mercoledì 30 novembre 2016

Giuseppe Rosato

IL DISTACCO SARÀ DA QUESTE COSE

Il distacco sarà da queste cose
minuscole che ci si fanno incontro,
lo sguardo vi si posa e le oltrepassa
carezzandole lieve ad una ad una.
Questo il vuoto che sale e si dislaga
pensando all’abbandono
non della vita grande, che si perde
ma quando s’era già perduta, quando
in un preciso punto
c’era stato il commiato.


Da Conversari, Casa Editrice Rocco Carabba, 2014

lunedì 28 novembre 2016

Guido Gozzano

L’ASSENZA

Un bacio. Ed è lungi. Dispare
giù in fondo, là dove si perde
la strada boschiva che pare
un gran corridoio nel verde.

Risalgo qui dove dianzi
vestiva il bell’abito grigio:
rivedo l’uncino, i romanzi
ed ogni sottile vestigio…

Mi piego al balcone. Abbandono
la gota sopra la ringhiera.
E non sono triste. Non sono
più triste. Ritorna stasera.

E intanto declina l’estate.
E sopra un geranio vermiglio,
fremendo le ali caudate
si libra un enorme Papilio…

L’azzurro infinito del giorno
è come una seta ben tesa;
ma sulla serena distesa
la luna già pensa al ritorno.

Lo stagno risplende. Si tace
la rana. Ma guizza un bagliore
d’acceso smeraldo, di brace
azzurra: il martin pescatore.

E non sono triste. Ma sono
stupito se guardo il giardino…
stupito di che? non mi sono
sentito mai tanto bambino...

Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
ci sono pur sempre le rose,
ci sono pur sempre i gerani…


venerdì 25 novembre 2016

Alfonso Gatto

SERA D’ESTATE

Ai miei giorni
la sera stanca e trafelata
con i gradini, il muro d’erba, il mare
e il braccio mesto alla fronte
nel giro degli occhi non accadrà:
presagio di madre, il letto bianco d’estate
nella stanza aperta.

Moriva lungo il braccio
la testa avviata sul tavolo
e, lontani, il mare, la notte fresca di voci,
i cocomeri rossi,
le logge aperte alle famiglie,
sembravano cantati sulle ceste
fin sotto i balconi.

E m’era sonno, a rampe dei suoi lumi,
il villaggio più alto
dietro i carri innalzati del fieno,
come la luna risalita ai monti
dava quiete alle stanze, alla memoria.


da Poesie, Mondadori, 1961

mercoledì 23 novembre 2016

Onofrio Lopez

LA GRANDE LIMONAIA
                         

                        *        

Agli estremi la balaustra è vaga,
non per difetti di prospettiva
ma per getti di nebbia
che stazionano equidistanti
dal centro più definito:
architettura del precedente,
formazioni incombenti,
ultimo appiglio. Fenomeno
inconsueto sarà così per poco,
dopo aver reso redditizia
la mia postazione, tribuna
fatta di nulla, ribalta oratoria
per spiriti leggeri in transito.

                          *

Ragionerei volentieri
di elementi euclidei e di spunti
filodrammatici se avessi
l’interlocutore giusto,
se non interferisse, nel parco
di contorno alla reggia provvisoria
– siepi alte su siepi – lo stridore
di passi sulla ghiaia
di turisti superstiti accorsi
alla grande limonaia, 

                          *

Il rumore delle suole si fa
allegoria ambigua di un viaggio
incerto nell’itinerario scosceso
che arriva ai limiti dell’anfiteatro
di corte all’aperto. La scena
avrebbe bisogno di una luce
più intensa per sperare
che lobelisco egizio produca
quel raggio meridiano
che, una tantum,  ribalti il verso
delle ore, sugli scaloni friabili
dov’è vietato l’accesso.

