mercoledì 30 marzo 2011

Henri Cole

CAMELIA NERA
(da Petrarca)


O cameretta, con quattro tatami e mezzo
e porte di carta scorrevoli, che già fosti un luogo
bianco, traslucido, dove vivere in raffinata povertà,
cosa sei diventata se non un bagno d’acqua che scotta?
O materassino, che ti avvolgevi intorno a me
all’alba mentre svanivano i sogni inconclusi,
cosa sei diventato se non una portantina rosso sangue
di piume strappate e seta lasciata nel sole a prendere aria?
Sarchiando il giardino, potando rape, sorseggiando tè
in mancanza di vino, fuggo il mio amore segreto
e il verme della mente. (Questa è una poesia.
Un tavolo? No, una poesia. Sono forse una ragazza?)
Cerco il volgo macellaio che un tempo odiavo,
per la troppa paura di ritrovarmi solo.

Traduzione di Massimo Bacigalupo
da Autoritratto con gatti, Guanda, 2010

lunedì 28 marzo 2011

Francesco Petrarca

O CAMERETTA CHE GIÀ FOSTI UN PORTO

O cameretta, che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diurne,
fonte se’ or di lagrime notturne,
che ’l dì celate per vergogna porto.

O letticciuol, che requie eri e conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor con quelle mani eburne,
solo ver me crudeli a sì gran torto.

Né pur il mio secreto e ’l mio riposo
fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;

e ’l vulgo, a me nemico et odïoso,
chi ’l pensò mai? per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.

da Rime, Trionfi e Poesie Latine, Riccardo Ricciardi Editore, 1951

venerdì 25 marzo 2011

Luigia Sorrentino

TRE POESIE DA “LE ONDE DELLA TERRA”

*

come salvare questa stirpe
chi penserà a lei
non ci sfiora il ricordo delle conifere
sotto la bocca tagliata del monte l’occhio
che indaga il volo del passero e del merlo
l’occhio che stana la volpe ogni vibrazione
ci fa tremare davanti a lui
che ammonisce molte ore prima della sciagura
gli abbiamo chiesto di tenersi al centro
per reggere l’urto e di procedere con calma
giacché la lentezza è il rito
che presiede il passaggio dell’epoca

*

tu conosci la gioia del filo d’erba
quando tutto è passato
non c’è alcun imbarco nessuna partenza
tutti i voli sono stati cancellati e non c’è tormento
nessuna verità d’uscita
il filo d’erba toccavo il fruscio delle palme toccavo
il pettirosso amico della vallata toccavo
il nido della rondine e il volo del vento toccavo
nell’ora del ginocchio contuso
nel cielo purissimo e denso di nuvola accanto
blu scuro e singhiozzo di luce nel cielo
quel sole in lui che è cielo
da lui svincolarsi ma sono così belli
cielo e nuvola oggi

*

niente ha fermato il giorno che calando
ha pronunciato qualcosa dopo la corsa
ho visto il ragazzo con il vento
e la magrezza della fame
sui gradini di casa e tutto intorno
il giardino splendeva attraversando
i vetri di una bussola la terrazza
dove terminava la corsa
con i limoni contati nelle mani

