lunedì 29 giugno 2015

Philippe Jaccottet

INTERNO

Cerco da tempo di vivere qui,
in questa stanza che fingo d’amare,
tavolo, oggetti quieti, la finestra
che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,
e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,
punti di luce sulle macchie d’ombra.

Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,
sono a casa, la giornata sarà buona».
C’è solo, in fondo al letto, questo ragno
(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza
ucciso, sembra stia tessendo ancora
la trappola al mio fragile fantasma...

da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi, 2010

venerdì 26 giugno 2015

Gino Scartaghiande

IL NOME

III

Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’io son fatto scriba.*

Il bosco trasfigura tra le mille aureole
del sole cristallino. Noi non siamo mai
stati così leggeri; il fresco degli alberi
è una culla di riposante bellezza. Il cielo
non è per niente lontano. Per arrivare qui
non abbiamo percorso strade, ci siamo solo
affacciati da un balcone luminoso come per
una sospensione d’aria.

* Dante, Par., 10, 22-27


Da Oggetto e circostanza (Poesie 1974-1999) (antologia inedita)

mercoledì 24 giugno 2015

Gino Scartaghiande

IL NOME

II

Dopo aver rosicchiato tutti i vetri di
finestre. Dopo che tutto il nero era entrato.
La lotta era un dispiegarsi d’energia all’interno
del nero. Ma ora anche il nero se ne va. Resta nulla.
Ogni cosa che potrà venire in seguito la si dovrà
prima creare.

Ma innumerevoli gerani fioriti fioriti fioriti fioriti fioriti SÌ!

verrà verrà verrà il fiore atteso verrà

Qui procedendo in movimento di antico sonno
gli atomi sparsi s’incontrano, ricompongono
e scompongono stati energetici.
Noi qui perdiamo la cognizione del vuoto e del nulla.
Noi disconosciamo la materia e l’energia. Noi non  pensiamo;
noi non pensiamo né l’azione, né la stasi. Non abbiamo pietre
di paragone. Noi non misuriamo. A noi in assoluto non importa.
Qui non si fa questione di nero o di bianco. Ogni relatività
non è più posta. Noi ci poniamo qui come altro.
L’atomo, l’elettrone e il quanto d’energia sono
rigettati. Accettiamo solo le risultanze dell’assurdo,
ma respingiamo l’assurdo come ipostatizzazione.
Respingiamo i procedimenti.

Qui la parola
il nome si fa
trovare solo
per dire
cose che non
siano quella
parola quel
nome

Qui così. Voi incastrate cieli. Voi rattoppate
cieli cucendoli coi voli delle rondini. E i
tetti delle case s’allungano su case microscopiche.
Voi guidate automobili con cristalli insanguinati.
Voi andate impossibilitati ad andare. Voi sollevate
veli dalle città di polvere. Voi andate via dalle finestre.
Voi cantate albeggiando sui ruderi del futuro. Ogni uomo
ha i propri due occhi su di un pianeta che non è la terra.
Noi sentiamo la sera. Noi sentiamo le città bruciare.
Noi innaffiamo muri. Noi andiamo nel cielo che è un
cimitero non dimenticato. Noi e Voi ricomponiamo.
Noi e Voi percorriamo
gradini orizzontali. Noi e Voi conserviamo il NOME
e la sua dissonanza e la sua pace.


Da Oggetto e circostanza (Poesie 1974-1999) (antologia inedita)

lunedì 22 giugno 2015

Gino Scartaghiande

IL NOME

I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d'acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l'esistenza.

So di certo chi sei, chi sono. L’asfalto
grigio della strada. Il tuo sangue sull’
asfalto penetratomi sin d’allora. E so
che altre strade dovrò ancora assorbire,
altro vetro frantumare, prima di poter
pronunciare il tuo nome, che sarà anche mio
e infine nostro. Ti chiamerò Rosa Luxemburg.
Mi darai il nome.
Ti chiamerò mentre ti uccideranno. Sarà
come ricevere una tua lettera d'amore.
Dovrò meritarla. Ora ancora no.

