ELEGIE
V
L’onda,
amici, che sgorga dalle fonti
etrusche
vi trattiene: onda inadatta
all’estiva
canicola, ma alle acque
sacre
di Baia somiglia nel caldo
di
primavera che allenta la terra.
L’ora
più nera invece, a me, Persefone
annuncia:
così giovane e innocente
ancora,
o dea, perché farmi del male?
Non
ho svelato, audace, i tuoi misteri,
né
la mano ha infettato col veleno
la
coppa di qualcuno, né ho scacciato
i
malati dai templi, senza averne
pietà,
non ho nemmeno incoffessabili
colpe
che mi tormentano, e neppure
ho
bestemmiato, folle, qualche dio.
Capelli
bianchi non hanno macchiato
ancora
quelli neri, né è venuta,
con
passo strascicato, la vecchiaia
a
incurvarmi. Nell’anno dei due consoli
caduti
insieme, vinti dallo stesso
destino,
i genitori festeggiarono
la
mia nascita. L’uva ancora acerba
perché
staccare dalla vite, o cogliere
i
frutti appena nati? Dèi che in sorte
avete
avuto il terzo regno e le acque
livide
della morte, chiunque siate,
pietà
vi chiedo. Prima che la barca
del
Lete, i campi Elisi e i laghi cimmeri
io
conosca, lasciate che le rughe
della
vecchiaia solchino il mio volto
e
che da vecchio racconti ai bambini
le
storie d’altri tempi. Che una febbre
da
nulla m’atterrisca? Questo spero,
ma
da due settimane ormai sto male;
mentre
voi celebrate quegli dèi
etruschi
e nelle fonti con la mano
pigra
smuovete l’acqua. Ricordatevi
di
me, siate felici, ovunque io sia:
qui,
vivo, o dove vorrà la mia sorte;
e
promettete sacrifici: nere
vittime
e latte mescolato al vino.
VI
Splendido
vieni, Bacco (ed in eterno
viva
il mistero della vite, cinta
d’edera
sia la fronte), e col rimedio
della
coppa allontana il mio dolore:
spesso,
vinto, così cadde l’amore.
Spilla
vino, ragazzo, e col falerno
schietto
riempi i bicchieri. Via gli affanni,
genia
crudele, via le angosce! Apollo
rifulga
qui coi suoi cavalli alati.
Voi,
amici, assecondatemi e nessuno
rifiuti
di seguirmi; e chi volesse
sfuggire
la battaglia con il vino
sia
tradito in segreto dall’amata.
Ti
arricchisce nell’animo, e il superbo
l’abbatte,
questo dio, e lo dà in balia
della
sua donna; vince tigri armene,
vince
fulve leonesse, questo dio,
anche
ai violenti intenerisce il cuore.
L’amore
ti fa questo, ed è capace
anche
di peggio; perciò preferite
ciò
che vi dona Bacco: a chi di voi
piace
il bicchiere vuoto? Non inganna
nessuno,
Bacco, e non guarda mai storto
chi
col vino lo celebra. Si adira
solo
con chi non beve. Perciò beva
chi
lo teme. Le pene che minaccia,
e
con che forza, lo attesta la madre
cadmèa
con la sua preda insanguinata.
Lungi
da noi questa minaccia: l’ira
del
dio la senta lei, se è meritata.
Ma
cosa invoco, folle? Questi voti
li
disperdano i venti con le nubi
del
cielo. Anche se non mi pensi
più,
sii felice, Neèra, e luminosa
la
tua sorte. Ora voglio, spensierato,
dedicarmi
alla mensa, in questo giorno
finalmente
sereno. Ah, simulare
la
gioia che non c’è com’è difficile!,
e
divertirsi quando il cuore è triste;
il
sorriso è una smorfia sulle labbra
di
chi mente e i discorsi ebbri hanno un suono
falso,
se sei turbato. Ma perché
mi
lamento, infelice? Andate via,
turpi
angosce: Lenèo padre detesta
parole
malinconiche. Ragazza
cretese
che piangesti, abbandonata
in
mezzo al mare ignoto, gli spergiuri
di
Teseo: ti cantò Catullo e disse
del
tradimento dell’ingrato. Un monito:
fortunato
chi impara dal dolore
degli
altri a non soffrire. Da due braccia
gettate
intorno al collo, da chi giura
e
spergiura, guardatevi. Begli occhi,
belle
bugie. Ma spergiuri di amanti
Giove
stesso non cura e li abbandona
al
vento. Perché allora mi lamento
delle
false parole, di promesse
non
mantenute? Via da me, vi prego,
discorsi
troppo seri. Lunghe notti
vorrei
tenerti tra le braccia e lunghi
giorni
viverti accanto, con te, perfida
e
con me ostile ma senza mia colpa,
perfida,
ma, benché perfida, cara.
Bacco
ama la sua naiade: coppiere,
perché
sei così lento? L’acqua Marcia
temperi
il vino vecchio. La ragazza
volubile
ha lasciato la mia mensa
desiderando
chissà quale letto?
Non
passerò la notte a tormentarmi
e
a sospirare. Su, ragazzo, versa
un
vino forte, puro. Già da tempo,
profumate
le tempie con il nardo
di
Siria, avrei dovuto incoronarmi
di
ghirlande.
Traduzione di Francesco Dalessandro
NOTA
Di
Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse
il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre
parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno
natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie
fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di
un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto
che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi
versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia,
IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a
rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a
restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.
Le sue elegie non
fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica,
mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi
abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del
sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di
situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che
forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è
evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso
dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con
se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del
bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso.
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