alcuni passarono in fretta
e furono gli anni di quel vago finire
di giovinezza


da La nascita, solo la nascita, Manni, 2009

mercoledì 23 marzo 2011

Nail Chiodo

LUCUS FERONIAE, CANTO I

Già quarant’anni fa, dall’altra parte dell’empio Atlantico,
parecchi giovani della mia generazione
erano inclini a lasciare città o suburbi
per tornare alla terra, in cerca d’un modo di vivere
diverso, spinti da istintivo disgusto per lo spreco
trasudante dai pori di un corpo politico
vittima di consumanti consumi.
Quei “maledetti, figli di puttana, hippie di merda”
(come i
rednecks locali preferivano chiamare
i figli dei fiori) furono i primi a sentire il calore
del processo di combustione che proprio in quegli anni
aveva raggiunto il punto critico: allora, per alimentare
l’espansione del sistema industriale mondiale,
venne prodotta venduta e comprata più energia
di quella generata dalla fotosintesi delle piante della terra
e dalle acque. Ormai l’Uomo valeva più del Sole.
E questo fu l’inizio di una fine molto particolare.
In seguito a quel mutamento epocale,
il saccheggio del globo è avanzato a vele spiegate
(sarebbe più esatto dire: a tutto vapore),
e ancor più tangibile, a mio avviso,
delle overdose di radiazioni ultraviolette
che attraversano lo strato sottile dell’atmosfera
e ci raggiungono sulla spiaggia, è sapere –
o, se preferite, sentire a pelle – che anche
entro la nostra società ingrandisce un deserto,
più arido di quelli che invadono dai tropici.
Non vorrei aggiungere al danno la beffa
in questo poema, o abbattere una porta già aperta,
tentando di convincere qualcuno di qualcosa,
ma: «L’umanità intera avrà la sorte che merita»
1.
A colpire – va pur detto – è che i casi individuali
confermino la regola generale: che epoca
straordinaria da vivere, ma con la sorpresa
che è in pieno svolgimento un’apocalisse  
a opera d’uomo, quale nessuno dei nostri progenitori
timorati di Dio, a eccezione forse di Malthus,
ha mai immaginato umanamente possibile!
Non è proprio il tipo di storia che si potrà raccontare
ai nipoti («Quando avevo la tua età, il mondo
aveva appena cominciato ad andare in malora…»),
né una rivelazione che sia facile condividere
con i contemporanei («Uomini chini, su signore
pecorelle, bau-bau, grazie, andate pure a casa…»).
Perché – superfluo dirlo – se per noi
non fosse così difficile comunicare,
non ci troveremmo in tali strettoie.
Inoltre, anche questa difficoltà è opera nostra,
sebbene non sia l’effetto di scelte consapevoli
ma della confusione di voci diverse
che potrebbero parlare a un individuo
ma non a una nazione, a una comunità
ma non al mondo: cosa potranno mai dire,
a una ragazza carina, le spartizioni della Polonia?
cosa, l’iniquità della sovrappopolazione?
Tuttavia, essendo le Bestie che siamo, forse
non c’è da stupirsi se la maggior parte di noi,
minimo, è finita preda di tali equivoci:
tutto ciò che fu alle origini dell’umana creazione
– le nostre ascendenze, natura di scimmie
e cultura da caverne, il terrore primordiale
che umiliò i giganti, i soverchianti diritti
delle famiglie e dei clan, il primitivo impegno
dei possidenti a imporre restrizioni ai servitori –,
tutto è ancora con noi, accanto alla smania di libertà;
mentre quel nuovo tipo di colossi che siamo diventati
non può essere umiliato più d’un esercito di formiche,
o della muffa attecchita su una mezza pagnotta.

