folle, è folle cingere di reti

sui monti i fitti boschi

straziandosi le tenere mani!

E scendere furtivi nelle tane

delle fiere graffiandosi

le bianche gambe con le spine

dei rovi che piacere

può darti? Ma per stare

con te, Cerinto, per accompagnarti

su per i monti, io stessa porterei

le reti, cercherei

tracce del cervo, scioglierei

la catena del cane.

Luce mia, se davanti

alle reti, abbracciata

con te, potessi amarti abbandonata

alla passione, allora

allora, luce mia, sì che amerei

le selve; e se il cinghiale

s’avvicinasse ai lacci in quel momento,

senza turbare il nostro amore, illeso,

fuggirebbe. Il piacere

dell’amore per te non esista

senza di me, e tu, casto,

con mano casta tocca

la rete: è Diana che lo vuole

e chiunque tenti o insidi

quest’amore la sbranino le belve.

Ma ora lascia a tuo padre

la cura della caccia, torna,

corri veloce tra le mie braccia.


Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Servi filia Sulpicia. È l’unica notizia certa che abbiamo di questa ragazza poeta (del suo innamorato, Cerinto, si sa anche meno). La parentela con Messalla, che ne ebbe anche la tutela, ha fatto pensare che il padre fosse un tale Servio Sulpicio Rufo, nominato da Cicerone, e di Messalla forse cognato. Ma, dopotutto, cercare di stabilirne l’esatta identità è ozioso. Che Sulpicia facesse parte dell’aristocrazia romana, lo testimonia la raffinatezza della sua educazione, anche letteraria; ma a noi importa che – oltre a costituire un rarissimo esempio di poesia femminile in epoca romana – le sue microelegie, veri bigliettini amorosi, hanno un sapore di toccante, godibile freschezza, la grazia di un dire urgente e quasi smanioso, una secchezza incisiva e senza pudore, che va dritta allo scopo che le preme, al dire e al fare di una storia d’amore intensamente vissuta.

Diverso è il caso di chi rielaborò i suoi bigliettini, o da essi prese spunto per confezionare un piccolo ciclo di cinque elegie. Chi lo fece era poeta vero, non c’è dubbio; ma chi fosse anche in questo caso non sappiamo: si è pensato a Tibullo giovane, ma nel circolo di Messalla operavano forse anche poeti che non conosciamo e uno di essi potrebbe essere l’autore delle cinque elegie. In ogni caso, colui che scrive sull’amore di Sulpicia, pur nell’elaborata raffinatezza formale, e benché non abbia la stessa spontaneità – e tantomeno la sfrontatezza – della ragazza, mantiene un tono fresco e appassionato, diretto e incisivo, di buona presa emotiva.

SEGUE

venerdì 21 gennaio 2022

Ligdamo

ELEGIE


V

 

L’onda, amici, che sgorga dalle fonti

etrusche vi trattiene: onda inadatta

all’estiva canicola, ma alle acque

sacre di Baia somiglia nel caldo

di primavera che allenta la terra.

L’ora più nera invece, a me, Persefone

annuncia: così giovane e innocente

ancora, o dea, perché farmi del male?

Non ho svelato, audace, i tuoi misteri,

né la mano ha infettato col veleno

la coppa di qualcuno, né ho scacciato

i malati dai templi, senza averne

pietà, non ho nemmeno incoffessabili

colpe che mi tormentano, e neppure

ho bestemmiato, folle, qualche dio.

Capelli bianchi non hanno macchiato

ancora quelli neri, né è venuta,

con passo strascicato, la vecchiaia

a incurvarmi. Nell’anno dei due consoli

caduti insieme, vinti dallo stesso

destino, i genitori festeggiarono

la mia nascita. L’uva ancora acerba

perché staccare dalla vite, o cogliere

i frutti appena nati? Dèi che in sorte

avete avuto il terzo regno e le acque

livide della morte, chiunque siate,

pietà vi chiedo. Prima che la barca

del Lete, i campi Elisi e i laghi cimmeri

io conosca, lasciate che le rughe

della vecchiaia solchino il mio volto

e che da vecchio racconti ai bambini

le storie d’altri tempi. Che una febbre

da nulla m’atterrisca? Questo spero,

ma da due settimane ormai sto male;

mentre voi celebrate quegli dèi

etruschi e nelle fonti con la mano

pigra smuovete l’acqua. Ricordatevi

di me, siate felici, ovunque io sia:

qui, vivo, o dove vorrà la mia sorte;

e promettete sacrifici: nere

vittime e latte mescolato al vino.



