mercoledì 29 febbraio 2012

Eloy Sánchez Rosillo



BAGATELLA DELL’ANNO BISESTO

Potresti anche stasera scrivere la poesia
tanto voluta prima che finisse febbraio.
Per te, iniziava marzo, oggi. L’anno bisesto
con un giorno inatteso ti sorprende,
col regalo d’un giorno che per caso
scopri sul calendario.
                                              Ebbene, all’opera!
Non perder tempo. E apprezza questo giorno
in più, nel quale puoi ottenere – se viene
l’ispirazione a dartela – una poesia che parli
di te, di questa luce così dolce e diversa
della sera d’inverno, e d’altre cose. Infine,
di quel che vuoi, di quello che t’accade,
di ciò che t’interessa e sia vero. È lo stesso.
Però non ti distrarre. E lavora.
                                                                  Già scende
la sera. E tu continui a guardare sui tetti
né inizi la poesia. Non ti decidi. Pensi,
come fai spesso, ad altro. Cadrà presto
la notte. E temo molto, temo che morirà
questo giorno che non hai meritato
senza ottenerne niente.
                                                  Dopo non lamentarti.


Traduzione di Francesco Dalessandro



Eloy Sánchez Rosillo, Las cosas como fueron, Tusquets Editores, 2004







lunedì 27 febbraio 2012

Marianne Moore


A UNA LUMACA

Se «la concentrazione è la prima qualità dello stile»,
tu la possiedi. Contrarsi è una virtù
com’è una virtù la modestia.
Non è l’acquisto d’una cosa qualsiasi
che sia solo ornamentale
o la qualità secondaria che accompagna
qualcosa di ben detto
che apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto
nell'assenza di piedi, «un modo per concludere»;
«una conoscenza di princìpi»,

nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.







Traduzione di Francesco Dalessandro







Complete Poems
, Faber and Faber, London-Boston, 1984
















venerdì 24 febbraio 2012

Giuliano Goroni


Si aprono usci ad annunzi piccoli
come un dito, non so che sghemba
molestia di me voleva porto
alle pupille materne (quasi un

Aprile d’allora) e senza premura
c’incontra la domenica col giorno
suo, povero e lento come un portico
abbagliato; in alto campane,

le scarpette di biacca e una piazzetta
sotto, forte della chiacchiera senza
speranza. Un minuto si ferma alto

grande e non ha niente dentro, vola
con un più d’eco un trasumanato
motorino oltre le case che gonfiano

d’una sempre vigilia nel petto
e guardano chi va
con la pigra attenzione di chi resta.


Da Stanze della vita, Rotundo, 1988




mercoledì 22 febbraio 2012

Domenico Adriano


PATMOS

Erano tornati dalla presentazione
del libro in versi, Patmos, di Rodolfo Di Biasio.
E parlavano, parlavano di come
la poesia può salvare nell’uomo
ciò che ancora è umano, e del silenzio
dell’isola dell’Apocalisse dove
l’amico poeta cammina dimentico
di sé, del proprio io... Entrambi innamorati
di quel “marinaio delle stelle”. «Senti,
Maria: ti ricordi le donne di Coreno che
filavano la lana, il fuso che c’incantava...
Cosi è quest’ultima poesia di Rodolfo, un filo
che non si spezza: a seguirlo porterebbe
alla “regione inarrivabile” della saggezza del mondo».
E intanto che parlavano avevano lasciata sola
la nipotina che ancora non sa leggere né scrivere...
«Giulia», volle farsi perdonare la madre
d’averla trascurata, «tu lo sai cos’è una poesia?»
E lei quasi a rimproverarla di una domanda così
scontata: «Ma è una storia, mamma!»