                          *

Una voce convoca il gruppo
di uditori sparsi alla serra
d’agrumi, i centenari nelle conche
giganti, altri, immaturi, velati
in vivai di terra scura.
Il profumo dei limoni nutre
d’ipotesi plausibili – guardando
in alto gli stemmi sulle volte
di gesso, forse di una palestra
di scudieri e di armi – l’idea
d’un epilogo all’altezza, prima
di cambiare rotta.

settembre/ottobre 2016


(inedita)

lunedì 21 novembre 2016

Sonia Gentili

MONOLOGO DELLA LUCE

La luce ha gridato stamattina: alzati,
guarda il torrente di rovina che io
porto nel mondo; in questo avrai il coraggio
di gettarti per vivere. Andrai
nella corrente e dove
più limpida essa mostra la rapina di
foglie strappate e ramoscelli, là
dovrai infine capire che per vivere
la lunga discesa di un intero
giorno a questi istanti – piccoli
vortici chiari in cui annegano
detriti di altri istanti – a queste
continue morti trasparenti
dovresti sopravvivere, e non sai
se potrai


da Viaggio mentre morivo, Aragno, 2015

venerdì 18 novembre 2016

Ferdinando Tartaglia

MA SALVARE MA SALVARE LA POESIA?

Se tu socchiusa poesia t’affacci
da paura di parto e abiura d’alba
io t’offrirò per rose una radura
dov’è promessa il ramo e non minaccia.

Tanto pallida sei per velo stanca.
Tanto morta tu ormai smarrita a lancia.

Ma se mi guardi
e se il mio dono è traccia
ma tu se m’ami e l’arma è su l’altura
io ti sollevo nel mio grido scalzo
e ti conduco a immemore distanza
per risorgerti a ignoto d’avventura.

Io sono il Nuovo, alta è la mia stanza.

Solo per me guarirai sicura.
Solo con me rivivrai costanza.
Non pentirti di essere futura.
Prestami la tua voce: io io ti salvo.

(1928)


mercoledì 16 novembre 2016

Luigi Fallacara

UN GIORNO IN PUGLIA

Il barocco di chiese e di palazzi
è bianco e nero come i giorni sazi
divisi dalla notte in parti uguali,
metà vita e metà sonno mortale.
Guardavo il chiaro ed il cupo pensiero,
come l’angelo della cattedrale
che ha un occhio bianco ed ha l’altr’occhio nero.
Al sole per i vicoli tortuosi
aprivano i gerani i rossi irosi,
ma all’ombra, in un canale di miasmi,
vedevo, vita, come l’uomo plasmi.
Sole azzurro di fumi, ombre in recessi,
tagliata a filo netto di coltello;
di qua e di là era pur bello,
nel buio e nella luce, esser lo stesso.

da Celeste affanno, Libreria Editrice Fiorentina, 1952



lunedì 14 novembre 2016

Attilio Bertolucci e Pere Gimferrer

BERNARDO A CINQUE ANNI

Il dolore è nel tuo occhio timido
nella mano infantile che saluta senza grazia,
il dolore dei giorni che verranno
già pesa sulla tua ossatura fragile.

In un giorno d’autunno che dipana
quieto i suoi fili di nebbia nel sole
il gioco s’è fermato all’improvviso,
ti ha lasciato solo dove la strada finisce

splendida per tante foglie a terra
in una notte, sì che a tutti qui
è venuto un pensiero nella mente
della stagione che s’accosta rapida.

Tu hai salutato con un cenno debole
e un sorriso patito, sei rimasto
ombra nell’ombra un attimo, ora corri
a rifugiarti nella nostra ansia.