 VI

 

Splendido vieni, Bacco (ed in eterno

viva il mistero della vite, cinta

d’edera sia la fronte), e col rimedio

della coppa allontana il mio dolore:

spesso, vinto, così cadde l’amore.

Spilla vino, ragazzo, e col falerno

schietto riempi i bicchieri. Via gli affanni,

genia crudele, via le angosce! Apollo

rifulga qui coi suoi cavalli alati.

Voi, amici, assecondatemi e nessuno

rifiuti di seguirmi; e chi volesse

sfuggire la battaglia con il vino

sia tradito in segreto dall’amata.

Ti arricchisce nell’animo, e il superbo

l’abbatte, questo dio, e lo dà in balia

della sua donna; vince tigri armene,

vince fulve leonesse, questo dio,

anche ai violenti intenerisce il cuore.

L’amore ti fa questo, ed è capace

anche di peggio; perciò preferite

ciò che vi dona Bacco: a chi di voi

piace il bicchiere vuoto? Non inganna

nessuno, Bacco, e non guarda mai storto

chi col vino lo celebra. Si adira

solo con chi non beve. Perciò beva

chi lo teme. Le pene che minaccia,

e con che forza, lo attesta la madre

cadmèa con la sua preda insanguinata.

Lungi da noi questa minaccia: l’ira

del dio la senta lei, se è meritata.

Ma cosa invoco, folle? Questi voti

li disperdano i venti con le nubi

del cielo. Anche se non mi pensi

più, sii felice, Neèra, e luminosa

la tua sorte. Ora voglio, spensierato,

dedicarmi alla mensa, in questo giorno

finalmente sereno. Ah, simulare

la gioia che non c’è com’è difficile!,

e divertirsi quando il cuore è triste;

il sorriso è una smorfia sulle labbra

di chi mente e i discorsi ebbri hanno un suono

falso, se sei turbato. Ma perché

mi lamento, infelice? Andate via,

turpi angosce: Lenèo padre detesta

parole malinconiche. Ragazza

cretese che piangesti, abbandonata

in mezzo al mare ignoto, gli spergiuri

di Teseo: ti cantò Catullo e disse

del tradimento dell’ingrato. Un monito:

fortunato chi impara dal dolore

degli altri a non soffrire. Da due braccia

gettate intorno al collo, da chi giura

e spergiura, guardatevi. Begli occhi,

belle bugie. Ma spergiuri di amanti

Giove stesso non cura e li abbandona

al vento. Perché allora mi lamento

delle false parole, di promesse

non mantenute? Via da me, vi prego,

discorsi troppo seri. Lunghe notti

vorrei tenerti tra le braccia e lunghi

giorni viverti accanto, con te, perfida

e con me ostile ma senza mia colpa,

perfida, ma, benché perfida, cara.

Bacco ama la sua naiade: coppiere,

perché sei così lento? L’acqua Marcia

temperi il vino vecchio. La ragazza

volubile ha lasciato la mia mensa

desiderando chissà quale letto?

Non passerò la notte a tormentarmi

e a sospirare. Su, ragazzo, versa

un vino forte, puro. Già da tempo,

profumate le tempie con il nardo

di Siria, avrei dovuto incoronarmi

di ghirlande.


Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Di Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia, IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.

Le sue elegie non fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica, mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso. 


mercoledì 19 gennaio 2022

Ligdamo

ELEGIE


III

 

Perché, Neèra, avrei riempito il cielo

di voti e di preghiere, offerto incenso?

Per varcare la soglia di un palazzo

di ricco marmo, ammirato, invidiato

per la splendida casa? Perché i buoi

dissodassero grandi superfici

e la fertile terra offrisse un ricco

raccolto? O per dividere le gioie

della vita, perché la mia vecchiaia

s’addormentasse quieta sul tuo grembo

quando, finito il giorno, sulla nera

barca letèa dovessi andare, nudo?

Che serve l’oro, o che arino i campi

fecondi mille buoi? Vale un palazzo

ben sostenuto da colonne frigie,

(o dalle vostre, Tènaro e Caristo),

con un giardino interno, imitazione

dei boschi sacri, con travi dorate

e pavimenti tutti in marmo? E vale

qualcosa forse la perla raccolta

sulle coste eritree, o la lana tinta

con porpora sidonia, o tutti gli altri

beni tanto ammirati dalla gente?