(1995)



(inedita)


lunedì 20 febbraio 2012

Rodolfo Di Biasio


POEMETTO DELLA NEVE


1

Attendo notizie, me le porti
lo sciogliersi della neve
su questo bilanciato silenzio

Dei fatti: incanutiscono nella breve ora di luce
li brucia un sole imbaldanzito
e una deriva li allontana li spazia
e inzavorrati calano in buchi neri
questa interna trama della tetra
che è poi il suo riprendersi
il soffio il fiato nostro

E di me: non mi tornano i gesti
le parole stesse si sfiorano
si chiude il tempo e traccia un suo cerchio
dolorosamente
persegue un suo disegno, ambiguo,
dove l’occhio si sperde
la rosa di luce che varca mare e cielo
ed essa mi cancella anche altre voci
le mie le vostre
perciò attendo notizie, un segno,
la spirale di fumo
i quieti rumori della casa

2

L’attesa s’affissa
allo sciogliersi della neve
che ripete il rito di primavera,
è l’orlo della vita
quando tornano alla terra i suoi colori
giallo e bianco
disseminati colori che l’occhio discopre
con meraviglia per noi ora
che forse nulla sappiamo
e non conosciamo

Dove il vento porta le nubi
o quando il sole taglia radente il verde delle querce
come sottilmente trama la terra il suo viaggio

Nella deriva gli anni accumulati
non colgono il responso:
per routine Sibilla
disperde bizzarre capovolte foglie,
magri segni persistono
sillabazioni che non ci dismalano
che solo ci inducono a percorrere esili tracce,
l’infisso tragitto
e non sappiamo se ospiti o figli
siamo destinati a durare


3

A questo punto solo resta
interrogare il già fatto:
ciglia filiformi capi?
Incunaboli
appena il sole chiude il suo corso
e la notte coniuga vicissitudini
l’intreccio persistente di tremori remoti

Poi che ancora? Scivola un’alba da poco
e i chiari suoni li disperde la luce

La memoria si gonfia d’acque
per un verde che incrina i dorsali,
spezza d’acchito il bianco, è ancora la neve,
e si allarga in dimensioni astrali:
l’ombelico della vita
il dubbio
se siamo noi con le cose
o se camminiamo in cerca di che non sappiamo
il graffito dei giorni
che ingloba sole e azzurro
il fremito il guizzo del sangue
che si disfa in mondiglia

Da Altre contingenze, Caramanica Editore, 1999

venerdì 17 febbraio 2012

Roberto Coppini


SWIMMING POOL

La mezzaluce
sfera soffiata di perla.
Il volgersi degli archi
nella sera.

E tu, mio giorno,
chiazza di sangue animale.

Il buio affonda reti.
Anch’io getto scandagli
urto allo stesso vetro.
Tenta più calmi ormeggi
la memoria divisa
dal suo ramo.

E tu, mio giorno,
tronco radice foglia.
Giro di boa
che doppio
lasciandomi dietro
un tempo
tra scatti e silenzio.

Lo swimming pool si accende
rettangolo azzurro
sul campo che fumiga inverno.

E tu, mio giorno,
aperto melograno
rappresa verginità
sui vetri delle serre.

Non dà eco la stanza.
« Di qua. Venga di qua ».

E tu, mio giorno,
alzata città fino agli astri.

Non dà eco la stanza.
« Il babbo è come il tempo.
Ha scatti ».

E tu, mio giorno,
tacita radura.

« È odore tra legna
e limoni.
A volte pare acqua ».

E tu, mio giorno,
indistinto tramite
barca viandante
uccello migratorio
inquieta giuntura
che cede.

« Il babbo è come l’aria,
il tempo ».

E tu, mio giorno,
fiamma di scaglie spina
acuta trafittura.

1o novembre 1967


Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978

mercoledì 15 febbraio 2012

J. Rodolfo Wilcock


SUL PROGRESSO

Beati loro che pensano al progresso:
io solo penso alla morte o al sesso.


Da Poesie, Adelphi, 1980

lunedì 13 febbraio 2012

Attilio Zanichelli


UNA NOTTE LA LUNA

Reduce da piccoli misfatti la luna si allontanò,
e il tetto, straniato dalla luce e addobbandosi a lutto
dopo che quel magico volto su sepolto dalle nubi
aggredì il cielo come una bocca. E quando strappi
di piccole zampe nere allentando il volo si posero
sopra, con i loro abiti cerimoniosi di penne scure
inviando all’aria i loro saluti con voce stridente,
già la luna che come una màcina divorava la nube
s’era rivista lassù: comparve con gemme sanguigne, e come
un’acqua strana premesse a cadere, sopra il tetto
che si inazzurrò pregando il cielo di splendere, cadde
inalterata come un pettine sui capelli erbosi della terra
e scivolando sul dorso nero degli uccelli. Quella luce
volle che lo sguardo fosse magico, e che i misfatti
notturni cadessero per sempre. E poi l’alba s’impose.