da Le poesie, Garzanti 1990


commento di Pere Gimferrer

UNA SERA D’AUTUNNO

Conosciamo tutti le visioni del paesaggio italiano degli ultimi giorni di guerra. Più che dai cinegiornali, molti di noi le conoscono da certe immagini che, per qualche oscuro motivo, sembrano più vere di qualunque notiziario: immagini grigiastre, contrastate, nel bianco e nero forte, ruvido delle prime pellicole neorealiste di Rossellini. La gelida quiete dei campi silenziosi sotto un cielo rannuvolato o un sole glorioso, il silenzio diguazzante dell’acqua tra i giunchi e la mitraglia nelle strade – come in una poesia di Salvatore Quasimodo: “…quel geranio acceso / su un muro crivellato di mitraglia” –, lo sfregamento cupo del cuoio e i calci dei fucili, tra ombre e rovine. Tutto questo ci passa negli occhi col rumore piacevole della lontananza: senza dubbio pungente, che ferisce nell’intimo.
Dopo non molto, altre immagini, a colori, sostituirono, o forse resero allegoriche, le vecchie immagini di Rossellini. Adesso erano immagini di violento splendore, immagini di un sogno epico: carri di fieno, attrezzi agricoli, assemblee popolari e fascisti in fuga nel silenzio dei campi. Nella parte inferiore del casale, un uomo invecchiato anzitempo – il padrone – è tenuto prigioniero da un ragazzino con una pistola, come in una stampa d’illustrazione rivoluzionaria. Negli occhi del padrone di casa c’è una stanchezza antica e il capo di quel gruppo di contadini armati gli risparmia la vita, perché – dice – “il padrone è già morto”. Sullo sfondo, al vento della pianura, ondeggia una grande bandiera rossa. Sono le immagini finali di Novecento, il film di Bernardo Bertolucci.  Benché storicamente imprecise, hanno la persistenza irriducibile di un mito filmico, che s’impone con la sua poeticità durante la proiezione.
Ma ora andiamo in Italia. È una sera d’autunno dell’anno seguente la fine della guerra; l’autunno successivo alla sequenza dell’insurrezione in Novecento. L’Italia, ferita e stanca, vive in pace. Quella sera, ci sono fili di nebbia nel chiarore moribondo del sole. Un bambino di cinque anni gioca per strada, al limite dei campi, dove la strada finisce. All’improvviso interrompe il gioco e il padre – un giovane uomo di trentacinque anni – lo lascia solo in quella zona incerta, non più giorno ma non ancora notte, non più strada ma non ancora campo, splendida nel silenzio delle foglie morte. In quella calma, si sente il gelo d’una presenza torbida: l’arrivo della notte, la caduta della stagione nel freddo e nell’oscurità, un crepuscolo del giorno e dell’anno che annuncia il crepuscolo della vita. Solo, tra le foglie morte, nell’oscurità, sul limitare della strada, il bambino ora muove la mano, salutando debolmente, senza grazia. Ha occhi timidi e un sorriso patito. Lascerà presto quella regione d’ombra; è come sorpreso dal presentimento dei dolori che devono venire, e che lo spinge a rifugiarsi dove sono i grandi; anche loro, come lui, deboli e ansiosi in quell’ora indecisa.
Ma tutto ciò non ci ricorda qualche altro film? Sì, probabilmente ci ricorda la lontana tristezza, di paradiso perduto, impossibile e già amaro, delle prime immagini de La Luna, quando s’alza in cielo – sul pallore d’una strada bianca, mentre fa notte – il grande chiarore lunare, lattiginoso e svanito, di un autunno irreale. Quel bambino de La Luna, non è lo stesso che giocava ai margini della strada, sguazzando nell’oro brunito e stinto delle foglie morte? Quel bambino, anni dopo, sognerà con le immagini epiche di Novecento. Il bambino si chiama Bernardo Bertolucci; è suo padre, il poeta Attilio Bertolucci, a parlarci, in una poesia, di quella sera d’autunno del primo anno, oscuro e ancora incerto, del dopoguerra italiano. Ora, sentiamo profondamente il freddo di quell’autunno.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Dietario, Seix Barral 1984


venerdì 11 novembre 2016

Catullo

Oggi alle ore 18 presso lo Studio Campo Boario, via del Campo Boario 4/a - di fronte alla Piramide Cestia, si festeggiano i 35 anni delle edizioni Il Labirinto. 
Saranno presenti tutti gli autori pubblicati per una grande lettura dal vivo. 
A tutti i partecipanti sarà offerto in omaggio il volumetto da cui è tratta la poesia che segue. 