I gradini scorrono lontano, fuggono come
tastiere di pianoforte, fuggono in tutte le
direzioni. Non so se muovermi coi piedi o se
affidarmi all’ascolto. Ma devo assolutamente
trovare il punto ove tutti i gradini e
tutte le voci confluiscono. Un foglio
trasportato dal vento, un grido d’aiuto
basterà?

Ora. Sono pronto a barattare ogni cosa
per questo incontro. E vedo talmente bene
il nero che cola sui gradini. Anche dagli
occhi, anche gli occhi che vedono colano
nero, come assassini che complottano,
che attentano.

Sono pronto. Ma non ancora in stato di
grazia. Cara Rosa, oggi è stata una
giornata piovosa, ma stasera il cielo

era sgombro e c’erano le stelle.
Sento di svegliarmi, non so ancora 
dove. Con ostinata certezza percorro
tutte le ferrovie della terra.

Morire è un lusso che non possiamo permettere
né alla fantasia né alla pratica quotidiana.
E soprattutto a quest’ora di notte, nella strada
così nera e deserta, col silenzio gravido
che vorrebbe scoppiare in fragorosa giornata
d’estate, con bagnanti al mare e bambini
che giocano, mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini neri
coinvolti nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza:
il mare d'acqua azzurra non esiste.

Il ritardo assunse toni fatali. Erano
esattamente 5 giorni d’assoluto silenzio.
Muti io e lei. Neri e muti. Da 5 giorni
seduti al tavolino del bar, bevendo un caffè
che non finiva mai. 5 giorni oscuri come 10
notti. Vestiti di una pesante e appiccicosa
calzamaglia nera, sentimmo il turbamento
di una rondine su di un umido filo di
telegrafo, prima di partire, in autunno,
giornata piovosa, quasi sera. E un’altra
rondine sul filo opposto.

Se ora ricominciassi dagli occhi. Permettetemi
di dirvi questo: grappoli di pipistrelli
maturavano assiepati sui miei occhi,
poi gonfiavano sonnolenti e scorrevano
giù a formare pozzanghere.

Erano già 5 giorni. Le pozzanghere
aspiravano a diventare mare. Rosa divaricò le
cosce e pisciò per molto tempo. Si sa che
il pianto è cosa diversa. Ma io non ho mai
più visto nessuno pisciare tanto e così bene
e per così lungo tempo. E permettetemi di
dire anche questo: l’amore che ho per Rosa
non è diverso da quello che ho per i poeti.

5 giorni equivalenti a cinquemila anni
d’attesa proiettata nel passato. Berlino
aveva la presunzione della cosa aspettata
e venuta, la superbia di un avvento cristiano,
come un orologio che puntualmente scandisca
secondi e minuti. Ma Berlino con le sue case
da manicomio aveva anche l’impaccio dell’evento
verificatosi senza la precedente attesa. Nascita
non desiderata, Berlino aspettava ancora d’essere
stata attesa; la presunzione che aveva, i campi
di concentramento e le questioni razziali
con cui si imbellettava erano solo momentanee
distrazioni dal pensiero di non essere stata
necessaria, un po’ come le altre città
sparse per il globo.

ho anch’io come Berlino l’impaccio
dell’evento verificatosi gratuitamente
e da circa un miliardo d’anni
aspetto d’essere stato atteso

Le strade enormemente deserte. Il bar deserto.
Tranne noi due e il tavolino e le nostre due
sedie e due tazze di caffè. Gli assassini
avevano nell’aria presente la loro realtà
di fantasmi, ma non era un incubo. era una
tranquilla gravità oscura. Per le strade
dilagavano pozzanghere di pipistrelli
suicidi e fiotti d’orina.

In quel momento Rosa fu ferita da uno
degli assassini. Non smise di pisciare,
ma io ebbi paura che morisse prima di
potermi parlare. L’assassino le si avvicinò,
era una comune faccia intravista al supermarket,
le diede una scossa leggera, lei cadde.

È triste starsene seduto ad un bar con
la sensazione che la nostra persona
non colmi nessun vuoto dell’attesa cosmica.
Per questo sappiamo che tutte le nostre sciagure
si collocano nel passato e che il futuro
non potrà portarci che dei miglioramenti.
Sappiamo benissimo però che tutto ciò
è anche falso.