1 Albert Einstein


Traduzione di Nanni Cagnone
da LUCUS FERONIAE


lunedì 21 marzo 2011

George Gordon Byron

TENEBRA


Ho fatto un sogno non soltanto sogno.
Il sole splendente s’era spento e le stelle
vagavano al buio nello spazio eterno
senza raggio né direzione; la terra gelata
girava cieca abbuiandosi nell’aria illune;
venne mattino, passò, tornò senza recare
giorno, e gli uomini, presi dal terrore
di tanta desolazione, dimenticarono
le loro passioni, i cuori agghiacciarono
pregando in se stessi per avere luce.
Si viveva tutti intorno ai bivacchi:
troni e palazzi di re coronati, capanne
e abitazioni d’ogni genere vennero bruciate
per fare luce, intere città consumate;
gli uomini si stringevano attorno ai roghi
delle case per guardarsi ancora in faccia.
Felici coloro che dimoravano nell’occhio
dei vulcani e dei loro picchi ardenti:
un’atterrita speranza era ciò che restava
al mondo. Le foreste date al fuoco,
d’ora in ora cadendo incenerite sparivano;
i tronchi crepitando si schiantavano
e spegnevano e tutto era nero. I volti umani
a quella luce disperante, se la fiamma
guizzando li colpiva, avevano un aspetto
spettrale. Qualcuno prostrato si copriva
gli occhi e piangeva; altri appoggiavano
il mento sulle mani giunte e sorridevano;
altri ancora correvano su e giù alimentando
i roghi funebri e folli d’inquietudine
guardavano in alto al cielo offuscato,
funebre ammanto di un mondo defunto,
quindi imprecando si gettavano in terra
urlando e digrignando i denti. Gli uccelli
rapaci stridevano atterriti e sbattendo
le inutili ali svolazzavano al suolo; le belve
più feroci diventavano docili e spaurite;
le vipere s’attorcigliavano e strisciavano
tra turbe di genti sibilando senza mordere:
le ammazzavano per cibo. La guerra,
per un poco cessata, riprese a saziarsi:
un pasto si pagava col sangue e ognuno
si saziava ingozzandosi al buio, torvo,
in disparte. Non era rimasto più amore:
la terra era tutta un pensiero di morte,
immediata e ingloriosa; i morsi della fame
rodevano le viscere, gli uomini morivano,
ma le ossa e le carni restavano insepolte.
Magro mangiava magro, anche i cani
assalivano i padroni; tranne uno: rimasto
fedele a un cadavere tenne a bada uccelli,
bestie e uomini digiuni presi dalla fame
finché altri morti stramazzando attrassero
le scarne mascelle; lui non cercò cibo
ma con pietoso e ininterrotto lamento,
e un acuto guaito desolato, leccando
quella mano che ormai non rispondeva
con carezze, morì. Poco a poco, la folla
perì tutta di fame. Di un’immensa città
in due sopravvissero che erano nemici:
s’incontrarono accanto alle braci morenti
di un altare dove un cumulo di sacri
oggetti era ammassato per un empio uso.
Con mani scheletrite e fredde frugarono
e raccolsero ceneri fioche, con esile fiato
vi soffiarono un alito di vita destando
una fiamma beffarda e, a quel chiarore,
alzarono gli occhi per guardarsi in viso:
si videro, gettarono un grido e morirono;
l’uno morì per l’orrore visto nell’altro,
senza sapere a chi la fame aveva scritto
sulla fronte: Demonio. Il mondo era vuoto;
prima popoloso e potente, era un grumo
senza stagioni, senza erbe alberi uomini
e vita: grumo di morte, caos di dura creta.
Fiumi, laghi, l’oceano, tutti erano quieti,
e nulla si muoveva nel silenzio degli abissi.
Navi senza equipaggio marcivano in mare,
gli alberi cadevano in pezzi, affondavano
giacendo a dormire nell’abisso senza flutti.
Le onde morte, sepolte le maree, la luna,
loro signora, già spenta, nell’aria ferma
placatisi i venti, sparite le nuvole – inutili
per essa: la Tenebra era l’Universo.

Traduzione di Francesco Dalessandro
da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto, 2008

venerdì 18 marzo 2011

Gianfranco Palmery

IL DEMONIO INFELICE CHE MINACCIA


Il demonio infelice che minaccia
libri e fogli mi è figlio e
fratello, il gatto fulvo che passeggia
superbo per la mia stanza ma cerca
le mie ginocchia come calde mammelle:


fascio di nervi ardenti e vaso
di lamenti attraversa la casa, forza
tutte le porte e appena si placa nei
penetrali odorosi di camere, ascelle - 


ma da solo la notte lotta nelle tenebre,
rischia con i suoi dèmoni e si slancia
fuori al mattino per un bagno
di luce, come un guerriero sfinito


o un bambino - punta uccelli che mai
prenderà; cerca il cibo, si appisola, si
spulcia: cura la sua faticosa gattità.


(3.VII.80)


da Gatti e prodigi, Il Labirinto, 1997

mercoledì 16 marzo 2011

Wisława Szymborska

IL GATTO IN UN APPARTAMENTO VUOTO


Morire - questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto
in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.


Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.


Qualcosa qui non comincia
alla sua solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c'era qualcuno, c'era,
poi d'un tratto è scomparso
e si ostina a non esserci.


In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani si è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Che altro si può fare.
Aspettare e dormire.


Che lui provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all'inizio niente salti né squittii.


Traduzione di Pietro Marchesani
da La gioia di scrivere (tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, 2010



lunedì 14 marzo 2011

Giacomo Leopardi

LA VITA SOLITARIA

La mattutina pioggia, allor che l’ale
battendo esulta nella chiusa stanza
la gallinella, ed al balcon s’affaccia
l’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
i suoi tremuli rai fra le cadenti
stille saetta, alla capanna mia
dolcemente picchiando, mi risveglia;
e sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
degli augelli susurro, e l’aura fresca,
e le ridenti piagge benedico:
poiché voi, cittadine infauste mura,
vidi e conobbi assai, la dove segue
odio al dolor compagno; e doloroso
io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
benché scarsa pietà pur mi dimostra
natura in questi lochi, un giorno oh quanto
verso me più cortese! E tu pur volgi
dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
le sciagure e gli affanni, alla reina
felicità servi, 0 natura. In cielo,
in terra amico agl’infelici alcuno
e rifugio non resta altro che il ferro.

