mercoledì 25 giugno 2014

Libero Tecci



OSSESSIONE DEL SERPENTE


a Friedrich Schröder-Sonnenstern, libero


i


LA MIA VITA COME UNO STILLICIDIO
l’uomo essendo l’animale più intelligente
concedergli tutte le attenuanti
tu conosci il posto dove ci trovammo quella sera di freddo
avevo una conoscenza sopita delle cose e mi sbagliai
voi che mangiate carne in scatola 
siete uomini del vostro tempo
il principio del tornaconto essendo il cardine del benessere
si ha diritto al blasone d’attualità
tortuosità verbali possono arcobalenare ai nostri orizzonti


quale antifecondativo mi consiglia dottore
oh sì a dodici anni mi davo già ai fornitori

emblemi così sono anormali come i pederasti
poiché l’illusione è imprecisa come il tramonto

non so dove l’ora potrà farsi un nido
se la cassa dell’orologio si spacca
senza ripensamenti sempre è il tempo

noi siamo i certi confini che il tempo fissa
pilastri inconfondibili
alle soglie della storia
noi portiamo i feriti al ricovero
ignorando i nostri bisogni
la sirena dell’allarme ci inchioda
furiosa al cemento armato

ecco un salmo d’attualità
Brezhnev Franco Papoadopoulos per esempio

«E IO TIRESIA HO PRESOFFERTO TUTTO»


ii


IL DUBBIO ALBEGGIA AL MIO ORIZZONTE, DUNQUE È L’ORA

colonne d’autotreni e carrozze a cavalli in questo mercato
dei fiori dove lo sfasciacarrozze fa affari d’oro,
sculture di balestre con crini di cavallo e bulloni
arredano la camera da letto
sul comodino un pneumatico in bilico sull’asse di un volante
un gelato di pistacchio e panna per una cagna in calore
questo sono io
una vecchia lampada a petrolio
nascosta nel portabagagli d’una vecchia wolksvagen,
                                                                                    che si
                                                                                    consuma
                                                                                    a stento


iii


NON HO MAI MANGIATO CUORE DI DONNA

è l’ora del dolore che mi spalanca gli occhi
indicibili nudità baleneranno
nelle mie veglie precoci,
insaziabile fame d’una pazza adolescenza

le sue cosce mi davano calori da infarto
nelle fredde notti di febbraio
mentre fuori abbaiavano i cani

aspetto che uscirà dall’acqua per asciugarsi
miracolo d’apparenze la sua nudità
ha la chiarezza d’una frase a lungo meditata
e m’abbagliò come un sole artificiale

ai piedi della scala si ferma a pisciare

quando si spogliò
nuda come una mano nuda
intensa come un vino cotto
non so bene la biancheria che restò sul pavimento
né la fica

                                      venni
                                sul pavimento
                  quando spense la candela il cuore
                                    batteva
                            mitrrraagliatrrriice

in terra restano le mutandine bianche delicate
case cadenti della mia innocenza violentata

MA SI TRATTA DELLE MIE DEVOZIONI, DISSE ARTHUR


iv
(litania della fame che fu)


seduti davanti a una bianca tovaglia imbandita
Braque e Picasso discutevano della mela di Cézanne
Soutine vendeva quadri sui lungosenna
Chagall bisticciava coi colori
(il grigio fonde le nostre aspirazioni in croglioli di noia)
(il giallo melone dell’amore affina vanità)
(amo tratteggiare finestre con le note di un blues)
mio fratello Paul Klee lavorava eccitato alla Notte
Modigliani baciava il bel collo di Lady Bottiglia
Duchamp si chiudeva nel bagno El Greco in soffitta
e mentre lo sparviero del pianto planava su Guernica
Piero della Francesca entrava in uno dei migliori bordelli
al confine fra Spagna e Portogallo
in una delle camerette a pianterreno
c’era un ospite di riguardo con la migliore ragazza della casa,
le mani paffutelle della Gioconda
non so quante carezze hanno dipinto sulla barba di Leonardo
forse i suoi denti erano cariati o forse
aveva qualcosa in bocca quando lui le scattò la foto ricordo,
ho cercato illuminazioni al proposito


v


Caryl Chessman nella cella della morte aspettando Godot
parlava di Villon con una ballerina
che gli ballava sull’avanbraccio sinistro uno scosso rock’n’roll,
Godot il guardiano portò la colazione
                                                                                 uova sode
                                                                                 tartine al burro
                                                                                 prosciutto
e posando il vassoio davanti a Chessman
s’incantò a guardare la ballerina nuda

