ELEGIE SULLL'AMORE
I
Per
la tua festa, Marte, s’è agghindata
Sulpicia.
Se sei saggio, di persona
scendi
dal cielo per vederla; Venere
ti
perdona, però bada alle armi,
irruento
che sei: mentre la guardi,
con
vergogna potrebbero caderti.
Due
fiamme nei suoi occhi accende amore,
che
infiammano gli dèi; qualunque cosa
faccia,
dovunque vada e muova i passi
una
segreta grazia l’accompagna.
Se
libera le trecce, coi capelli
sciolti
è bella; li lega e ricompone,
è
due volte più bella. Se vestita
di
porpora incede, t’infiamma;
se
in veste bianca, luminosa, incontro
ti
viene, infiamma. Così, sull’Olimpo
eterno,
il dio Vertumno ha mille e mille
ornamenti e con grazia li indossa.
Lei
sola è degna tra tutte da Tiro
di
ricevere soffici vesti
due
volte tinte di preziosi succhi,
di
possedere ogni nuovo profumo
che
l’arabo distilla dalle essenze
dei
suoi campi odorosi e le perle
raccolte
sulla riva del Mar Rosso
dal
nero indiano. Durante la festa,
lei,
Pièridi, cantate, e tu, superbo
della
tua lira, Febo. Per molti anni
celebrerà
il solenne rito: degna
nessuna
più di lei del vostro coro.
II
Il
mio ragazzo risparmia, cinghiale
che
verdi pascoli cerchi
di
pianura, o l’ombra dei monti;
per
assalirlo i denti aguzzi
non
affilare: l’amore, sua scorta,
lo
salvi e me lo renda
incolume.
La dea di Delo
l’ispira:
la passione per la caccia
lo
porta lontano. Le selve
brucino,
i cani scappino!
È
folle, è folle cingere di reti
sui
monti i fitti boschi
straziandosi
le tenere mani!
E
scendere furtivi nelle tane
delle
fiere graffiandosi
le
bianche gambe con le spine
dei
rovi che piacere
può
darti? Ma per stare
con
te, Cerinto, per accompagnarti
su
per i monti, io stessa porterei
le
reti, cercherei
tracce
del cervo, scioglierei
la
catena del cane.
Luce
mia, se davanti
alle
reti, abbracciata
con
te, potessi amarti abbandonata
alla
passione, allora
allora,
luce mia, sì che amerei
le
selve; e se il cinghiale
s’avvicinasse
ai lacci in quel momento,
senza
turbare il nostro amore, illeso,
fuggirebbe.
Il piacere
dell’amore
per te non esista
senza
di me, e tu, casto,
con
mano casta tocca
la
rete: è Diana che lo vuole
e
chiunque tenti o insidi
quest’amore
la sbranino le belve.
Ma
ora lascia a tuo padre
la
cura della caccia, torna,
corri
veloce tra le mie braccia.
Traduzione di Francesco Dalessandro
NOTA
Servi filia Sulpicia.
È l’unica notizia certa che abbiamo di questa ragazza poeta (del suo innamorato,
Cerinto, si sa anche meno). La parentela con Messalla, che ne ebbe anche la
tutela, ha fatto pensare che il padre fosse un tale Servio Sulpicio Rufo,
nominato da Cicerone, e di Messalla forse cognato. Ma, dopotutto, cercare di
stabilirne l’esatta identità è ozioso. Che Sulpicia facesse parte
dell’aristocrazia romana, lo testimonia la raffinatezza della sua educazione,
anche letteraria; ma a noi importa che – oltre a costituire un rarissimo
esempio di poesia femminile in epoca romana – le sue microelegie, veri
bigliettini amorosi, hanno un sapore di toccante, godibile freschezza, la
grazia di un dire urgente e quasi smanioso, una secchezza incisiva e senza
pudore, che va dritta allo scopo che le preme, al dire e al fare di una storia
d’amore intensamente vissuta.
Diverso è il caso di chi
rielaborò i suoi bigliettini, o da essi prese spunto per confezionare un
piccolo ciclo di cinque elegie. Chi lo fece era poeta vero, non c’è dubbio; ma
chi fosse anche in questo caso non sappiamo: si è pensato a Tibullo giovane, ma
nel circolo di Messalla operavano forse anche poeti che non conosciamo e uno di
essi potrebbe essere l’autore delle cinque elegie. In ogni caso, colui che
scrive sull’amore di Sulpicia, pur nell’elaborata raffinatezza formale, e
benché non abbia la stessa spontaneità – e tantomeno la sfrontatezza – della
ragazza, mantiene un tono fresco e appassionato, diretto e incisivo, di buona
presa emotiva.
SEGUE
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