lunedì 31 gennaio 2011

Giovanni Della Casa

AL SONNO






O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de’ mortali
egri conforto, oblio dolce de’ mali
sì gravi ond’è la vita aspra e noiosa;

soccorri al core omai che langue e posa
non have, e queste membra stanche e frali
solleva: a me ten vola o sonno, e l’ali
tue brune sovra me distendi e posa.

Ov’è ’l silenzio che ’l di fugge e ’l lume?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?

Lasso, che ’nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo. O piume
d’asprezza colme! o notti acerbe e dure!


da Rime, a cura di Roberto Fedi, BUR, 1993

venerdì 28 gennaio 2011

Eugenio Montale


FORSE UN MATTINO ANDANDO...

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

da Ossi di seppia, Mondadori, 1976

mercoledì 26 gennaio 2011

Jude Stéfan

COME LA MADRE IL SUO BAMBINO 




Come la madre il suo bambino così
io ti spoglio ma molto lentamente.  
Messe a nudo le braccia le bacio del tuo
petto scoperto in riverenza; cadono
quindi la gonna e le sue gale
alle tue gambe adorate fedeli. Allora
io spargo i tuoi capelli tu liberi
la gola sfilandomi fibbie e anelli
per una carne più pura con le tue fini
dita premi i miei occhi indociliti.
Se giaci se guerreggi a turno muti
e gementi alla messa dei corpi ci comunichiamo
con l’ostia delle lingue e delle labbra


Traduzione di Gianfranco Palmery
da Alma Diana, Il Labirinto, 2000


lunedì 24 gennaio 2011

George Gordon Byron

QUANDO CI SEPARAMMO


Quando ci separammo
in lacrime e in silenzio,
spezzato in due il cuore
e divisi per anni,
pallida e fredda si fece la guancia,
più gelido il tuo bacio,
e quell’ora davvero fu presagio
del dolore di questa.

La rugiada dell’alba
gelò sulla mia fronte,
fu per me come il monito
di ciò che provo ora.
Hai spezzato i tuoi voti
e ti dicono frivola:
sento dire il tuo nome,
ne condivido l’onta.

È un funebre rintocco
il tuo nome al mio orecchio
e ne rabbrividisco.
Perché eri così cara?
Nessuno sa che io ti ho conosciuta,
e conosciuta bene:
a lungo, a lungo tu sarai un rimpianto
profondo da non dirsi.

L’incontro fu segreto,
e in silenzio lamento
che il cuore m’ha scordato
e l’anima tradito.
Se dovessi incontrarti
dopo tutti questi anni,
oh, come salutarti?
Con lacrime e silenzio.

Traduzione di Francesco Dalessandro
da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto, 2008

Byron, Poetical Works, Oxford University Press, London, 1970

venerdì 21 gennaio 2011

Mario Luzi

NOTIZIE A GIUSEPPINA DOPO TANTI ANNI


Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?

Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.

Tutto l’altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra,
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.


Tutte le poesie, Garzanti, 1979

mercoledì 19 gennaio 2011

Kenneth Rexroth

OMERO PRIMA DI TUTTO


Luccichio dei ricami
di Nausicaa, braccia lucenti,
e lunghi capelli di vergine;
facendo il bucato, vento
pungente nell’aria tersa
d’un giorno mediterraneo.
Odisseo, guance scavate,
occhi stravolti, sbuca dai cespugli.
Seduta vicino alla cascata,
Mary legge Omero mentre io
pesco trote maculate di torrente
nella corrente screziata dal sole.
Sono piccole e sfuggenti.
Per lo più sono state già pescate.
L’acqua cade entro tenui
pannelli di luce tra rosse
sequoie, su granito
e calcare, sotto verdi felci
e lupino viola. Tempo fa,
in queste pozze e gorghi,
catturai vecchie trote enormi.
Queste hanno al più tre anni.
Mary ne ha sette. Omero
è il suo poeta preferito.
Mi ci è voluta tutta una vita
di vergogne e di vizi per capire
Omero. Lei dice: “Quegli dèi
non sono terribili?
Come gli angeli di Milton,
non fanno che lottare
e preparare tranelli per i poveri
greci e troiani. Preferisco
Aiace e Odisseo, che sono
molto migliori di quegli
stupidi dèi”. Con la bravura
per il disegno, è probabile
che cresca anche la sua saggezza.
Poi con gli anni la vedrà
sfiorire e spenderà
tutta la vita per recuperarla.
Adesso insegna a Katharine
la profonda saggezza dei sette anni
e Katharine risponde
col profondo nonsenso dei tre.
Ingrigito, su montagne di granito,
io prendo pescetti. Dieci pesci,
Omero e due ragazzine in posa
per una foto vicino al tronco
rosso cinnamomo di una sequoia
di sei metri. Scattando m’accorgo
che quest’albero è grande
come i pini dell’Olimpo, non prima
che Omero cantasse, ma prima
che Troia crollasse
o che Odisseo lasciasse
casa e prendesse il mare.



Traduzione di Francesco Dalessandro



The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003

lunedì 17 gennaio 2011

Torquato Tasso

DUE MADRIGALI




*


Soavissimo bacio,
del mio lungo servir con tanta fede
dolcissima mercede!
felicissimo ardire
de la man che vi tocca
tutta tremante il delicato seno,
mentre di bocca in bocca
l'anima con dolcezza allor vien meno!




