venerdì 28 agosto 2020

Kenneth Rexroth

 


VERSO UNA FILOSOFIA ORGANICA



Primavera, Coast Range


Il mio fuoco da campo dà rossi, cupi bagliori 

senza fiamma, e intorno ad esso s’allarga 

il cerchio bianco della cenere. Mi alzo 

e m’allontano sotto la luna; ogni volta che mi giro 

è più profondo quel rosso, più piccola la luce.

Lo Scorpione sorge tardi insieme a Marte 

preso nelle sue chele; la luna è apparsa prima, 

la luce come un coro di bambini tra giovani allori.

È aprile, l’alosa testa calda risale i fiumi; 

nei canyon umidi, il trillium; la lingua

di una fetida vipera penzola accanto alla cascata.

Una volta in questo campeggio c’era una fattoria, 

ormai praticamente sparita. E pecore, dopo la fattoria. 

Il fuoco tempo fa bruciò le sequoie della gola, 

e l’abete Douglas oltre la cresta; 

oggi il terreno è pietroso e sconnesso, le piccole pietre 

sono lastre appiattite in superficie come squame. 

Vent’anni fa allargandosi il burrone 

rovesciò la grande quercia addosso alla casa.

Ora non c’è più nulla, solo le fondamenta

coperte dalla quercia velenosa, e sopra, sul crinale,

sei solitari, minacciosi paletti di recinzione;

le travi di sequoia del granaio fanno una passerella

sul letto profondo ma asciutto del torrente;

la secca e bianca avena selvatica, d’estate, copre le colline.

Cammino sugli sparsi resti del frutteto.

In un fazzoletto di luce lunare una talpa

scuote la sua galleria come un nervo infiammato;

Orione avanza immerso fino alla cinta nella nebbia che arriva 

dall’oceano; il Leone si acquatta sotto lo zenit. 

Già ci sono minuscoli frutti duri sugli alberi di prugne. 

Incredibile purezza dei fiori di melo. 

Quando il vento si placa, la loro fragranza

li avvolge come fumo denso.

Riecheggiano tutto il giorno del ronzio delle api, 

ma sotto la luna sono muti e immacolati.



Primavera, Sierra Nevada


Lo Scorpione dorato s’incendia di nuovo sul valico

sopra Deadman Canyon, ordinato e brillante,

come un’ispirazione nel cervello di Archimede.

Ho visto la sua luce sul mare caldo,

sulle spiagge di cocco, fosforescente e pulsante;

la luce vivente fremere nell’acqua

e allontanarsi dalla mano che nuota,

scivolare sulle labbra, riempire i capelli galleggianti.

Qui, dov’erano ghiacciai e la neve dura a lungo,

la pietra è pulita come luce, la luce salda come pietra.

La relazione fra pietra, ghiaccio e stelle è regolare e duratura:

il nuovo emerge dopo secoli, schegge di roccia dai dirupi,

il ghiacciaio si ritira e diventa più grigio,

il torrente taglia il prato con nuove serpentine,

il sole attraversa lo spazio e la terra con esso,

Le stelle cambiano posto.

                                               La neve è durata più a lungo

di quanto si ricordi, quest’anno. Il prato più basso 

è un lago, gli altri due sono nevai, il passo è coperto di neve, 

solo le rocce più ripide restano scoperte. Tra il passo 

e l’ultimo prato il nevaio si spalanca per un centinaio 

di piedi, in uno stretto abisso azzurro dove scende 

luccicando una cascata nel tramonto al suo culmine, 

nera e robusta dove scompare di nuovo nella neve.

Il mondo è pieno di correnti nascoste

che battono le orecchie come l’etere;

aghi di granito escono dalla neve, pallidi come acciaio;

sulla miniera di rame la scogliera è rosso sangue,

la neve candida s’apre al bordo di essa;

il cielo si avvicina ai miei occhi come gli occhi 

azzurri di qualcuno baciato nel sonno.

                                                                       Scendo al campo,

alle giovani foglie di pioppo, rugose e appiccicose,

alle prime violette e ai ciclamini selvatici,

e preparo la cena nell’azzurro crepuscolo.

Tutta la notte i cervi pestano la neve con i loro

zoccoli affilati e al buio i musi freddi trovano l’erba

nuova ai margini della neve.



Autunno, Sierra Nevada


Stamattina, a colazione non c’era il tordo eremita, 

al suo posto una famiglia di capinere;

a mezzogiorno uno stormo di colibrì è passato a sud,

vorticando alto nel vento sulla sella fra il Ritter 

e il Banner, seguendo una linea di migrazione

verso sud, dalla cresta della Sierra al Guatemala.

Per tutto il giorno ombre di nuvole si sono mosse 

in faccia alla montagna, e l’ombra di un’aquila reale 

s’intrecciava con esse in faccia al ghiacciaio.

Al tramonto la mezzaluna corre sulla schiena curva

dello Scorpione, l’Orsa Maggiore s’inginocchia 

sulla montagna. Dieci gradi sotto la luna,

Venere scende nella foschia che sale dalla Great Valley.

Giove sorge dai picchi incendiati dal bagliore 

riflesso dal sole all’opposto. Il verso da ventriloquo 

di un gufo si mischia allo scampanio della cascata.

Col vento da oriente viene un tuono lontano.

La parete orientale della montagna sopra di me

s’accende con lampi lontani e sul passo 

il cielo divampa in un attimo come un’aurora.

C’è una tempesta sulle White Mountains,

su quei quattordicimila piedi d’aridi picchi; 

e sta piovendo sulle strette, grigie catene montuose,  

sui prati scuri di carice e le bianche saline del Nevada.

Appena prima che cali la luna una densa, piccola nube,  

scintillante come un grappolo di metallo,

si sposta sulla cresta della Sierra e s’allunga sul pendio di ponente. 

Il gelo, che ha colore e qualità di nuvola, 

copre tutta la palude sotto il mio campeggio. 

I cespi pungenti dei pini nani dalla bianca corteccia 

sono fumosi e indistinti al chiar di luna,

solo le ombre ne sono davvero visibili.

Il lago è fermo e senza un fremito trattiene

nelle sue profondità stelle e picchi. In superficie, 

geometrici riccioli di ghiaccio dispiegano la loro 

meravigliosa matematica in silenzio. Nella notte, 

per un istante, quando entrano nel raggio 

di luce del fuoco, gli occhi del cervo brillano. 

Al mattino la pista sarà simile a un tratturo

e le tracce punteranno tutte giù, verso il canyon più basso. 

«Perciò», dice Tyndall, «le preoccupazioni di questo piccolo posto 

sono modificate e modellate dall’inclinazione dell’asse terrestre, 

dalla catena di dipendenza che percorre il creato 

e lega la rotazione di un pianeta così come gli interessi 

d’uomini e marmotte». 


Traduzione di Francesco Dalessandro



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