La vidi mentre cadeva, mentre l’assassino
cercava di tamponarle la vulva che continuava
ad emettere fiotti d’orina nera. Poi vidi l’
assassino rinunciare. Lei capovolta con le
cosce divaricate, le braccia rilasciate.
La sedia vuota. Lei che andava e veniva
sull’onda morta dei pipistrelli impoltigliati
d’orina. La sedia vuota. Il caffè e la tazza
navigavano già lontano in una traversa
sinistra della strada principale. Il cucchiaino
restato nel piattino, sul tavolo. Mi sentii
nudo, senza neppure l’involucro di pelle,
sentii l'aria tagliarmi i muscoli e vidi
il sangue nero gocciolarmi dappertutto. E
pensai a qualcosa d’azzurro.

Divenni estremamente debole.
Feci in tempo a posare il mio caffè sul tavolo,
cadendo vomitai briciole di vetro sul piede
sinistro di Rosa. Temetti di morire prima di
poter ascoltare ciò che lei aveva da dirmi.
I miei occhi, strano a dirlo, piansero ancora
di più, m’aggrappai disperatamente ai piedi
di Rosa, le strade erano completamente allagate,
i nostri corpi venivano trasportati lontano,
ricordo che prima di svoltare a sinistra
vidi una luce accendersi all’interno del bar.

Una volta, alcuni anni prima, a Mantova e
a Verona, in due bar deserti successe la
medesima cosa che a Berlino. Impressionante
l’identità degli assassini e delle loro
azioni. Oscura è restata l’identità delle
vittime.

Saremmo affogati? Affogati nei neri prodotti
della nostra decomposizione? O era un modo
diverso di resurrezione, una maniera di dire
- NO! - agli assassini?

Dal suo interno Rosa si svuotava sempre più,
fegato ed ossa marce prorompevano fuori dalla
vagina. All’esterno la pelle restava meravigliosamente
tesa e delicata. Io aggrappato alla pelle del suo
piede sinistro avevo terminato la consunzione d’
ogni mia fibra. Di me restavano pochi milligrammi
di polvere di calcio fosforoso sull’alluce
sinistro di Rosa, il resto completamente
sminuzzato fino all’atomo andava girovagando
in quella strana marea di notte berlinese
insieme agli atomi di lei, poiché anche di
Rosa non era restato che un millimetro di
pelle sull’alluce sinistro dove io poggiavo
il mio ultimo milligrammo di fosforo.
Era un modo altrettanto bello d’amarsi.
Non il cazzo che viene a porre la sua
prepotente eiaculazione in una delle quattro
cavità del cuore, e nemmeno un braccio che
rovistasse l’utero con la mano pronta a
ghermire ovaie.
Insomma io e Rosa non avemmo bisogno
di fedi nuziali e nemmeno di vivere
nella stessa metà di secolo, non avemmo
bisogno di questi trucchi per amarci.

Saremmo affogati? Berlino, Mantova e Verona
coi loro supermarket pieni d’assassini
in miniatura ci avrebbero soffocati,
avrebbero posto fine alle rivoluzioni,
esigevano altre catarsi d'angeli?

Una sera d’estate Rosa mi fece capire
che sarebbe stato utile e bello parlare
con un geranio perché si perde la maggior
parte del tempo a parlare con fiori stupidi.

Ah! il piccolo grumo di calcio fosforoso
si dissocia e il millimetro di pelle
si disintegra allontanandosi e grido che
non voglio essere lasciato

Ah! i nostri miliardi d’atomi vaganti dentro
oscure galassie, i nostri miliardi d’atomi
solitari non s’incontreranno mai, le
probabilità sono alquanto esigue, mia
Rosa, mio amore, non potrò mai bere
un caffè con te

Ah! il nero, il nero, il nero. Ho perduto
le mani e il viso. Ho perduto tutto
il mio corpo

Ah! più niente. Solo il nero.

