mercoledì 19 gennaio 2022

Ligdamo

ELEGIE


III

 

Perché, Neèra, avrei riempito il cielo

di voti e di preghiere, offerto incenso?

Per varcare la soglia di un palazzo

di ricco marmo, ammirato, invidiato

per la splendida casa? Perché i buoi

dissodassero grandi superfici

e la fertile terra offrisse un ricco

raccolto? O per dividere le gioie

della vita, perché la mia vecchiaia

s’addormentasse quieta sul tuo grembo

quando, finito il giorno, sulla nera

barca letèa dovessi andare, nudo?

Che serve l’oro, o che arino i campi

fecondi mille buoi? Vale un palazzo

ben sostenuto da colonne frigie,

(o dalle vostre, Tènaro e Caristo),

con un giardino interno, imitazione

dei boschi sacri, con travi dorate

e pavimenti tutti in marmo? E vale

qualcosa forse la perla raccolta

sulle coste eritree, o la lana tinta

con porpora sidonia, o tutti gli altri

beni tanto ammirati dalla gente?

No, suscitano invidie. Quante cose

si amano a torto! Nessuna ricchezza

dà sollievo agli affanni della mente,

perché la sorte sola ci governa.

Anche la povertà sarebbe dolce,

Neèra, se condivisa; e senza te,

neanche doni regali accetterei.

Alba radiosa a me ti renda, giorno

felice! Ma se un dio ascoltasse ostile

i voti fatti per il tuo ritorno,

non gioverebbe un regno, un fiume d’oro,

o le ricchezze dell’intero mondo.

Le desideri un altro; a me una vita

modesta, da godere con la sposa

amata, senza affanni, basterebbe.

(Esaudisci, Saturnia, tu i miei voti

e stammi accanto; e tu, Cipride bella,

aiutami!) Se invece il tuo ritorno

me lo nega la sorte, e quelle tristi

sorelle, tessitrici del futuro,

l’oscuro Orco alla nera palude

mi chiami e, sopra fiumi desolati,

alla sua morta acqua.


IV

 

Sorte migliore aspetto dagli dèi.

I terribili sogni che stanotte

m’hanno guastato il sonno hanno mentito.

Sparite, dileguatevi, e la falsa

visione si allontani: non le credo!

Annunci veri del futuro danno

solo gli dèi e gli auspici che indovini

traggono dalle viscere. I bugiardi

sogni che infida suscita la notte

falsi timori in animi paurosi

incutono giocando; per soffrire

nato, il genere umano può placare

con farro sacro e sfrigolio di sale

gli infausti, foschi presagi notturni.

Ma veri o falsi i sogni, le paure

della notte Lucina renda vane:

senza ragione avrò temuto un male

immeritato se, in coscienza, non

ho mai commesso azioni turpi

né bestemmiato. Già, sul nero carro,

la notte aveva attraversato il cielo

e bagnato le ruote nell’azzurro

fiume, ma nel sopore che dispensa

il dio benigno ai sofferenti 

non ero ancora scivolato: il sonno

sfugge le case turbate dall’ansia.

Poi, finalmente, quando Febo sorse

alla base del cielo, chiusi gli occhi

affaticati nel riposo. E subito

vidi un giovane entrare nella stanza,

cinto il capo d’alloro. Non umana

era la sua natura, e non si vide

mai, nel passato, cosa tanto bella.

Lunghi e sciolti scendevano i capelli

sul collo, profumati. Come luna

era pallido il corpo, e di un colore

simile a quello che arrossa le guance

d’una ragazza quando per la prima

volta incontra lo sposo, o come quando

gigli e amaranti vengono intrecciati,

o in autunno s’arrossano le mele.

Ai suoi piedi la veste che copriva

il bel corpo sembrava che scherzasse

con le caviglie. Alla spalla sinistra

portava appesa una preziosa lira

d’oro: un canto di gioia, melodioso,

v’intonò all’apparire mentre il plettro

eburneo la toccava. Dita e voce

tacquero, infine; con dolcezza disse

tristi parole: « Amato dagli dèì,

salve. Il poeta, così è giusto, è caro

alle Pièridi, a Febo, e a Bacco, il figlio

di Semele che, insieme alle sue dotte

sorelle, ignora cosa ci riserva

il futuro. A me invece diede il padre

la facoltà di leggere il destino

e gli eventi futuri, perciò ascolta

ciò che dirò senza mentire. Quella

che t’è più cara di figlia a sua madre

o di sposa al marito che la vuole,

per la quale gli dèi invochi, pietosi,

e che riempie d’affanno ogni tuo giorno,

quella che, quando il sonno nel suo nero 

manto t’avvolge, illude le tue notti,

Neèra, che canti, ha scelto un altro e nutre

in cuore una passione nuova,

essere sposa in una casa onesta

non vuole più. Le donne, nome infido,

genia crudele: quella che tradisce,

perisca! Puoi riaverla, se l’aspetti

con fiducia: hanno animo mutevole.

L’amore spinge alle più dure imprese,

l’amore insegna a sopportare offese.

Quando d’Admeto pascolavo bianche

giovenche – non è favola inventata

per gioco – non godevo del piacere

della cetra armoniosa né traevo

suoni dalle sue corde accompagnati

dalla mia voce: modulavo suoni

da una canna forata, figlio illustre

di Latona e di Giove. Che ne sai

dell’amore, ragazzo, se rifiuti

di sopportare crudeltà e tormenti

di un’unione sofferta? Usa lusinghe

e lamenti, blandiscila: anche un cuore

duro si vince. Se predice il vero

l’oracolo del tempio, in nome mio

dille così: ‘L’unione che promette

il dio di Delo è questa, siine lieta

e non volere più un altro marito’ ».

Disse e il torpido sonno fuggì via

dal corpo. Ah, se ignorassi tanto male!

Non crederei che i nostri desideri

sono diversi o che tu in cuore porti

tanta colpa: non fosti generata

dalle onde dell’oceano, o da Chimera

che sputa fiamme, o dal cane col dorso

avvinghiato da serpi, con tre lingue

e tre teste, o da Scilla con il corpo

canino, né crescesti dentro il grembo

di feroce leonessa, o della barbara

terra di Scizia, o dell’orrenda Sirti;

una casa civile ti nutrì,

non degna di persone senza cuore,

e la più buona delle madri e un padre

tra tutti il più cordiale. Possa un dio

volgere in buona sorte quei cattivi

sogni e un tiepido vento li sospinga

lontano e renda vani.     


Traduzione di Francesco Dalessandro


 NOTA

 

Di Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia, IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.

Le sue elegie non fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica, mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso. 

SEGUE 


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