lunedì 30 dicembre 2013

Robert Lowell

DELFINO

Mio Delfino, solo di sorpresa tu mi guidi,
schiavo come Racine, l’uomo dell’arte,
attratto nel suo dedalo di ferrea composizione
dall’incomparabile voce delirante di Fedra.
Quand’ero travagliato nella mente, ti lanciasti sul mio corpo
preso nel nodo scorsoio delle corde
di un tramaglio che affondava,
quell’opaco strisciare e inchinarsi della mia volontà...
Sono stato a sentire troppe
parole della musa collaboratrice,
e forse troppo ho tramato a cuor leggero con la mia vita,
senza evitare danno agli altri,
senza evitare danno a me stesso – 
per chiedere compassione... questo libro, metà fantasia,
rete fatta dall’uomo per il divincolarsi delle anguille – 

i miei occhi hanno visto ciò che ha fatto la mia mano.


Traduzione di Rolando Anzilotti

Da Il delfino e altre poesie, Mondadori, 1989

venerdì 27 dicembre 2013

Giuliano Goroni

NEON IN CORSIVO AZZURRO

Sembra una minaccia fatta
per amore, il buio ventoso
e commerciale di via appia,
le luci portatili sui motori,
un’autofficina generale qui
soggiorna oleosa e chirurgica,
ma più un cubo d’emergenza 
generica e continua, corridoio 
comune della mente, irrompe
nella velocità l’appello
opaco e vischioso; per un po’
ruba il mondo, l’acciaio multicolore
in depositi firma questa retrovia,
ma più, la spericolata paura libera
annusa delicata l’aria della vita
farfalla d’ognuno, folla di tutti...

Ma una dolcezza presupposta
e piovosa è messa lì a freddo
solo per compiutezza di disegno
dal neon in corsivo azzurro,
stretto grigio-sera angolare
e pochi oleandri, in chiusura
si ritira un bar dell’io medio
e transitorio.

Del presunto passo della vita,
nel vacillare lento d’ogni sua
vana forma vera, sono, a volte, alla
sommaria evidenza degli occhi
non senza velo e sforzo, anche
le sue facili, esposte felicità.
S’è fatta periferia, scesa
da bus e metro tra i primi
fari e quell’assillo da inseguiti
minori, stringendosi a questo adesso.
Fissità di tutti nella pensilina
assoluta, con le borse del ritorno,
un cemento d’attesa pallido
e vivente e ognuno già è casa
porta chiusa, rapido il buio
novembrino nel vialone svogliato,
steli alti di luce in prospettive
lunghe, un destino ridotto e stanco
d’esserlo, inciampa addosso alle
vite che spinge.
C’è un camice lilla, sopra una fibra
sua di quotidiano, sospesa
dal proprio continuo, sfila
un pensiero da vetrina al di fuori,
sue interlocutorie seduzioni
sghembe ammissioni, l’illusione
che più le pare sentimento e sosta.
Le oscilla nel volto il soggettivo
fluente dei riquadri accesi
dai muri, l’evasività singola di una 
formale aiuola rotatoria, la sobria
ferocia della lamiera ondulata.
Che insiste nel cerchio,
l’eco coabitante di un bacio 
che si rincorre, nelle sparse
proposte della lacrima; perde ora
la magnolia, la foglia che più aveva
voglia di terra, attuarsi forse
d’originaria ombra che, nella
strettoia mondana, cala riservata
desolazione e pare farne albe
pare farne corpi,
ma è la vetrina delle radio 
a coglierla sul fatto,
d’esser lì, sul set del presente.


da Flavia Giacomozzi, Campo di battaglia, Castelvecchi, 2005 

mercoledì 25 dicembre 2013

Ted Hughes

IL FALCO APPOLLAIATO

Siedo sul tetto del bosco, a occhi chiusi.
Inazione, nessun sogno falsificatore
tra l’uncino della mia testa e quelli delle mie zampe:
oppure nel sonno ripeto stragi perfette e mangio.

La comodità degli alberi alti!
La forza ascensionale dell’aria e i raggi del sole
sono a mio vantaggio;
e la faccia della terra arrovesciata si lascia ispezionare da me.