No, suscitano invidie. Quante cose

si amano a torto! Nessuna ricchezza

dà sollievo agli affanni della mente,

perché la sorte sola ci governa.

Anche la povertà sarebbe dolce,

Neèra, se condivisa; e senza te,

neanche doni regali accetterei.

Alba radiosa a me ti renda, giorno

felice! Ma se un dio ascoltasse ostile

i voti fatti per il tuo ritorno,

non gioverebbe un regno, un fiume d’oro,

o le ricchezze dell’intero mondo.

Le desideri un altro; a me una vita

modesta, da godere con la sposa

amata, senza affanni, basterebbe.

(Esaudisci, Saturnia, tu i miei voti

e stammi accanto; e tu, Cipride bella,

aiutami!) Se invece il tuo ritorno

me lo nega la sorte, e quelle tristi

sorelle, tessitrici del futuro,

l’oscuro Orco alla nera palude

mi chiami e, sopra fiumi desolati,

alla sua morta acqua.


IV

 

Sorte migliore aspetto dagli dèi.

I terribili sogni che stanotte

m’hanno guastato il sonno hanno mentito.

Sparite, dileguatevi, e la falsa

visione si allontani: non le credo!

Annunci veri del futuro danno

solo gli dèi e gli auspici che indovini

traggono dalle viscere. I bugiardi

sogni che infida suscita la notte

falsi timori in animi paurosi

incutono giocando; per soffrire

nato, il genere umano può placare

con farro sacro e sfrigolio di sale

gli infausti, foschi presagi notturni.

Ma veri o falsi i sogni, le paure

della notte Lucina renda vane:

senza ragione avrò temuto un male

immeritato se, in coscienza, non

ho mai commesso azioni turpi

né bestemmiato. Già, sul nero carro,

la notte aveva attraversato il cielo

e bagnato le ruote nell’azzurro

fiume, ma nel sopore che dispensa

il dio benigno ai sofferenti 

non ero ancora scivolato: il sonno

sfugge le case turbate dall’ansia.

Poi, finalmente, quando Febo sorse

alla base del cielo, chiusi gli occhi

affaticati nel riposo. E subito

vidi un giovane entrare nella stanza,

cinto il capo d’alloro. Non umana

era la sua natura, e non si vide

mai, nel passato, cosa tanto bella.

Lunghi e sciolti scendevano i capelli

sul collo, profumati. Come luna

era pallido il corpo, e di un colore

simile a quello che arrossa le guance

d’una ragazza quando per la prima

volta incontra lo sposo, o come quando

gigli e amaranti vengono intrecciati,

o in autunno s’arrossano le mele.

Ai suoi piedi la veste che copriva

il bel corpo sembrava che scherzasse

con le caviglie. Alla spalla sinistra

portava appesa una preziosa lira

d’oro: un canto di gioia, melodioso,

v’intonò all’apparire mentre il plettro

eburneo la toccava. Dita e voce

tacquero, infine; con dolcezza disse

tristi parole: « Amato dagli dèì,

salve. Il poeta, così è giusto, è caro

alle Pièridi, a Febo, e a Bacco, il figlio

di Semele che, insieme alle sue dotte

sorelle, ignora cosa ci riserva

il futuro. A me invece diede il padre

la facoltà di leggere il destino

e gli eventi futuri, perciò ascolta

ciò che dirò senza mentire. Quella

che t’è più cara di figlia a sua madre

o di sposa al marito che la vuole,

per la quale gli dèi invochi, pietosi,

e che riempie d’affanno ogni tuo giorno,

quella che, quando il sonno nel suo nero 

manto t’avvolge, illude le tue notti,

Neèra, che canti, ha scelto un altro e nutre

in cuore una passione nuova,

essere sposa in una casa onesta

non vuole più. Le donne, nome infido,

genia crudele: quella che tradisce,

perisca! Puoi riaverla, se l’aspetti

con fiducia: hanno animo mutevole.

L’amore spinge alle più dure imprese,

l’amore insegna a sopportare offese.