Non ascolteremo amici, non ascolteremo,
sappiate che le nostre due orecchie
se ne sono per sempre andate. Io
non sto dicendovi niente e non vi
vedo, come voi non potete vedermi.
Qualche volta viaggiando all’interno del
nero ho creduto di sfiorare i vostri
cuori, ho creduto di poter raggiungere
con essi la compenetrazione illuminante.
I vostri cuori mi sorrisero come dei
ciechi, se mi avessero visto avrebbero
capito che io portavo solo notte.

Due miliardi d’anni fa la nostra elettricità
viaggiava altrettanto sorda e muta della
carne di cui oggi s’è svestita.

Non potremo uscire, non potremo
entrare; il verbo essere è tutto
un maledetto imbroglio.

Allora?

Questo è il rifiuto della necessità di
dover capire, è il rifiuto della eternizzazione,
il rifiuto del sentire, il rifiuto della carne
viva e della carne morta. Per il resto
non credo assolutamente. Non
accetto nessun discorso che non parta da
un a priori assoluto. I rattoppamenti non
mi piacciono. E poi a questo punto il piacere
non è altro che un letamaio dove ronzano
mosche. Ed io mi sento una mosca dal ventre
nero e puzzolente. Ho fatto tilt.


Da Oggetto e circostanza (Poesie 1974-1999) (antologia inedita)

venerdì 19 giugno 2015

Domenico Adriano

TUTTI ABBIAMO CONTRIBUITO A COSTRUIRE

Tutti abbiamo contribuito a costruire
questo libro, mattone dopo mattone.
Oh sì, quanto vissuta ora
è la casa, e nella grande cucina
da uno spiraglio un raggio
di sole vibra in un gran polverio.
Viavai di amici, cene
ottime, improvvisate. Quadri
poggiati a terra, non importa
se ancora non trovano una parete;
“il merlo che canta perché vuole fare
l’amore”, “il sesso di perla e di castagna”
davvero non sappiamo dove metterli.
Chi bussa ora alla porta?
Maria Obolensky è giunta
qui con il pensiero. Prima di morire
dovreste conoscerla, salutare
la sua bellezza. Vive
al giardino dei poeti
dove Goethe seminò violette,
fanno compagnia alla sua
giovane età Shelley e Keats.
Un tempo infinito resta seduta
accanto alla sua dimora, i capelli
sciolti sulle spalle pensose e sul petto,
mani conserte e gli occhi e il viso,
lei che aspetta sempre
sulla porta del Paradiso.


da Dove Goethe seminò violette, Edizioni Il Labirinto, 2015

mercoledì 17 giugno 2015

Emily Dickinson

AMORE – TU HAI DIMENTICATO

Amore – tu hai dimenticato – 
ma io ricordavo ogni cosa, per tutti e due – 
così la somma tornerà sempre
nonostante la tua defezione – 

dici che mi sbagliavo:
accusa i miei spiccioli,
biasima la piccola mano
che era felice di essere – 
quella di un mendicante
che vuole di più – 
per spendere

essere ricca – solo per dilapidare
le mie ghinee sul cuore più bello – 
essere povera – visione scalza – 
che tu, amore, chiudi fuori –   


Traduzione di Nadia Campana

da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982

lunedì 15 giugno 2015

Beppe Salvia

PRIMAVERA


l’ombre di rame ellittiche
una sfera, l’albero
l’ombra
e trine d’archi sul prato,

un volo spaventato di passeri
raggela in aria
gli uguali giri a quella
ronda dei rami,

poi va
lenta per l’aria
vera una
eco

va per le strade l’aria
e va via il sole

un bioccolo di fumo
sull’aia
vanno i passeri
e non sembrano passeri

voli rondoni in alto
è chiaro ancora
e stanno
i nidi alle cimase
e i fili dei panni e senza panni

i nuvoli li sfiocca
l’albero
fiocca petali sul prato,
un tondo bianco


lo stagno vive e muore

e le corolle dei fiori
e i fuochi e i fuchi
e i ronzi

e le verrucarie brune
sulle balaustre
la festa d’estate
e tutte han vesti belle
danzano