Le mie zampe serrano la ruvida corteccia.
Ci è voluta tutta intera la Creazione
per produrre questa zampa, ciascuna delle mie penne:
e ora stringo la Creazione tra le zampe

o volo in alto, e la rigiro tutta piano piano – 
uccido dove mi va perché è tutta mia.
Non conosce sofisticherie il mio corpo:
staccare teste è il mio stile – 

distribuire morte.
Perché l’unica traiettoria del mio volo passa diretta
per le ossa dei viventi.
Il mio diritto trascende ogni argomentazione:

il sole è dietro di me.
Niente è cambiato da quando ho cominciato.
Il mio occhio non ha permesso cambiamenti.
Intendo mantenere tutto così.


Traduzione di Nicola Gardini

Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008

lunedì 23 dicembre 2013

Francesco Paolo Memmo

LA NEVE   
                 

                Il primo rilievo è già
                 quasi una persecuzione.
                                (F. Cordelli)

E poi giunse finalmente la neve ma a dicembre
(era assurdo pretendere il contrario)
neppure a Roma del resto ma fuori com’è logico
in campagna: un’enorme distesa: e tuttavia
non bianca (l’attesa ha sempre un margine di errore:
eppure doveva essere bianca così la ricordavo
affacciato al balcone: io che ho della memoria
– diciamo la parola – un culto)

Ma non è poi questione di colore – certo – 
non è neppure questione di neve (di natura
semmai natura essendo anche lo sbaglio di natura)
conta però che intanto sia caduta che il cielo
si sia aperto: ed ora infatti è terso come
non mai in questi giorni – che sia cessata l’attesa
rientrato l’allarme

Si è ripetuto insomma è stato bello ne sono stato
aggredito posso pensare ad altro: a quello che non
c'è

Dove si vede che la neve è un segno 
– meglio un segnale: e che rimanda
ad altro. Simile in questo ad altri
anche opposti segnali. Che può essere
la vita o il suo contrario. Come l’albero
e l’acqua. Un destino se vuoi. Che tarda
a venire: per sua intrinseca ironia
Di questo passo è certo che persino
la morte non sarà casuale: quando verrà
se verrà se già non è venuta (potremmo
non essercene accorti?): un piccolo fatto
di ogni giorno un gesto: il più banale possibile

Potrebbe essere anche un gioco o peggio
– un  bluff – lo  dico vedi per metterti in guardia
(si comincia a giocare sempre giunti al colmo
della disperazione) sia la morte o la neve
siano i passi segnati sulla neve: indizi
di persone che poco fa sicuramente c’erano:
si saranno nascoste? hanno paura di me? o forse
sono tracce di animali? l’inizio di una pista?
o un tranello?

Dove si vede che la neve è un segno distorto
neppure infine una spia quando che sia scomparsa
svaporata: al di qua di ogni scarto dialettico
(seppure bianca per caso: come ancora infatti
la ricordo affacciato al balcone della mia vecchia
casa) precaria come un sogno: un segnare spezzato:

lo sapevo:

non c’è nulla che duri tutto l’anno: la neve
il piccolo pesce nell’acquario l’attesa il raffreddore
per quanto tutti ostinati e refrattari: niente

Benché fosse soltanto della neve che volevo
parlare. Di questa enorme distesa.


Da Le precipue funzioni, Quaderni di Messapo, 1980

venerdì 20 dicembre 2013

Franco Fortini

L’INVERNO
da Agrippa d’Aubigné

Le mie voglie, più sterili che belle,
Volano via. Voi lo sentite, rondini,
Si dissipa il tepore, avanza il freddo.
I nidi siano altrove. Non turbate
Di ciarle i sonni, di sterco le mense.
Dorma in pace la notte del mio inverno.

Scarso si trae ormai sul mondo il sole.
Meno scalda ma illumina costante.
Senza rimpianti mi tramuto, quando
Di falsi amori fatui mi rimorde.
L’inverno amo, che me di vizi monda,
Di morbi l’aria, di serpi la terra.

Candido il capo gravano le nevi.
Stempra quei geli il sole che mi è lampada
Ma scioglierli non può, corto è febbraio.
Nevi, scorrete al cuore in freddi rivi
Né cenere arda che altri incendi avvivi
Quali, cinto di fiamme, un giorno amai.