                                                                                 pagami da bere
gli disse a un certo punto e il guardiano
prese da un cassetto una bottiglia di whisky versandone per due
Caryl fermando l’avanbraccio la ballerina cessò il rock’n’roll

non è gentile dimenticarti del nostro amico
lo rimproverò indicandogli Caryl che mangiava con appetito
leggendo qualche riga d’un dramma di Beckett
il guardiano riempì un altro bicchiere e glielo porse
posandolo sul tavolo

                                        vuotarono i bicchieri
e dopo un altro paio la piccola Naked si strinse
alle sbarre della cella e strofinandosi contro Godot
sussurrò
                   apri & let’s lie down somewheres baby

Chessman dormendo a questo punto
poggiato il capo sull’ultimo libro di memorie,
un altro se stesso gli sussurra all’orecchio
è fatale che non sappia rinunciare alla carta stampata


vi


è la sera che messasi lo scialle
esce di scena introducendo la luna

cra cra cra cra cra
lo stagno è pistacchio stasera
una zanzara genitrice di non so quale famiglia
si sbizzarrisce in ditirambiche evoluzioni
davanti agli occhi di quella rana
finché trafitta
dall’ultima lama di sole
cade a piombo
tra le erbe ristagno
ma prima che sparisca
nell’acqua melmosa
la raccoglie la slinguacciata di
rospo vorace

armi e bagagli in braccio
si dirigeva spavaldo verso il fossato
della trincea cittadina
mentre i compagni lo sfottevano
ridendo del suo caparbio sogno di gloria

la mano naviga nell’ora
dell’amoroso ardore
e l’occhio si trascina
zoppicando nel fango,
così terrestre ancora
una pietosa copia di speranza
nell’impaccio del cuore

(peccato
che fosse sempre solo
quando pregava)

in un vaso ho seminato
le disilluse speranze dell’uomo –
spero ancora che mettano germogli!


vii


STRADA CHE ADDORMENTI IL CUORE
GUARDA L’ASSURDO VIAGGIATORE

ecco la città che s’avvicina
come uno scatarro m’appare –
la città è qui
un intrigo di strade che s’accendono al tramonto
spasimi cupi di lampioni
barlumi infedeli ai nottambuli ubriachi di noia
sputati dalle porte dei bar
e scuorati
nel perimetrale raccordo del Muro
che ristagna opaco nel sonno,
davanti ai loro passi strascicati si perde
l’ululato dell’ultimo autobus
(IO SONO QUI NUDO SENZA IDENTITÀ
dietro la maschera idiota di cittadino
una tosse mi percuote fino alle emorroidi)
e la peste si spande in piaghe maleodoranti infettando tutto
all’est l’aria è irrespirabile
gli urli------------frustano le case in piena notte
e nei ristagni di silenzio
la faccia gialla della luna si schiude
in un comatoso sorriso
mostrando tre file aguzze di denti
sui canali navigano canotti di gomma carichi di carogne
letame furibondo                     dove germogliano
intravisti nei volti sfigurati i vermigli e benedetti
fiori del vizio
la città           è una casa d’appuntamenti

mentre l’alba schiamazza in riverberi marci
vizza come le mammelle
della vecchia baldracca che dorme sul sofà
si riapre la caccia
le parole------------borseggiano i cuori del prossimo
aprono vie inesplorate al paradiso del sangue
alza la voce e parla

