LE MICROELEGIE
1
Finalmente
è arrivato, l’amore!
Senza
pudore lo dico: avrei
più
vergogna a nasconderlo.
Venere,
impietosita dai miei versi,
me
l’ha donato e posto
in
cuore: ha mantenuto
le
promesse. La mia felicità
ora
narri colui che non ne ha avuta.
Non
vorrei confidarlo
a
parole di cera quest’amore:
che
nessuno lo sappia
prima
di lui, il mio amato.
La
colpa è troppo dolce:
fingere
la virtù perché dovrei?
Ci
dicano degni l’uno dell’altra.
2
Ecco
giungere odioso il compleanno
che
nella noia della campagna,
triste,
trascorrerò, senza Cerinto.
Della
città cos’è più dolce? È adatta
a
una ragazza forse la tua villa
in
campagna, Messalla, e il freddo fiume
nell’aretino?
Calmati, di me
non
preoccuparti, questi viaggi sono
inopportuni
e se mi porti via,
perché
non posso scegliere,
lascerò
qui ogni cosa, anima e sensi.
3
La
minaccia del viaggio ha abbandonato,
lo
sai?, il cuore della tua ragazza.
Perciò
nel giorno del tuo compleanno
resterà
a Roma. Lo festeggeremo
insieme
il giorno che per te ora giunge,
forse
inatteso.
4
Ti
sono grata perché ti permetti
di
tutto, senza più curarti
di
me: eviterò di cadere
da
sciocca, in malo modo.
Tieni
più a cuore la veste
di
qualche puttanella con la cesta
sul
capo di Sulpicia, figlia
di
Servio? C’è chi è in ansia
per
me, ma soprattutto
l’addolora
pensare che potrei
cedere
a un letto ignobile.
5
Ti
sta a cuore davvero, Cerinto,
la
tua ragazza mentre la febbre
ne
brucia il corpo indebolito?
Perché
vincere la triste malattia
se
non sapessi che anche tu lo vuoi?
Per
chi dovrei guarire, se con cuore
indifferente
sopporti di vedermi soffrire?
6
Che, mia luce, io non sia
più l’ardente passione
tua, come sono stata
nei giorni trascorsi, se in tutta
la giovinezza commisi una colpa –
che confessi più pentita –
insensata, come questa:
averti abbandonato, ieri notte,
da solo, per volerti
nascondere il mio ardore.
Traduzione di Francesco Dalessandro
NOTA
Servi filia Sulpicia.
È l’unica notizia certa che abbiamo di questa ragazza poeta (del suo innamorato,
Cerinto, si sa anche meno). La parentela con Messalla, che ne ebbe anche la
tutela, ha fatto pensare che il padre fosse un tale Servio Sulpicio Rufo,
nominato da Cicerone, e di Messalla forse cognato. Ma, dopotutto, cercare di
stabilirne l’esatta identità è ozioso. Che Sulpicia facesse parte
dell’aristocrazia romana, lo testimonia la raffinatezza della sua educazione,
anche letteraria; ma a noi importa che – oltre a costituire un rarissimo
esempio di poesia femminile in epoca romana – le sue microelegie, veri
bigliettini amorosi, hanno un sapore di toccante, godibile freschezza, la
grazia di un dire urgente e quasi smanioso, una secchezza incisiva e senza
pudore, che va dritta allo scopo che le preme, al dire e al fare di una storia
d’amore intensamente vissuta.
Diverso è il caso di chi
rielaborò i suoi bigliettini, o da essi prese spunto per confezionare un
piccolo ciclo di cinque elegie. Chi lo fece era poeta vero, non c’è dubbio; ma
chi fosse anche in questo caso non sappiamo: si è pensato a Tibullo giovane, ma
nel circolo di Messalla operavano forse anche poeti che non conosciamo e uno di
essi potrebbe essere l’autore delle cinque elegie. In ogni caso, colui che
scrive sull’amore di Sulpicia, pur nell’elaborata raffinatezza formale, e
benché non abbia la stessa spontaneità – e tantomeno la sfrontatezza – della
ragazza, mantiene un tono fresco e appassionato, diretto e incisivo, di buona
presa emotiva.
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