Da Una cosa sublime, Einaudi, 1982


venerdì 10 febbraio 2012

Marianne Moore


LA POESIA


Non piace neanche a me: ci sono cose ben più importanti di tutte quelle astruserie.
    Eppure, con tutto il disprezzo possibile, leggendola, uno scopre
    che dopotutto c'è in essa qualcosa di autentico.
        Mani che possono afferrare, occhi
        che possono spalancarsi, capelli che possono drizzarsi
            se serve: e queste cose non sono importanti


perché è possibile spiegarle in modo pretenzioso ma perché sono 
    utili. Quando sono così elaborate da diventare incomprensibili
    si può dire lo stesso di ognuno di noi, che non
        ammiriamo quel che
        non riusciamo a capire: il pipistrello
        appeso sottosopra o in cerca di qualcosa da


mangiare, elefanti al lavoro, un cavallo selvaggio che si rotola, il lupo infaticabile
    sotto un albero, il critico irremovibile che rabbrividisce come un cavallo quando
                                                                                                                        /sente 
    una pulce, il tifoso di base-
        ball, l'esperto di statistica,
        senza escludere «documenti d’affari e


libri scolastici»; tutti fenomeni importanti. Eppure una distinzione
    va fatta: se sono dei mezzi poeti a metterli in risalto, il risultato non è poesia,
    né lo sarà finché i poeti tra noi non diventeranno
            «letteralisti del-
            l’immaginazione», superiori
            a insolenza e volgarità e non offriranno


al nostro esame «giardini immaginari con veri rospi dentro»
    Ma intanto, se per un verso vuoi
    la materia prima della poesia in
        tutta la sua crudezza e 
        per un altro quel che c'è
            di autentico, beh, allora t’interessa, la poesia.


Traduzione di Francesco Dalessandro



Complete Poems, Faber and Faber, London-Boston, 1984

mercoledì 8 febbraio 2012

Domenico Vuoto


VIAGGIO


I

Alla città si andava seguendo il convoglio
di un’organizzazione internazionale – per
maggiore sicurezza consigliavano.
E noi avevamo il nostro – ogni inferno esige
il suo salvacondotto.
Stipati in due fuoristrada viaggiavano alcune donne
e un cane dal nome scarno un vecchio animale
che pareva, lui sì, indirizzare il convoglio
con l’infinita trasparenza dello sguardo.
Alla guida due giovani croati forti del loro
bisogno dimessi come lo sono quelli
che da lontane ascendenze accolgono il seme
della stanchezza e una riguardosa indifferenza
verso gli arbitrii della Storia.
       
Con malcelato timore seguivamo
in un vettura a breve distanza.


II
                   
Così era, e all’imbocco dell’ultima curva
quando davanti a noi si spianò la città e lei
disse, eccoci, pensai che il luogo fosse ancora
più remoto di prima, neppure un passo s’era
fatto dal punto di partenza un viaggio così
non si improvvisa, avremmo dovuto assumere
le originarie e future mappe nel tempo di quel
luogo la bussola incastonata in una memoria
anteriore e nulla possedevamo di tutto questo
quando il  viaggio è invece rimescolamento
di carte dismissione, meta senza meta, fine
senza fine che solo si accende in una cognizione
                                                           estrema.                                                            
E questo poi dicevo ma non ci fu risposta,
in quel silenzio lessi il nostro primo mortale
                                                turbamento.