 VIVEMO, LESBIA MIA, FAMO L’AMORE

Vivemo, Lesbia mia, famo l’amore,
e ciance e lagne de vecchi musoni
potemo dì che nun vargheno un fico.
Er sole si se spegne poi aritorna:
a noi ’na vorta che la luce è spenta
ce tocca da dormì ’na notte eterna.
Damme li baci a mille, a cento, a mille
e antri ancora, e ’nantro centinaro
e mille ancora e ancora ’n centinaro.
E quanno l’amo a millanta ammucchiati
pe nun sapelli l’arimescolamo,
pe nun facce invidià da quarche squallido
si viè a sapé che ce sò tanti baci.

Traduzione di Ottavio Sforza

da Vivemo, Lesbia mia, famo l’amore, Il Labirinto, 2008

mercoledì 9 novembre 2016

Catullo

Venerdì 11 alle ore 18 presso lo Studio Campo Boario, via del Campo Boario 4/a - di fronte alla Piramide Cestia, si festeggiano i 35 anni delle edizioni Il Labirinto. 
Saranno presenti tutti gli autori pubblicati per una grande lettura dal vivo. 
A tutti i partecipanti sarà offerto in omaggio il volumetto da cui è tratta la poesia che segue. 

PORO CATULLO E DAJE ’N FÀ PIÙ ER MATTO

Poro Catullo e daje ’n fa più er matto,
quello che è perso è perso, ariconoscilo.
Ce sò stati pe te li celi azzuri,
quanno volavi dove lei voleva
quella amata da te come nissuna.
Quanti giochetti allora se faceveno,
quello che annava a te, lei nun schifava.
Eh sì, li celi azzurri ce sò stati.
Mo nun vò più, e tu pure, rammollito, nun volé
e nun je córe dietro si scappa, nun vive
in pena, ma tiè duro, metti scorza,
nun lo vòi? e lui ’n te cerca e nun te pegra:
ma averai da soffrì non più pregata.
Pover’a te, che pena! e che te resta?
Chi te s’accosterà? A chi parerai bella?
Co chi starai, de chi se dirà che sei?
Chi bacerai mordendoje le labbra?
Ma tu, Catullo, areggi, metti scorza.

Traduzione in romanesco di Ottavio Sforza

da Vivemo, Lesbia mia, famo l’amore, Il Labirinto, 2008


lunedì 7 novembre 2016

Paolo Aita

QUEL SILENZIO

Nelle piccole notti del tatto
nei battiti,
mi formo.
Affolli questo buio
con un firmamento di parole:
il diario sei dei loro neri amori
e dei doni segreti del tuo corpo.
Così, elegante di storie
te sugge
questo sciame di dita.

da La stanza del poeta, antologia poetica, Quartiere Due Collettivo di Teatro, Cosenza 1998


Domani presso la Casa delle Letterature, piazza dell'Orologio, 3, Roma, si ricorda l'amico poeta e raffinato critico d'arte Paolo Aita prematuramente scomparso a soli 58 anni.

venerdì 4 novembre 2016

Aldo Palazzeschi

SU

Le ultime finestre sotto i tetti
sono fatte a coni.
Anche le porte delle chiese
sono fatte a coni.
Come le vostre mani,
giovani che pregate,
sono giunte a coni.
I cedri,
i cipressi,
gli abeti dei giardini
sono coni.
Le ali delle rondini,
puntate per salire,
sono coni.
Coni dei tetti, coni delle mani,
coni delle porte, coni degli alberi,
coni delle ali, 
coni coni.

mercoledì 2 novembre 2016

Aleksandr Blok

I DODICI

11.


… Senza il nome benedetto
vanno vanno ad uno ad uno.
            Pronti alla vendetta,
            pietà per nessuno…

E le canne son puntate
contro l’ombra del rivale…
nelle strade abbandonate
dove infuria il temporale…
dalle nevi accumulate
non si cava lo stivale…

                        Vibra il vento
                        lo stendardo.

                        Passo lento,
                        passo tardo.

                        Più violento,
                        più gagliardo

il nemico si ridesta…
                        La tempesta
                        alza la testa…

Avanti, in alto i cuori!

                        Urrà, lavoratori!

Traduzione di Renato Poggioli

da I dodici, Einaudi, 1965