Spenta la vita, già non sarò spento.
Lampeggerà di me lo zelo santo
Ardente per la santa arca divina.
Sia dei miei resti un olocausto ai templi,
Ghiaccio ai fuochi empi, rèsina ai celesti,
Torcia ruggiante e no funesta fiaccola.

Breve il piacere ma breve la doglia.
Di usignoli silenzio e di Sirene.
Nessuno, vedi, i frutti e i fiori coglie
Né speranze lusinga ombra di bene.
Beata estrema età l’inverno viene
Che tutto gode e più non dà travaglio.

Ma prossima è la morte e a una immortale
Vita, chiusa la falsa, apre le porte,
Vita di vita e morte della morte. 
Chi gli agi fugge per amar naufragi?
A chi, più del riposo, il viaggio piace
E il lungo errare è più dolce del porto?

Da Composita solvantur, Einaudi, 1994


mercoledì 18 dicembre 2013

Marcella Corsi

NUVOLE

L’unica nuvola sul sole dunque raggela
tutti i giardini nonostante i rami
nudi sul cielo nonostante i chiari
fiori nel verde ancora accesi, tu
nuvola ardente innumerevoli cieli
tizzo vagante santo racchiuso
tra dorate teche che nessuno osa
indovinato mai concluso patto
oggi che il rosso vince nelle parate
natalizie e sulla nostra porta sola
non fa mostra del suo oro, sappi
amico amato quanto dolore è preso
nelle reti frequenti che le parole
tendono da un maschio all’altro
per femminili passi gesti parti, per
clonazioni cui ogni segno di devianza
costa lacrime e strazio senza che spazio
s’apra mai che già non fosse incluso
e non è questo quello che conta forse
e non è giusto né bastante e non
sarà una vita che risolverà il problema
e non le lasceranno forza sufficiente
ad inventare quel che serve, unica
nuvola a raggelare il mondo.

Da Distanze, Edizioni Archivi del ’900, 2006

lunedì 16 dicembre 2013

Francesco Paolo Memmo

ANTEFATTO DELLA NEVE                                 

... 
     per quanto c’entrasse di sfuggita
pronto a darsela a gambe lungo la tangente 
– c’era una folla ostile il sole ubriacava
l’aria di un ferragosto torrido – ebbene 
non è detto che qualcosa dovesse cambiare
ma insomma un mucchietto di neve sarebbe
stato assai meno di un miracolo (mia madre
ora soffre di coliche improvvise: ingratitudine
– dice – dei figli) in questa città vertiginosa
in questa vertiginosa Roma assurda Roma
paradossalmente felice dei suoi vuoti (e
mia madre lo sa che soffre d’improvvise nostalgie
non sa come difendersi dal caldo: l’ansia
è la sua aurea regola di vita) sebbene la tangente
sia un’impervia salita la montagna
quanto poco incantata in cui tutto davvero
tutto si riduce ad un’estenuata ripetizione
di gesti di cose di parole di nomi senza cognomi
– decise infine di restare in attesa della neve
convinto che sarebbe sopraggiunta: una questione
di attimi (mia madre ancora si diverte ad ammassarla:
senza saperlo tiene in mano la vita, l’attraversa...)

Da Le precipue funzioni, Quaderni di Messapo, 1980

venerdì 13 dicembre 2013

Ted Hughes

LA VOLPE PENSIERO

Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:
qualcos’altro è vivo
oltre la solitudine dell’orologio
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.

Attraverso la finestra non vedo stelle:
qualcosa di più vicino
seppure più affondato nel buio
sta penetrando la solitudine:

freddo, delicatamente come la neve scura,
il naso di una volpe tocca fronde, foglie;
due occhi servono un movimento che ora
e ancora e ancora e di nuovo

lascia nitide impronte sulla neve
tra gli alberi, e con cautela l’ombra
zoppa indugia vicino ai ceppi e dentro buche
di un corpo che ha l’ardire di avanzare

attraverso radure, un occhio,
un verde che cresce in intensità,
brillante e concentrato,
che se ne viene per le sue faccende

finché di colpo con acuto e caldo puzzo di volpe
non entra nel buco scuro della testa.
La finestra è ancora senza stelle; l’orologio ticchetta,
la pagina è pronta.