 
III

Se il sogno svapora nelle finzioni della luce com’è
che in un luogo che sappiamo reale svanisce la più
esatta geografia? Città di sogno – questo era il senso.
Entrati nei suoi boulevards che era notte io dissi, città                                      
irreale – questa l’immediata percezione – e nei fumi
delle carni nella polvere nell’ombra che l’avvolgeva
vedemmo umane processioni un intero popolo
la percorreva – e bivacchi agli angoli delle strade
come  più nere ustioni della notte –  pareva
che risalissero e scendessero i declivi dei monti
dove la città  si infossa, andirivieni punteggiato
di lumi, i figli dei morti, animata teoria convergente
                                                      verso il nulla.


Ma è anche, pensavo, terra viva e dei vivi, se la vita
attinge a un compiuto sacrificio e quelli ormai rimasti
durano su un’accurata selezione della pena.
Più tardi da sommesse statistiche apprendemmo
come l’erba era cresciuta più rigogliosa nei parchi
fecondati dai morti e di come si tirò dall’Igman
e da  domestiche feritoie e di quanto un calcolato
furore lastricò di rosso il cimitero e il mercato.
Ma non fu così già prima - non è sempre stato?
Degli uomini è la sovrana facoltà di ripetersi.

       
IV          
     
Ora anche le carte sono superate altre le vie
percorribili. Pure, corrive segnalazioni indicano
ancora la biblioteca la moschea il quartiere
mussulmano il caravanserraglio, ricordo di mercantili
affanni patetica illusione, la stagione del Touring
e dei percorsi obbligati. Perciò all’indomani
disciplinatamente passammo di stazione in stazione
e acquistammo cartoline-ricordo. Era così e così adesso
non è più che perdita, dicevi con la mente già lontana.


Poi a un angolo del cimitero nella parte alta della città
scorgemmo un bambino in una garitta stava lì al posto
del padre lo sostituiva, faceva buona guardia. Su una mensola
giaceva un cinturone con pistola, il bambino sorvegliava
i nostri passi fiero intento cresciuto d’anni, mai più se stesso.
Se può uno sguardo accogliere tutto il male  del mondo
era in quegli occhi asciutti disserrati su una via dagli adulti
                                                                       tracciata.


V

Così è, da Sarajevo si può ripartire, non occorre
più guida né convoglio, non c’è rischio, dicono,
ciò che è stato è stato, ciò che è fatto è per sempre.
E quando fummo lontani nei comfort di una nave
e lei disse, eccoci come sempre ancora vivi,
ci guardammo più di prima smarriti, in assenza,
sazi e insaziati, legittimi figli del tempo.

Al bar ordinammo caffè e brioche.


                                                                                 agosto 1997

(inedita)

lunedì 6 febbraio 2012

John Keats


ODE A FANNY

I
Natura guaritrice, che lo spirito sanguini!
Allevia il cuore dai versi, lascia che riposi,
sul tuo tripode gettami finché la soffocante
onda del ritmo rifluisca dal mio petto colmo.
Un tema, un tema! Grande natura,
dammi un tema e cominci il mio sogno.
Vengo – ti vedo, là in piedi,
invitarmi ad uscire nell’aria invernale.

II
Ah, carissimo amore, dolce casa delle mie paure,
di speranze, di gioie e d’ansimi sofferti,
t’immagino, stanotte, vestire la bellezza
di quel delizioso sorriso
così brillante, così luminoso –
che vidi con occhi rapiti, dolenti, tuoi schiavi,
persi nel soffice sogno,
e che m’incantò, m’incantò.

III
Chi, ora, con avide occhiate, divora il mio pasto?
Quale sguardo ora sfida la mia luna d’argento!
Ah, non farti nemmeno toccare la mano;
lascia che brucino gli innamorati,
ma, ti prego, non deviare così presto
da me la corrente del tuo cuore:
per carità, conserva
per me i battiti più rapidi.

IV
Conservali per me, dolce amore, sebbene la musica
diffonda visioni voluttuose nell’aria calda
e tu nuoti tra le pericolose ghirlande del ballo:
sii come un giorno d’aprile,
sorridente, freddo e gaio,
un giglio modesto, modesto quanto bello;
ma, oddio, serba per me
il giugno più caldo.