Talor m’assid0 in solitaria parte,
sovra un rialto, al margine d’un lago
di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
la sua tranquilla imago il Sol dipinge,
ed erba 0 foglia non si crolla al vento,
e non onda incresparsi, e non cicala
strider, né batter penna augello in ramo,
né farfalla ronzar, né voce 0 moto
da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
sedendo immoto; e già mi par che sciolte
giaccian le membra mie, né spirto 0 senso
più le commova, e lor quiete antica
c0’ silenzi del loco si confonda.

Amore, amore, assai lungi volasti
dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
anzi rovente. Con sua fredda mano
lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
nel fior degli auni. Mi sovvien del tempo
che mi scendesti in seno. Era quel dolce
e irrevocabil tempo, allor che s’apre
al guardo giovanil questa infelice
scena del mondo, e gli sorride in vista
di paradiso. Al garzoncello il core
di vergine speranza e di desio
balza nel petto; e già s’accinge all’opra
di questa vita come a danza o gioco
il misero mortal. Ma non sì tosto,
amor, di te m’accorsi, e il viver mio
fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
su la tacita aurora o quando al sole
brillano i tetti e i poggi e le campagne,
scontro di vaga donzelletta il viso;
0 qualor nella placida quiete
d’estiva notte, il vagabondo passo
di rincontro alle ville soffermando,
l’erma terra contemplo, e di fanciulla
che all’opre di sua man la notte aggiunge
odo sonar nelle romite stanze
l’arguto canto; a palpitar si move
questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
ogni moto soave al petto mio.

O cara luna, al cui tranquillo raggio
danzan le lepri nelle selve; e duolsi
alla mattina il cacciator, che trova
l’orme intricate e false, e dai covili
error vario lo svia; salve, o benigna
delle notti reina. Infesto scende
il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
a deserti edifici, in su l’acciaro
del pallido ladron ch’a teso orecchio
il fragor delle rote e de’ cavalli
da lungi osserva 0 il calpestio de’ piedi
su la tacita via; poscia improvviso
col suon dell’armi e con la rauca voce
e col funereo ceffo il core agghiaccia
al passegger, cui semivivo e nudo
lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
per le contrade cittadine il bianco
tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
va radendo le mura e la secreta
0mbra seguendo, e resta, e si spaura
delle ardenti lucerne e degli aperti
balconi. Infesto alle malvage menti,
a me sempre benigno il tu0 cospetto
sarà per queste piagge, ove non altro
che lieti c0lli e spaziosi campi
m’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
bench’inn0cente io fossi, il tuo vezzoso
raggio accusar negli abitati lochi,
quand’ei m’0ffriva al guardo umano, e quando
scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
veleggiar tra le nubi, 0 che serena
dominatrice dell’etereo campo,
questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
errar pe’ boschi e per le verdi rive,
0 seder sovra l’erbe, assai contento
se core e lena a sospirar m’avanza.


da Canti, Einaudi, 1969

venerdì 11 marzo 2011

Franco Fortini

TRADUCENDO BRECHT

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli opprcssi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.


da Poesie scelte, Oscar Mondadori, 1974

mercoledì 9 marzo 2011

Bertolt Brecht

VISITA AI POETI IN ESILIO

Quando in sogno egli entrò nella capanna
dei poeti in esilio, che è prossima a quella
dove i maestri in esilio dimorano – litigi e risate
ne udiva venire – a lui sulla soglia si fece
Ovidio e, a mezza voce, gli disse:
«Meglio che tu non ti sieda, ancora. Non sei ancora morto. Chi sa
se non ritorni in patria, forse? E senza che altro si muti
fuor che tu stesso». Ma, con uno sguardo di conforto,
si avvicinò Po Chu-I e sorridendo gli disse: «Meritatamente
fu colpito, chi nominò l’ingiustizia anche solo una volta».
E il suo amico Tu Fu disse, tranquillo: «Capisci, l’esilio
non è il luogo adatto a dimenticar la superbia». Ma più terrestre,
e tutto stracci, Villon entrò in mezzo chiedendo: «La casa
dove stai, quante porte ha?» E Dante lo prese
da parte, per la manica, e gli mormorò: «Quei tuoi versi,
amico, son brulicanti di errori: considera dunque
che tutto è contro di te!» E Voltaire, più lontano, chiamando:
«Bada al soldo, 0 ti affamano!»
«E mettici qualche burletta! », grido Heine. «Ma è inutile!»,
brontolò Shakespeare: «Quand0 Re Giacomo venne
anch’io non potei scriver più». «E se arrivi al processo,
per avvocato prenditi un cialtrone!», raccomandava Euripide,
«perché conosce i buchi nella rete della Legge». Le risa
duravano ancora quando, dall’angolo più tenebroso,
venne una voce: «O tu, li sanno a mente
quei tuoi versi? E quelli che li sanno
si salveranno dai persecutori?» «Quelli
sono i dimenticati», disse, a bassa voce, Dante:
«non solo i corpi a loro, anche l’opere furono distrutte».
Cessarono le risa. Nessuno osava guardare laggiù. Il nuovo venuto
era impallidito.