**


Questa vita è la selva, il verde e l'ombra
son fallaci speranze, e son le reti
piacer dolci e secreti,
e sono ispidi dumi
crude voglie e costumi:
la fera è la mia donna, Amor l'arciero,
il veltro il mio pensiero.
Ella ratta se 'n va senza ritegno,
né fugge per timor ma per disdegno,
non servitù ma pace:
e quanto è più superba è più fugace.




da Aminta e rime, a cura di Francesco Flora, Einaudi, 1976

venerdì 14 gennaio 2011

Carlo Betocchi

ROTONDA TERRA; SCENA CHE SI RIPETE


Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, con te e i tuoi tramonti:
trasalimento, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolìo interiore; perdita
dell’umano: divenir mio universale.


da Poesie del sabato, Mondadori, 1980

mercoledì 12 gennaio 2011

John Berryman

LA DOMENICA ALL'ALBA, MENTRE I PRETI APPLICAVANO




La domenica all'alba, mentre i preti applicavano
ostia e vino sulle umane ferite, noi
per curarci ci distendevamo: privi,
temo, di paramenti, ma gli amici di Francesco gridavano
nella navata di pini, sazi di sole, ed elusivi
come angeli volavano attorno alla barriera
di rami sopra di noi, affondati in un soffice
letto sfatto di aghi, e nel mare del nostro simultaneo morire.


«È madre di bellezza la morte». Ogni foglia al suo posto
di piacere tremando, noi moriamo per star bene…
Incuranti dell’amore assonnato, da tanto disamorati.
Che importa se la nostra convalescenza sarà come noi
breve, se il mattutino è già campana a morto?
In mezzo ai pini nostro fratello, il vento, va e viene.


da Sonetti di Berryman, Il Labirinto, 2001

Traduzione di Gianfranco Palmery



John Berryman, Collected Poems 1937 - 1971, Edited and Introduced by Charles Thornbury,  Farrar, Straus and Giroux, New York, 1991

lunedì 10 gennaio 2011

Orazio

VEDI, PER L'ALTA NEVE S'ERGE CANDIDO


Vedi, per l’alta neve s’erge candido
il Soratte, le selve sono oppresse
dal peso che sostengono a fatica,
fermi i ruscelli per il gelo acuto.

Tu metti, metti legna sul fuoco
in abbondanza, Taliarco, e dissolvi
il freddo, versa puro un vino
di quattro anni dall’anfora sabina,

e tutto il resto lascialo agli dèi:
quando hanno abbattuto i venti in lotta
sul ribollente mare né cipressi
né vecchi frassini s’agitano più.

Non chiedere quale domani
t’aspetti e il giorno che la sorte
concede tu segnalo a guadagno;
non sdegnare le danze e i dolci amori:

sei giovane e la querula vecchiaia
è lontana. All’ora fissata le piazze
siano la meta e sul far della notte
i sussurri discreti dei convegni,

il grato riso che l’angolo rivela
dove la tua ragazza si nasconde,
il pegno strappato dal polso
o dal dito che appena resiste.

da Odi,  I, 9


Traduzione di Francesco Dalessandro

venerdì 7 gennaio 2011

Attilio Bertolucci


PICCOLO AUTORITRATTO (CAFFÈ GRECO)

Non potevano tanti anni, diviso
ognuno in mesi i mesi in giorni,
i giorni in ore, minuti, attimi,
alterare più giustamente un viso,

il mio, che guarda in uno specchio scuro
dell’antico caffè dove impietosa
si scatena la moda ultima, io,
da questa escluso forse per il puro

lampo degli occhi e intenerito riso
della bocca alla consunta ferita
di un amore vittorioso su anni
e adipe, oh non esigente narciso.

da Viaggio d’inverno, Garzanti, 1971

mercoledì 5 gennaio 2011

Vincenzo Cardarelli

E ORA, IN QUESTE MATTINE

E ora, in queste mattine
così stanche
che ho smesso di chiedere e di sperare,
e tutto il giardino è per me,
per il mio male sontuosamente,
penso agli amici che mai più rivedrò,
alle cose care che sono state,
alle amanti rifiutate,
ai miei giorni di sole...

da Opere Complete, Mondadori, 1962

lunedì 3 gennaio 2011

Gerard Manley Hopkins

L’ALCHIMISTA IN CITTÀ

La mia finestra svela nubi passeggere,
foglie spente, nuove stagioni, cieli
mutevoli, folle ristrette e disperse:
il mondo intero passa; io sto a guardare.

Uomini e mastri non sciupano le ore
loro assegnate, progettano costruiscono:             
vedo il coronamento delle torri,
e felici promesse mantenute.

E io – se il mio proposito potesse
contare forse su un tempo
prediluviano, sosterrei fatiche
che avrebbero così il loro retaggio,

ma ora prima che il crogiolo possa
ardere con un oro mai scoperto,
il mantice avrà smesso di soffiare
e la fornace sarà raffreddata.

Adesso è troppo tardi per guarire
dalla vergogna che impacciata e inetta
quando tratto col prossimo mi rende
del cieco o dello zoppo più impotente.

No, la città dovrei amarla meno
anche di quest’ingrata mia dottrina;
ma ora io desidero il deserto
o gli spogli declivi della costa.

Passeggio sull’arioso belvedere
e osservo il sole declinare o alzarsi,
vedo le giravolte dei piccioni, 
studio il rincorrersi delle rondini

dal sommo della torre al suolo
sottostante, nell’aria che le sostiene;
poi scopro nel cerchio dell’orizzonte
un punto e bramo d’esserci.

Così odio di più questa dottrina
che non reca promesse di successo;
dolcissima la spiaggia inabitata
mi sembra, familiare e gentile il deserto,

i tumuli antichi che ricoprono ossa,
le rocce dove trovano riparo
i piccioni marini, e terebinti
e pietre, il silenzio e un golfo d’aria.

Là sopra un’ampia altura pianeggiante
dopo il tramonto mi distenderei,
e trafitta la cerea luce gialla
di un lungo aperto sguardo, morirei.


Traduzione di Francesco Dalessandro


The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1970