Traduzione di Nicola Gardini

Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008

mercoledì 11 dicembre 2013

Isaac Rosenberg

VERDI PENSIERI SONO

Verdi pensieri sono
lastra di ghiaccio su un carretto
splendente a luglio.
Lì accanto un ragazzino
a piedi scalzi con due gemme al naso.

Traduzione di Francesco Dalessandro


da The Collected Works, Chatto and Windus, London, 1984

lunedì 9 dicembre 2013

Tess Gallagher

SPONTANEAMENTE

Quando mi alzo è un pezzo che lavora
agile il suo pennello sopra la casa.
Lo guardo sulla scala sotto la gronda
e mi rivedo addormentata nel sogno
che non sono riuscita a portare fino
alla veglia. Si dorme dentro una casa
che vien dipinta e vite intere
diventano l’impronta familiare della luce
del giorno sulla pianta della preghiera.
Questo “non ricordare” è una novità
di un posto dove si è stati.

Quel che nel sonno si è agitato o depositato
vi rimane. Mentre la tua casa
sotto l’azione costante della sua mano
lascia se stessa e tu ti accorgi che
questa superfice di nuova luce
che ti ricopre gradualmente il sonno
ha un potere ancor più grande.
Ora pensi di aver sentito le pennellate
oppure gli spazi tra l’una e l’altra,
un movimento che ti pesa addosso – 
un accumulo di stelle, ciascuna notte stellata
si sistema sui tetti di intere città.

Le sue pennellate attente imbiancano la tela,
le sfumate volute del legno son cancellate
come un respiro bloccato nel cuore. Nulla
è cambiato, dici, in mala fede. Eppure qualcosa
ti ha purificato fino a non farti più
riconoscere. Quando ti metti vicino alla sua scala
e guardi su, lui non dà segno di vederti
e come alla luce del giorno di un sogno
ti rendi conto che la tua casa è passata
nelle mani benedette di altri.

Il senso del possesso è questo, pensi:
arrivare nell’inebriante dopovita
dell’odore della tinta.
Qualcosa si apre in fondo a te.
Un po’ di tinta ti è caduta sulla spalla
come se la luce celasse un peso insospettato.
Sei convinta ti abbia attraversato il corpo.
Sei convinta di aver dato il tuo consenso
a questo, a quel che è stato fatto
della tua vita, spontaneamente.

Traduzione di Riccardo Duranti

da “Arsenale”, numero zero, ottobre-dicembre 1984

venerdì 6 dicembre 2013

Francesco Tentori

PASSERO

Passero che nel crudo
del giorno ancora invernale, all’incerto
risplendere del sole sei già qui
e ti volgi a ogni soffio, saetti l’occhio
a ogni ombra, svoli via
se ti guardo, ma torni, vai di ramo
in ramo, d’acqua in acqua,
e purché un suono, un colore ti chiami
scordi freddo e timore, non badi
che al filo d’erba, alla gemma, al lombrico,
tu somigli alla vita che un bagliore
basta a attrarre, e a distrarre dal suo inverno.

Da Il segreto degli specchi, Poesie 1949-1994, Biblioteca di Ciminiera, 2005

mercoledì 4 dicembre 2013

Vittorio Bodini

SAN GIOVANNI DEGLI EREMITI          

Vedi come frantuma questa tromba
negra la frase, rovistando i più
oscuri ripostigli dell'amore
e del tempo? O come l’erba
effimera tremando
somiglia al suo concetto?
E tu che pensi,
funerea carne al vento viola,
persa
tra le cupole rosse mussulmane
e il pallore dei ruvidi limoni?
Cosa ottiene il tuo sguardo che non sia
silenzio che si fa colore,
colore che si fa scusa mortale? 

Da Tutte le poesie, Besa, 2010 


lunedì 2 dicembre 2013

Annalisa Comes

PAESAGGI CON LUNA

a Yves, e a tutti gli uomini sulle colonie

I

Oltre il parapetto del balcone
esistono terre inesplorate
che tali per me rimarranno.
Tu parli di mulini a vento,
di palme, manghi e
altre spezie tropicali.
Ancora non hai abbandonato
la tua aria da eterno turista,
lo sguardo vaga intorno
a trecentosessanta gradi.
Laggiù ci sono ratti, scimmie, pesci velenosi, 
coralli taglienti, scolopendre, febbri improvvise,
mentre i negri raschiano a terra la spazzatura,
avventurieri si arricchiscono di rum e tabacco,
e tu, chef, di ritorno dalla città,
apri il tuo bel cocco a metà  
– metà  luna – 
bevi il latte e tiri su col naso.
Nel cuore della giungla occhieggiano
tanti animali feroci pronti
a essere sventrati dal tuo pugnale coloniale.