in tondo la polacca
e la corte

una fanciulla svenuta
la bacia un povero
raggio

il giorno muore
va per l’aria un’aria di vacanza

un coro lietissimo di giorni
fa prato il prato
e neve e neve
e vento

corre il torrente
abbacina di luce
e poi fulvo e poi nero
e neve e gela

vi pescan dentro
o vi muoiono i cani
i bimbi d’agosto fanno strani
raggi coi rami


il mondo di noi azzurra
a nostra vita orli
nuvoli sfiocca albe
archi
e lene
diroccate mura,

la calma dei rivi
i vivi campi sbalza

come una figuretta
d’abbeccedario
nuvolo nido neve
rondine rivo ramo

la notte non li vede
e non li sente il giorno

di che si prende cura,
e senza tanta virtù
l’animo già mi sfrangia
una lesta vecchiaia
eterna gioventù
d’aver più note le cose
e me scomparso,

scuoletta di Serro il banco blu,

anche un filo di lana
bianco tra quei fili
del nido,

anche una carta stagnola che luccica.

Da I begli occhi del ladro, Il ponte del sale, 2004

venerdì 12 giugno 2015

Lorenzo da Ponte

da DON GIOVANNI

Atto Primo, Scena Quattordicesima
Aria di Don Ottavio 

                                                                           a Dora

Dalla sua pace
la mia dipende,
quel che a lei piace
vita mi rende,
quel che le incresce
morte mi dà.

S’ella sospira,
sospiro anch'io;
è mia quell’ira,
quel pianto è mio;
e non ho bene,
s’ella non l’ha.

mercoledì 10 giugno 2015

Bruna Giacomi

TI SAPEVI ETERNO                                                                     

Ti sapevi eterno, lucido
sempreverde che resiste
ad ogni mano, non fiore
che scesa la stagione
muore. Con ignavia
invecchia l’immagine
che incontri allo specchio.
Non ti saranno di conforto i versi
perché non gettano seme
i tuoi giorni.
Non puoi essere giusto
e saldo: vivi nell’errore.


da ARSENALE, n. 2, aprile–giugno 1985

lunedì 8 giugno 2015

Stefania Portaccio

CAPPUCCETTO ROSSO

la storia è complicata – in tre 
la raccontiamo – è andata
che in tre l’abbiamo tolto
quello che ci teneva separate
e in tre siamo restate

per prima parla la piccola mandata
nel bosco, e che ne uscì cambiata:

quella volta andavo dalla nonna
col cestino e la gonna
mamma aveva detto “pantaloni!”
ma io misi una veste rossa, corta
e presi la strada lunga, quella storta

andavo lenta fingendomi ammirata
da un’amica inventata
che rideva ai motteggi e a confidenze
che dicevo tra me

“fai compagnia alla nonna, non tornare
prima che cali il sole” 
aveva detto mamma. Al limitare 
del bosco abitavamo: il cacciatore
dal retro di nascosto, come io andavo entrava
e al villaggio nessuno s’accorgeva

Poi è il turno della buona nonnina
che la sa lunga e ha la testa fina:

la figlia mia sicuro s’era messa 
nei guai, e per riparo
e non per farmi fessa mi teneva all’oscuro.
Certo di me diceva  “Sorda e mezza cieca 
ma ostinata non si conta quanto l’ho pregata
di abitare con me e con la bambina
che lei, tra l’altro, adora
ma mia madre, si sa, ha la testa dura!”
Mentiva, poveretta. Mi volgeva la schiena 
ma, da madre, sentivo la sua pena
mangiarla dentro in fretta


Ora è il turno della sua figliola, da tanto
tempo, troppo tempo sola:

Ti aspetto, ma non vieni – ho il cuore triste.
Il letto fresco è fatto e il pranzo è cotto.
Per te mando la piccola nel bosco
e non m’impongo il giusto a quel puntiglio 
di mia madre di vivere lontana– per te
il mio cuore è fosco. 
Stavolta ti dirò di non tornare! Poi
penso a come m’alzi la sottana
ridente, annusandomi la chioma
e rimando di un’altra settimana

Poi parla ancora quella nel bosco entrata
bambina, e uscita un’assassina:

