venerdì 21 gennaio 2022

Ligdamo

ELEGIE


V

 

L’onda, amici, che sgorga dalle fonti

etrusche vi trattiene: onda inadatta

all’estiva canicola, ma alle acque

sacre di Baia somiglia nel caldo

di primavera che allenta la terra.

L’ora più nera invece, a me, Persefone

annuncia: così giovane e innocente

ancora, o dea, perché farmi del male?

Non ho svelato, audace, i tuoi misteri,

né la mano ha infettato col veleno

la coppa di qualcuno, né ho scacciato

i malati dai templi, senza averne

pietà, non ho nemmeno incoffessabili

colpe che mi tormentano, e neppure

ho bestemmiato, folle, qualche dio.

Capelli bianchi non hanno macchiato

ancora quelli neri, né è venuta,

con passo strascicato, la vecchiaia

a incurvarmi. Nell’anno dei due consoli

caduti insieme, vinti dallo stesso

destino, i genitori festeggiarono

la mia nascita. L’uva ancora acerba

perché staccare dalla vite, o cogliere

i frutti appena nati? Dèi che in sorte

avete avuto il terzo regno e le acque

livide della morte, chiunque siate,

pietà vi chiedo. Prima che la barca

del Lete, i campi Elisi e i laghi cimmeri

io conosca, lasciate che le rughe

della vecchiaia solchino il mio volto

e che da vecchio racconti ai bambini

le storie d’altri tempi. Che una febbre

da nulla m’atterrisca? Questo spero,

ma da due settimane ormai sto male;

mentre voi celebrate quegli dèi

etruschi e nelle fonti con la mano

pigra smuovete l’acqua. Ricordatevi

di me, siate felici, ovunque io sia:

qui, vivo, o dove vorrà la mia sorte;

e promettete sacrifici: nere

vittime e latte mescolato al vino.



 VI

 

Splendido vieni, Bacco (ed in eterno

viva il mistero della vite, cinta

d’edera sia la fronte), e col rimedio

della coppa allontana il mio dolore:

spesso, vinto, così cadde l’amore.

Spilla vino, ragazzo, e col falerno

schietto riempi i bicchieri. Via gli affanni,

genia crudele, via le angosce! Apollo

rifulga qui coi suoi cavalli alati.

Voi, amici, assecondatemi e nessuno

rifiuti di seguirmi; e chi volesse

sfuggire la battaglia con il vino

sia tradito in segreto dall’amata.

Ti arricchisce nell’animo, e il superbo

l’abbatte, questo dio, e lo dà in balia

della sua donna; vince tigri armene,

vince fulve leonesse, questo dio,

anche ai violenti intenerisce il cuore.

L’amore ti fa questo, ed è capace

anche di peggio; perciò preferite

ciò che vi dona Bacco: a chi di voi

piace il bicchiere vuoto? Non inganna

nessuno, Bacco, e non guarda mai storto

chi col vino lo celebra. Si adira

solo con chi non beve. Perciò beva

chi lo teme. Le pene che minaccia,

e con che forza, lo attesta la madre

cadmèa con la sua preda insanguinata.

Lungi da noi questa minaccia: l’ira

del dio la senta lei, se è meritata.

Ma cosa invoco, folle? Questi voti

li disperdano i venti con le nubi

del cielo. Anche se non mi pensi

più, sii felice, Neèra, e luminosa

la tua sorte. Ora voglio, spensierato,

dedicarmi alla mensa, in questo giorno

finalmente sereno. Ah, simulare

la gioia che non c’è com’è difficile!,

e divertirsi quando il cuore è triste;

il sorriso è una smorfia sulle labbra

di chi mente e i discorsi ebbri hanno un suono

falso, se sei turbato. Ma perché

mi lamento, infelice? Andate via,

turpi angosce: Lenèo padre detesta

parole malinconiche. Ragazza

cretese che piangesti, abbandonata

in mezzo al mare ignoto, gli spergiuri

di Teseo: ti cantò Catullo e disse

del tradimento dell’ingrato. Un monito:

fortunato chi impara dal dolore

degli altri a non soffrire. Da due braccia

gettate intorno al collo, da chi giura

e spergiura, guardatevi. Begli occhi,

belle bugie. Ma spergiuri di amanti

Giove stesso non cura e li abbandona

al vento. Perché allora mi lamento

delle false parole, di promesse

non mantenute? Via da me, vi prego,

discorsi troppo seri. Lunghe notti

vorrei tenerti tra le braccia e lunghi

giorni viverti accanto, con te, perfida

e con me ostile ma senza mia colpa,

perfida, ma, benché perfida, cara.

Bacco ama la sua naiade: coppiere,

perché sei così lento? L’acqua Marcia

temperi il vino vecchio. La ragazza

volubile ha lasciato la mia mensa

desiderando chissà quale letto?

Non passerò la notte a tormentarmi

e a sospirare. Su, ragazzo, versa

un vino forte, puro. Già da tempo,

profumate le tempie con il nardo

di Siria, avrei dovuto incoronarmi

di ghirlande.


Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Di Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia, IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.

Le sue elegie non fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica, mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso. 


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