V
Poiché dirai, Fanny, che niente c’è di vero,
metti la morbida mano sul tuo seno di neve,
dove ti batte il cuore, e ammettilo – che è noto:
non dev’essere una donna
una piuma sospinta dal vento
qua e là sulle onde del mare,
e dalla vita incerta
come il soffione nel prato?

VI
Lo so – e saperlo è la disperazione
per chi ti ama come me, dolce Fanny,
col cuore che ovunque ti segue palpitando,
e che quando te ne vai
non osa restare nella casa abbandonata:
l’amore, solo l’amore ha tante aspre pene;
perciò, amata, liberami tu
dal tormento di questa gelosia.

VII
Ah, se l’anima apprezzi, che ti è sottomessa,
più del misero, vano, breve orgoglio di un’ora,
non far profanare la santa sede del mio amore,
o che spezzi una ruvida mano
la torta sacramentale:
mantieni intatto il fiore appena sbocciato;
altrimenti si chiudano, amore,
i miei occhi per l’ultimo sonno.



Traduzione di Francesco Dalessandro

John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972  




venerdì 3 febbraio 2012

Robert Frost



UNA CAPANNA NELLA RADURA

Nebbia
Quelli che in questa casa riposano, non credo
sappiano dove sono.

Fumo
                                        Sono stati qui a lungo,
hanno respinto il bosco che circondava casa,
l’hanno diviso in due tracciandovi un sentiero.

Nebbia
Però dubito ancora sappiano dove vivono.
Mai, temo, lo sapranno. Il sentiero è un conforto,
per questo lo mantengono: possono visitare
altri che come loro sono smarriti e ai quali
sentirsi vicini, non nello spazio ma nelle difficoltà.

Fumo
Io sono lo spettro vigile del fumo
che uscendo dal camino si piega in un verso
o nell’altro alla luce delle stelle.
Non voglio che si disperi della loro felicità.

Nebbia
Nessuno – non io, certo – li darebbe per persi
solo perché non sanno dove sono.
Io, la copia più umida del fumo, a notte esalo
dal suolo del giardino, ma non salgo più in alto
delle piante. Solo ovatto il paesaggio. Ecco
chi sono. Non più estranea di te al loro destino.

Fumo
Avranno ormai imparato la lingua dei nativi.
Perché non domandano a loro dove sono?

Nebbia
Lo fanno spesso, ma nessuno
ne sa più di loro. Lo chiedono perfino
ai filosofi che li osservano dal pulpito.
Domandano a chiunque si possa domandare –
con la profonda fede che l’esperienza fatta
prenderà fuoco a illuminare il mondo.
Apprendere fu parte della loro religione.

Fumo
Se verrà mai il giorno che sapranno chi sono
capiranno anche meglio dove sono.
Ma chi sono è difficile da credere –
per loro e per il mondo che li guarda.
Sono troppo improvvisi per essere credibili.

Nebbia
Ascoltali, nel buio bisbigliano parlando di domani
e di quel che sarà. Hanno spento la luce,
non i loro pensieri. Fingiamo che le gocce
di rugiada stillanti dalla gronda siamo noi
che origliamo la loro insonnia inquieta –
nebbia e fumo che origliano una bruma –
e forse riusciremo a distinguere il basso dal soprano.

Meglio di fumo e nebbia chi potrebbe apprezzare
lo spirito affine di una bruma interiore?


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The Poetry of Robert Frost, The Collected Poems, Complete & Unabridged, Edited by Edward Connery Lathem, Henry Holt and Company, Inc., 1975




mercoledì 1 febbraio 2012

Rodolfo Di Biasio



QUANDO SARÒ SPECCHIO

E quando sarò specchio a me stesso?

E l’alba non avrà più i suoi nidi
e mi tufferò in spazi galattici
molecola soffio o parvenza?

Di me farò eterna
irreversibile scissura
o l’approdo mi darà spazio e tempo
nella marea a cogliere
le mie naufraghe cose?

Solo ripetere le stagioni:
di me narrare una trita storia
alfa omega
e congiungervi in una stellare dimensione
gli aneliti delle marine
il sangue le consuetudini.

Da Altre contingenze, Caramanica Editore, 1999