Dunque, la volta che, lenta, svagata
andavo per la mia strada accidentata
vedo venirmi incontro il cacciatore
avvolto nel mantello – andava lesto
mi ha stupito ma niente ho detto e chiesto
dentro di me qualcosa voleva 
e non voleva comprendere e doleva

mi guardava come io dodicenne mi sognavo
d’essere un giorno vista
stese il mantello sopra i dolci fiori
li schiacciammo e vennero gli odori
d’erba mista alla lana umida
al cuoio, al sudore, al sale 

nell’erba stava il fucile. Il cacciatore
steso mirava il sole che tra i rami
accecava – sorrise e non si volse
quando da lui mi sciolsi e mi rialzai
presi il fucile e al cuore gli sparai 

Era tardi. Corsi a perdifiato
con la cesta e il fucile e nella testa
parole, invocazioni, affastellate

Di nuovo e infine parla la donna sola
allo sbaraglio – alla riscossa
che scavò la fossa con madre e figlia
e sotterrò lo sbaglio:

Non vieni, non verrai. La mia bambina
non torna. Cercarla devo, col lume e con l’intero
cuore guerriero fatto per l’azione
e dieci occhi e orecchie e gambe buone

Sull’uscio la mia vecchia e la bambina
mi guardano ansimante avvicinarmi
distinguo nel crepuscolo un fucile
a me noto, allo stipite poggiato.
Mia madre dice calma “ora mangiamo 
beviamo ed intanto ragioniamo”
“Sì” dissi e la stringevo e “sì” e baciavo
la figlia sulla testa che suonava
di grida mute ­ 
fu allora che sentimmo l’ululato
poi il trapestio ed il lupo 
ci fu di fronte, magro ed affamato

fummo d’accordo di sparare in alto
solo a fargli paura. Poi serrammo
la porta ed al sicuro
parlammo nella notte del futuro


da Il padre di Cenerentola e altre storie (poesie e racconti inediti)

venerdì 5 giugno 2015

Mauro Ferrari

ANCORA ULISSE

Un pover’uomo, un re in brandelli
reduce dai flutti a tante pietre
e rimembranze; un attaccante obliquo,
fuggitivo astuto da quei campi
d’odio e di sterminio infine
ritornato a pane d’orzo e quiete
in questo lento dopoguerra senza dèi.
Ricostruzioni attendono caparbie
le nostre mani ossute e la ragione
clauda dei sopravvissuti.
Vorrebbero che ripartissi,
parlano di gloria e conoscenza:
a un re di capre, che ritrova questa
moglie umana per divine
amanti abbandonate
e un regno di sterpaglie.
La vela ancora, il remo, il flutto
sul volto e il desiderio;
e l’orizzonte vuoto, mostri,
gorghi, terrori e piaceri;
ancora quello chiedono, a un pastore
che null’altro impetra che silenzio
e ben compatte mura, siepi
a chiudere la vista stanca
e un civile cenno presso la fontana.


Da Il bene della vista, Joker, 2006

mercoledì 3 giugno 2015

Luigi Amendola

PELÈ

Forse una stella, ma di vivida luce,
scarta l’avversario in area;
balugina la sagoma
che appare, scompare, poi svapora
e dilata sullo schermo la figura.
Cela sfarfallando la palla
al terzino in affanno,
corre sulla linea di fondo,
incocca, tende e scaglia
(bersaglio e arciere a un tempo).
Luce che assorbi
in campo verde e pari anni,
a filo d’erba, in rincorsa d’incanti.

Da Acquedotto Felice (raccolta inedita)

lunedì 1 giugno 2015

Folgóre da San Gimignano

DI GIUGNO

Di giugno dovvi una montagnetta
coverta di bellissimi arbuscelli,
con trenta ville e dodici castelli
che sieno intorno ad una cittadetta,

ch’abbia nel mezzo una sua fontanetta;
e faccia mille rami e fiumicelli,
ferendo per giardini e praticelli
e rifrescando la minuta erbetta.

Aranci e cedri, dattili e lumíe
e tutte l’altre frutte savorose
impergolate sieno per le vie;

e le genti vi sien tutte amorose,
e faccianvisi tante cortesie
ch’a tutto ’l mondo sieno grazïose.


Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007