VOGLIO MORIRE COME CITTÀ PER NASCERE COME UOMO


viii


tornando ad inverno inoltrato
(perché la campagna sorride ai miei passi?
tra i covoni di fieno ritorno
                                         alle prime esperienze?)
niente volle sapere
si rotolò nel fango
sguazzando fra le pozzanghere
col moncherino della gamba amputata
aveva la testa stravolta
e ridendo per mostrarmi la cicatrice all’inguine
la svitò prendendola in mano
s’alzò la gonna
all’altezza del ginocchio
e disse
l’in-
contro
è uno
scontro

mezzodì
sul torrente frantuma
il ghiaccio notturno

e i lampi sbocciarono
fracassandogli lo scoppio repentino
la testa che
aveva in mano
mostrando


ix


IO SONO UN GENIO

m’hanno legato alla vita con catene di verbi
hanno aperto le mie viscere coi coltelli del formaggio
e m’hanno accarezzato coi bastoni del disprezzo

ho sognato di rendere l’odio con l’amore
e m’hanno impresso nell’anima il marchio del pazzo

ho imbracciato i fucili della vendetta
facendone stampelle per la mia disperazione

in questa cantina fuori mano
affilo i miei denti di serpente

traverso le piazze avvolto nel ridicolo mantello
cucito con le dicerie degli sciocchi

la vita corre sui miei nervi tesi
e io mi scaldo al sole
mi siedo a meditare sull’acqua sul pane
su dio sulle feci e sul vento

il vento non ha mai mantenuto le promesse

io vivo così ma posso morire
voglio anche morire

perché è più facile vivere che voler vivere
e non il contrario
infatti ci sono pozzi ovunque
che si spalancano davanti ai nostri passi


x


voglio aprire la luce

avete paura della luce
perché la luce vuol dire ripensare tutto

voglio distendermi su un freddo lettino d’ospedale
e fare l’inventario della mia vita

voglio cancellare in me stesso le tracce
di quanti ho amato, di quanto ho conosciuto

voglio scordare perché la luna ha le sue fasi
come una donna ha le sue cose una volta al mese
e che di questo sempre si stupisce

voglio morirmene solo come un cane
in un freddo e sporco lettino d’ospedale
e non affogare nel mare della tranquillità
e morendo auspicare il nuovo ordine sociale
chiamato------------anarchia

OM MANI PADME UM


AVETE SPEZZATO LE MIE SPERANZE
IMBAVAGLIATO IL MIO SPIRITO
TORTURATO LA MIA ANIMA
E ADESSO MI CHIEDETE DI VOTARE PER VOI
IO VOTO PER ME


epilogo


uscì,
sul portone Caravaggio
chiedeva l’elemosina ai passanti
avvolto in un vecchio cappotto sdrucito,
lo sferzava il nevischio incessante
– e non lo riconobbe


DITE AL SOLE E ALLA LUNA DI FARE UN CIELO NUOVO

(1967-1977)


(inedito)


NOTA

Fu Giovanna Sicari – non ricordo il periodo, ma parliamo di metà anni Ottanta – a darmi il dattiloscritto di questo poemetto. A Giovanna era stato proposto – non ricordo se dall’autore o da chi altri – per “Arsenale”, la rivista da noi e da altri poeti fondata e diretta da Gianfranco Palmery. Io, a mia volta, l’avevo passato in lettura ad Alessandro Ricci. Il testo, un po’ strano, ma interessante, benché vagamente avanguardista ci convinse a pubblicarlo – questo lo ricordo –, ma non subito, chissà perché. Poi “Arsenale” smise di esistere, perciò non fu più possibile. Da allora è rimasto sepolto con altri dattiloscritti in uno scatolone in casa di Alessandro Ricci. È tornato alla luce di recente, quando – in qualità di curatore testamentario delle carte di Alessandro – ho messo le mani in quello scatolone. L’ho riletto e, nonostante il mio interesse sia meno vivo d’allora, mi è sembrato giusto rimediare al torto di tanti anni fa pubblicandolo qui. Considerato il tempo trascorso, spero che non venga giudicato male.
Al dattiloscritto, e con esso passato di mano in mano, era allegato anche il ritaglio del settimanale “ABC” con la concisa autobiografia di Friedrich Schröder-Sonnenstern, che si legge nel post di lunedì scorso. È alle esperienze di vita dell’artista tedesco, al quale è dedicato, che mi pare s’ispiri il poemetto.
Non sapevo allora, né so ora, chi sia o sia stato Libero Tecci, l’autore del poemetto, e nemmeno ho più letto altro di lui, o avuto sue notizie. Se – per uno di quei casi fortunati che accadono ogni tanto e che stupiscono sempre – dovesse entrare in questo blog e leggere il suo testo, lo prego di farsi vivo; o lo faccia chiunque lo conosca o l’abbia conosciuto.


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