ODE
A FANNY
I
Natura
guaritrice, che lo spirito sanguini!
Allevia
il cuore dai versi, lascia che riposi,
sul
tuo tripode gettami finché la soffocante
onda
del ritmo rifluisca dal mio petto colmo.
Un
tema, un tema! Grande natura,
dammi
un tema e cominci il mio sogno.
Vengo
– ti vedo, là in piedi,
invitarmi
ad uscire nell’aria invernale.
II
Ah,
carissimo amore, dolce casa delle mie paure,
di
speranze, di gioie e d’ansimi sofferti,
t’immagino,
stanotte, vestire la bellezza
di
quel delizioso sorriso
– così
brillante, così luminoso –
che
vidi con occhi rapiti, dolenti, tuoi schiavi,
persi
nel soffice sogno,
e
che m’incantò, m’incantò.
III
Chi,
ora, con avide occhiate, divora il mio pasto?
Quale
sguardo ora sfida la mia luna d’argento!
Ah,
non farti nemmeno toccare la mano;
lascia
che brucino gli innamorati,
ma,
ti prego, non deviare così presto
da
me la corrente del tuo cuore:
per
carità, conserva
per
me i battiti più rapidi.
IV
Conservali
per me, dolce amore, sebbene la musica
diffonda
visioni voluttuose nell’aria calda
e
tu nuoti tra le pericolose ghirlande del ballo:
sii
come un giorno d’aprile,
sorridente,
freddo e gaio,
un
giglio modesto, modesto quanto bello;
ma,
oddio, serba per me
il
giugno più caldo.
V
Poiché
dirai, Fanny, che niente c’è di vero,
metti
la morbida mano sul tuo seno di neve,
dove
ti batte il cuore, e ammettilo – che è noto:
non
dev’essere una donna
una
piuma sospinta dal vento
qua
e là sulle onde del mare,
e
dalla vita incerta
come
il soffione nel prato?
VI
Lo
so – e saperlo è la disperazione
per
chi ti ama come me, dolce Fanny,
col
cuore che ovunque ti segue palpitando,
e
che quando te ne vai
non
osa restare nella casa abbandonata:
l’amore,
solo l’amore ha tante aspre pene;
perciò,
amata, liberami tu
dal
tormento di questa gelosia.
VII
Ah,
se l’anima apprezzi, che ti è sottomessa,
più
del misero, vano, breve orgoglio di un’ora,
non
far profanare la santa sede del mio amore,
o
che spezzi una ruvida mano
la
torta sacramentale:
mantieni
intatto il fiore appena sbocciato;
altrimenti
si chiudano, amore,
i
miei occhi per l’ultimo sonno.
Traduzione
di Francesco Dalessandro
John
Keats, Poetical Works, Oxford University Press,
1972
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