mercoledì 8 febbraio 2012

Domenico Vuoto


VIAGGIO


I

Alla città si andava seguendo il convoglio
di un’organizzazione internazionale – per
maggiore sicurezza consigliavano.
E noi avevamo il nostro – ogni inferno esige
il suo salvacondotto.
Stipati in due fuoristrada viaggiavano alcune donne
e un cane dal nome scarno un vecchio animale
che pareva, lui sì, indirizzare il convoglio
con l’infinita trasparenza dello sguardo.
Alla guida due giovani croati forti del loro
bisogno dimessi come lo sono quelli
che da lontane ascendenze accolgono il seme
della stanchezza e una riguardosa indifferenza
verso gli arbitrii della Storia.
       
Con malcelato timore seguivamo
in un vettura a breve distanza.


II
                   
Così era, e all’imbocco dell’ultima curva
quando davanti a noi si spianò la città e lei
disse, eccoci, pensai che il luogo fosse ancora
più remoto di prima, neppure un passo s’era
fatto dal punto di partenza un viaggio così
non si improvvisa, avremmo dovuto assumere
le originarie e future mappe nel tempo di quel
luogo la bussola incastonata in una memoria
anteriore e nulla possedevamo di tutto questo
quando il  viaggio è invece rimescolamento
di carte dismissione, meta senza meta, fine
senza fine che solo si accende in una cognizione
                                                           estrema.                                                            
E questo poi dicevo ma non ci fu risposta,
in quel silenzio lessi il nostro primo mortale
                                                turbamento.

 
III

Se il sogno svapora nelle finzioni della luce com’è
che in un luogo che sappiamo reale svanisce la più
esatta geografia? Città di sogno – questo era il senso.
Entrati nei suoi boulevards che era notte io dissi, città                                      
irreale – questa l’immediata percezione – e nei fumi
delle carni nella polvere nell’ombra che l’avvolgeva
vedemmo umane processioni un intero popolo
la percorreva – e bivacchi agli angoli delle strade
come  più nere ustioni della notte –  pareva
che risalissero e scendessero i declivi dei monti
dove la città  si infossa, andirivieni punteggiato
di lumi, i figli dei morti, animata teoria convergente
                                                      verso il nulla.


Ma è anche, pensavo, terra viva e dei vivi, se la vita
attinge a un compiuto sacrificio e quelli ormai rimasti
durano su un’accurata selezione della pena.
Più tardi da sommesse statistiche apprendemmo
come l’erba era cresciuta più rigogliosa nei parchi
fecondati dai morti e di come si tirò dall’Igman
e da  domestiche feritoie e di quanto un calcolato
furore lastricò di rosso il cimitero e il mercato.
Ma non fu così già prima - non è sempre stato?
Degli uomini è la sovrana facoltà di ripetersi.

       
IV          
     
Ora anche le carte sono superate altre le vie
percorribili. Pure, corrive segnalazioni indicano
ancora la biblioteca la moschea il quartiere
mussulmano il caravanserraglio, ricordo di mercantili
affanni patetica illusione, la stagione del Touring
e dei percorsi obbligati. Perciò all’indomani
disciplinatamente passammo di stazione in stazione
e acquistammo cartoline-ricordo. Era così e così adesso
non è più che perdita, dicevi con la mente già lontana.


Poi a un angolo del cimitero nella parte alta della città
scorgemmo un bambino in una garitta stava lì al posto
del padre lo sostituiva, faceva buona guardia. Su una mensola
giaceva un cinturone con pistola, il bambino sorvegliava
i nostri passi fiero intento cresciuto d’anni, mai più se stesso.
Se può uno sguardo accogliere tutto il male  del mondo
era in quegli occhi asciutti disserrati su una via dagli adulti
                                                                       tracciata.


V

Così è, da Sarajevo si può ripartire, non occorre
più guida né convoglio, non c’è rischio, dicono,
ciò che è stato è stato, ciò che è fatto è per sempre.
E quando fummo lontani nei comfort di una nave
e lei disse, eccoci come sempre ancora vivi,
ci guardammo più di prima smarriti, in assenza,
sazi e insaziati, legittimi figli del tempo.

Al bar ordinammo caffè e brioche.


                                                                                 agosto 1997

(inedita)

3 commenti:

  1. Molto molto bella. ricorda, domenico, una visione di kubin. simo

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  2. ... davvero una bella sorpresa questa prima prova di Domenico poeta. Un racconto in versi efficace e coinvolgente. Capace di cogliere l'essenziale. Complimenti.
    un saluto
    Marcella

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  3. Si, anch'io sono rimasto sorpreso da tale perizia poetica in un amico che non aveva ancora svuotato il sacco. Ho riletto la poesia diverse volte nello spazio di più giorni, per meglio apprezzarla, annullando i per me inevitabili limiti delle prime letture, e debbo dire che mi sembra davvero una grande poesia. Grande almeno quanto il suo tema (gli strascichi del più lungo assedio di una città nella storia, avvenuto soltanto l'altro ieri). Non mi è tanto piaciuto l'ultimo verso, malgrado la sua ironia. Ma forse contiene qualcosa di ineludibilmente spiacevole.

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