Traduzione di Franco Fortini
da Poesie, Einaudi, 1992

lunedì 7 marzo 2011

William Shakespeare

SONETTO LXVI

Stanco di tutto questo, quiete di morte imploro:
quando il merito ora nato vedo mendicare
e misere nullità vestirsi a festa
e la fede più pura tristemente tradita
e grandi onori indegnamente attribuiti
e la casta virtù brutalmente venduta
e l’integrità ingiustamente calpestata
e il vigore svilito da un potere azzoppato
e l’arte dall’autorità imbavagliata
e la follia presuntuosa frenare l’ingegno
e la schietta verità scambiata per stoltezza
e il bene asservito al comandante male.
Stanco di tutto questo, da questo andrei lontano,
se morendo il mio amore io non lasciassi solo.

Traduzione di Francesco Dalessandro


William Shakespeare, Complete Sonnets and Poems, Oxford University Press, 2002

venerdì 4 marzo 2011

Camillo Fonte

ELEGIA

Ancora ti sorprendo e non so come
nella mia poca quiete, generata
dalla bassa marea, qui ricondotta
da secoli d’angustie.
                                    Dopo i gesti
abituali d’amore, l’espiazione del sonno
aspettavo. In un vuoto di memoria
fiorivano parole logorate dall’uso,
allora, e la mia mano
sopra la tua posavo: tu dormivi
sazia d’amore. Cara, il nostro darci
e prenderci è per noi l’ultimo danno,
volevo dirti. Poseremo il fianco
qui per l’ultima volta; lasceremo
questa riva e il suo mitico entroterra,
noi, gli umani. Altre parole
volevo dirti, non sapute, mai dette.
Nasceremo di nuovo? Conteremo
altre notti, una, due? Da lontano verrai
nella mia poca quiete, se il ritorno
mi sarà dato.
                        Come
non so dirti, ma l’ansia che il tuo viso,
dopo tanti anni, mi risveglia nasce
ancora da un dolore non estraneo, prezioso.


(inedita)



Camillo Fonte è nato il 1 giugno 1952 all’Aquila; vi è morto, di sua mano, il 21 giugno 1987. Era insegnante di lettere in un istituto tecnico per ragionieri. Poeta conosciuto appena in ambito locale, è del tutto inedito. Quest’elegia è tratta da un poema, L’isola, un’odissea riscritta modernamente, al quale egli stava lavorando al momento della morte e del quale la sola prima parte era conclusa; di una seconda, non restava che il progetto.







mercoledì 2 marzo 2011

Carles Riba

ELEGIA IV

Pura nella solitudine e nell’ora lenta, una donna
fa scivolare, con moto di albero o di grido amoroso,
dolce, lungo le braccia innalzate, la tunica. Mentre
già brilla il busto segreto, in alto, prigioniera del lino
rimane la testa. Un attimo o due. Ah! Basta per rompere
foscamente il legame fra la bella e questo
timido giugno che da lei attendeva, nuda nell’onda,
gioia ed impulso fluviale per farsi perfetto? È bastato
dato che tu, imponderabile cosa di oro e di sguardo,
testa, fiore dritto, ne sorgi indecisa – come temendo
il nulla del silenzio ora, complice fausto di prima?
Un cuculo canta d’improvviso, innocente.
Lei sorride. Torna a scorrere il sangue giovane del mondo,
salta, brusco, come la magnifica, e corre avanti nel tempo
verso soli più maturi – e lei nuota, oh ritmo!
verso l’estate eccessiva – lei e i miei occhi e gli dèi!

Traduzione di Giuseppe E. Sansone
da Elegie di Bierville, Einaudi, 1977