Ma cos’è questa colonia
che ha un aeroporto in miniatura
e ferri vecchi bruciati dal sole
e barili di senape per i clienti migliori?
Ci lasciano attingere acqua a piene mani,
ci sono uccelli di verde bosco,
di blu cobalto e rosso tramonto.
Sulla veranda una mami negra
stretta nel suo grembiule ocra
cucina un’esotica insalata,
si pulisce le mani sui fianchi e
culla una bambina chiara come il fiore di ylang ylang,
e tu dici ch’è felice di servire.
Perché sa fare solo questo.

In Occidente i fumi svettano
come bandiere e le bandiere cambiano
pur non cambiando politici e mestieranti,
al tramonto, prima della luna, tu scivoli tranquillo 
sulla tua docile canoa
in cerca della spesa.
Agguanti una grossa testuggine e con
monacale pazienza la accarezzi, la svuoti, la lucidi
lavori per giorni e giorni 
sul tuo trofeo tropicale.

In Occidente nessuno ha più
pazienza per fare la fila sull’autostrada, 
al supermercato, alla posta
e il tramonto lo gode l’inquilino
dell’ultimo piano – se è proprio fortunato,
se ha tempo per fermarsi sulla soglia
della veranda condonata.

Della testuggine ora
neanche l’ombra, perché è sepolta
a nord, in un bel giardinetto di Bretagna.

II

Pensando non so che vago pensiero in testa,
eri quasi sicuro d’aver cambiato vita e
mondo. Ma la semplicità del naufrago
e la solitudine dell’eremita non sono fatte per te.
Chi poteva vedere questa tua nuova vita?
Chi poteva vederti dritto in piedi
orgoglioso del tuo bel mulino con una camicia a fiori
inquadrato dalla luna?
Un uomo se ne va, solo per poter ritornare.
E se poi ritorna con qualche oggetto tipico
la festa è ancora più grande,
perché gli oggetti nascondono i buchi vuoti,
furti, mancanze, rapine.

III

Alzavi gli occhi alla luna
e quella bruciava, più forte che sui porti
ai quali eri abituato, 
più inebriante, 
crepitante 
come un vecchio ferro da stiro,
colava sulla staccionata, sugli arbusti di lantana, sulla biancheria
ordinata sul filo di plastica verde. 
Al largo, fregate, yacht, scafi d’ogni genere e
di latta, di legno e colla,
sudate, la poppa oscillante.
Tu le guardavi passare dalla zanzariera del letto,
la tazza del caffè in mano,
il berretto già calato sulla testa.
Quale altra avventura ti avrebbe riempito la giornata?

L’oceano brilla come metallo d’argento, 
sotto la grossa luna
scivoli sull’acqua, dall’acqua guardi l’isola:
la Grande Terra si allontana, i ciuffi dei palmizi
si polverizzano, gli uccelli ronzano
sempre più lontano
e arrivato all’orlo estremo della barriera corallina,
osservi bene il vuoto di blu che si spalanca,
la luce cola al fondo senza più riparo,
la schiuma si frange e sembra docile, 
quasi una risacca.
Butti le reti che sanno già di visceri di pesce,
e ti lasci andare a questo giardino
azzurro, attento con la briglia
dell’ancora a non oltrepassare la sponda di un altro meridiano.
Che bel riparo quest’isola di fiori e di vaniglia,
di luna e aperitivi,
di vele, piogge e onde dalla cresta rosa.

IV

Pensando non so cosa, pensi che potresti
rimanere. Questa volta l’oceano
sembra quasi una laguna
sotto la luna nuova – 
L’orizzonte è così largo,
la terra così stretta,
l’acqua ti fa un mantello per l’ultima stagione.
Ma il buio nero 
appassisce senza spaventare.


(inedita)