ELEGIE
I
Le
calende di Marte: a Roma è festa
(erano
il capodanno dei nostri avi).
Tra
case e strade è un unico corteo
di
regali scambiati. A Neèra, mia
e
(se anche mi sbagliassi) molto cara,
io,
Pièridi, che donerò? Le belle
da
belle parole si lasciano sedurre
e
le avide dall’oro. Dei miei versi,
lei,
che sola ne è degna, sarà lieta.
Una
lamina d’oro avvolge il niveo
libriccino
che le offro, ripulito
dalla
pomice; adorno, un cartellino
con
la dedica e il nome impreziosisce
l’orlo
e i pomi sporgenti all’asticella
sono
dipinti: così rifinita
quest’opera
va offerta, degnamente.
E
prego voi, che m’avete ispirato
questo
canto, per l’ombra di Castalia
e
le pièrie sorgenti: andate a casa
e
datele a mio nome l’elegante
libretto,
che non perda il suo colore.
Lei
vi risponderà se una passione
uguale
per me nutre o meno viva
o
se dal cuore le sono caduto.
Salutatela
prima con l’affetto
che
merita, poi ditele, parlando
a
voce bassa: « Un piccolo regalo
che
ti manda chi un tempo ti fu sposo
e
ora t’è fratello, Neèra. Accèttalo,
perché
tu più del sangue gli sei cara,
sia
che gli resti sposa sia sorella.
Ma
sposa è meglio: solo sulle livide
acque
di Dite, in morte, non avrà
speranza
di chiamarti con quel nome ».
II
Il
primo che strappò all’innamorato
la
donna amata o il giovane
innamorato
alla sua amante aveva
cuore
di ferro, ma chi tanto strazio
sopportò
e visse dopo che la sposa
gli
fu strappata aveva un cuore ancora
più
crudele. Anche un animo forte
piega
un forte dolore:
e
io non sono forte, né il mio cuore
è
indurito; così, non mi vergogno
di
dire: di una vita che mi ha dato
soltanto
sofferenza, ne ho abbastanza!
Presto
un’ombra impalpabile sarò
e
le mie bianche ossa nera cenere
coprirà.
Allora al rogo Neèra accorra
con
i lunghi capelli scarmigliati
e,
accompagnata dalla cara madre,
meste
lacrime versi. Pregheranno,
invocheranno
i Mani e la mia anima,
purificate
le mani con l’acqua
raccoglieranno
il poco che di me
resta,
le bianche ossa, e sulla nera
veste
riunite le cospargeranno
prima
di vino vecchio poi di latte,
le
asciugheranno coi lini sottili
per
riporle nell’urna, e là i più ricchi
balsami
che ci giungono da oriente
vi
verseranno e misti a quelli molte
lacrime,
ricordandomi. Da morto
è
così che vorrei la sepoltura.
Però
il triste motivo della morte
svelino
i versi incisi sulla pietra:
« Qui, Lígdamo riposa.
Il dolore e la pena per Neèra,
la
sposa rubata, ne causarono la morte ».
Traduzione di Francesco Dalessandro
NOTA
Di
Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse
il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre
parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno
natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie
fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di
un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto
che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi
versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia,
IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a
rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a
restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.
Le sue elegie non
fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica,
mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi
abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del
sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di
situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che
forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è
evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso
dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con
se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del
bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso.
SEGUE
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