Quando d’Admeto pascolavo bianche

giovenche – non è favola inventata

per gioco – non godevo del piacere

della cetra armoniosa né traevo

suoni dalle sue corde accompagnati

dalla mia voce: modulavo suoni

da una canna forata, figlio illustre

di Latona e di Giove. Che ne sai

dell’amore, ragazzo, se rifiuti

di sopportare crudeltà e tormenti

di un’unione sofferta? Usa lusinghe

e lamenti, blandiscila: anche un cuore

duro si vince. Se predice il vero

l’oracolo del tempio, in nome mio

dille così: ‘L’unione che promette

il dio di Delo è questa, siine lieta

e non volere più un altro marito’ ».

Disse e il torpido sonno fuggì via

dal corpo. Ah, se ignorassi tanto male!

Non crederei che i nostri desideri

sono diversi o che tu in cuore porti

tanta colpa: non fosti generata

dalle onde dell’oceano, o da Chimera

che sputa fiamme, o dal cane col dorso

avvinghiato da serpi, con tre lingue

e tre teste, o da Scilla con il corpo

canino, né crescesti dentro il grembo

di feroce leonessa, o della barbara

terra di Scizia, o dell’orrenda Sirti;

una casa civile ti nutrì,

non degna di persone senza cuore,

e la più buona delle madri e un padre

tra tutti il più cordiale. Possa un dio

volgere in buona sorte quei cattivi

sogni e un tiepido vento li sospinga

lontano e renda vani.     


Traduzione di Francesco Dalessandro


 NOTA

 

Di Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia, IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.

Le sue elegie non fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica, mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso. 

SEGUE 


lunedì 17 gennaio 2022

Ligdamo

ELEGIE 

 

I

 

Le calende di Marte: a Roma è festa

(erano il capodanno dei nostri avi).

Tra case e strade è un unico corteo

di regali scambiati. A Neèra, mia

e (se anche mi sbagliassi) molto cara,

io, Pièridi, che donerò? Le belle

da belle parole si lasciano sedurre

e le avide dall’oro. Dei miei versi,

lei, che sola ne è degna, sarà lieta.

Una lamina d’oro avvolge il niveo

libriccino che le offro, ripulito

dalla pomice; adorno, un cartellino

con la dedica e il nome impreziosisce

l’orlo e i pomi sporgenti all’asticella

sono dipinti: così rifinita

quest’opera va offerta, degnamente.

E prego voi, che m’avete ispirato

questo canto, per l’ombra di Castalia

e le pièrie sorgenti: andate a casa

e datele a mio nome l’elegante

libretto, che non perda il suo colore.

Lei vi risponderà se una passione                   

uguale per me nutre o meno viva                   

o se dal cuore le sono caduto.

Salutatela prima con l’affetto

che merita, poi ditele, parlando

a voce bassa: « Un piccolo regalo

che ti manda chi un tempo ti fu sposo

e ora t’è fratello, Neèra. Accèttalo,

perché tu più del sangue gli sei cara,

sia che gli resti sposa sia sorella.

Ma sposa è meglio: solo sulle livide

acque di Dite, in morte, non avrà

speranza di chiamarti con quel nome ».


II

 

Il primo che strappò all’innamorato

la donna amata o il giovane

innamorato alla sua amante aveva

cuore di ferro, ma chi tanto strazio

sopportò e visse dopo che la sposa

gli fu strappata aveva un cuore ancora

più crudele. Anche un animo forte

piega un forte dolore:

e io non sono forte, né il mio cuore

è indurito; così, non mi vergogno

di dire: di una vita che mi ha dato

soltanto sofferenza, ne ho abbastanza!

Presto un’ombra impalpabile sarò

e le mie bianche ossa nera cenere

coprirà. Allora al rogo Neèra accorra

con i lunghi capelli scarmigliati

e, accompagnata dalla cara madre,

meste lacrime versi. Pregheranno,

invocheranno i Mani e la mia anima,

purificate le mani con l’acqua

raccoglieranno il poco che di me

resta, le bianche ossa, e sulla nera

veste riunite le cospargeranno

prima di vino vecchio poi di latte,

le asciugheranno coi lini sottili

per riporle nell’urna, e là i più ricchi

balsami che ci giungono da oriente

vi verseranno e misti a quelli molte

lacrime, ricordandomi. Da morto

è così che vorrei la sepoltura.

Però il triste motivo della morte

svelino i versi incisi sulla pietra:

           « Qui, Lígdamo riposa.

       Il dolore e la pena per Neèra,

la sposa rubata, ne causarono la morte ».


Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Di Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia, IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.

Le sue elegie non fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica, mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso. 

SEGUE