venerdì 12 dicembre 2014

John Keats

ODE A UN USIGNOLO


I
Il cuore mi duole, e un pesante torpore 
opprime i miei sensi, quasi avessi bevuto 
cicuta o per effetto di un potente 
narcotico fossi sprofondato nel Lete,
ma non per invidia della tua sorte 
fortunata, anzi troppo felice per la felicità 
con cui, Driade degli alberi, tu, d’ali 
leggere, in qualche verde
melodioso boschetto di faggi ricco 
d’ombra canti l’estate a squarciagola.

II
Oh, un sorso di vino mantenuto a lungo
al fresco in un antro scavato nella terra,
che sappia di Flora e di verde campagna,
di balli, canzoni di Provenza, solare 
allegria! Oh, una coppa colma del calore 
del Sud, e del vero, rosato Ippocrene:
bollicine brillanti ne imperlano l’orlo,
la bocca si tinge di rosso!
Oh, bere e non visto lasciare questo mondo,
sparire con te dove si oscura la foresta!

III
Svanire, dileguarsi, e così dimenticare 
ciò che da sempre ignori, tra le foglie:
noia, febbre e inquietudine qui, dove 
gli uomini siedono ascoltando i reciproci lamenti
e un colpo ne scuote i radi ultimi grigi capelli; 
dove gioventù impallidisce deperendo e muore
e già il pensiero è dolore che opprime, 
cupo e greve sconforto, 
e bellezza vedrà spenti i suoi occhi luminosi
o il nuovo amore li piangerà solo un giorno.

IV
Andarmene! andar via! per volare da te:
non sul carro di Bacco coi leopardi,
ma sulle invisibili ali della Poesia,
benché la mente ottusa indugi perplessa.
Con te, eccomi! Tenera è la notte
e la luna-regina siede in trono: intorno 
ha le sue fate stelle; non c’è luce, 
qui: solo quella 
che dal cielo soffia il vento tra verdi 
ombre e avvolgenti viottole di muschio.


V
Non distinguo né i fiori ai miei piedi  
né fra i rami l’incenso soave, ma nel buio 
odoroso riconosco ogni fragranza
che il mese offre all’erba e alle siepi, 
ai selvatici alberi da frutto e alla rosa
muschiata, al biancospino e alle viole
che presto avvizziscono sotto le foglie, 
alla primogenita di maggio, 
la rosa in boccio già ebbra di rugiada, 
ronzante rifugio d’insetti nelle sere d’estate.

VI
Mentre scende la tenebra, t’ascolto; 
spesso con la morte che reca sollievo 
feci quasi l’amore, le diedi nei versi 
teneri nomi perché all’aria mischiasse
il mio quieto respiro; mai m’è parso 
più prezioso morire: in piena notte 
spegnersi senza pena, mentre l’anima 
intorno tu – in estasi – effondi.
Continueresti il canto; ma nella terra io
per il tuo requiem non avrei più orecchi.

VII
Non sei nato per la morte, immortale 
uccellino! Né generazioni affamate
ti calpestano: ascolto nella notte fuggente 
la voce che un tempo udirono buffoni
e re; forse il canto che nel cuore triste 
di Ruth trovò una via quando fra il grano
straniero piangeva per la nostalgia; 
lo stesso che incantò 
fatate finestre aperte sulla schiuma 
di mari perigliosi, in terre in abbandono. 

VIII
Abbandono! La parola è un rintocco 
di campana che mi respinge verso il mio 
io solitario. Addio! La fantasia, ingannevole
elfo, non può illuderci più come sa fare.
Addio! addio! Il tuo inno dolente svanisce
oltre i prati vicini, oltre il quieto ruscello,
sul fianco del colle, e ora giace in fondo
alle radure della valle accanto.
Fu visione o solo sogno a occhi aperti?
La musica è svanita: io veglio o dormo?


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Sull’indolenza e altre odi, Il Labirinto, 2010

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