venerdì 5 dicembre 2025
Beppe Salvia
mercoledì 3 dicembre 2025
Vito Riviello
QUALITÀ DI MORTE
lunedì 1 dicembre 2025
Alfredo Rienzi
LA QUESTIONE DEL NIBBIO
Resta incerta la questione del nibbio
quando immobile nell’aria governa le brezze che scorrono tra le piume
con ali distese che non mostrano né spasmo né dolore
e si fa simbolo: croce imperfetta ed anello dell’immanente morte.
Si dice che il rapace fermo in cielo
assuma posa come di spirito santo nelle icone pentecostali
sul capo del Cristo del Verrocchio mentre il Battista innesca il suo destino.
Il dilemma è proprio in questo offrirsi paradosso del predatore in veste
di bianca e santissima colomba o, all’inverso, nell’atteggiarsi
ardito, inebriato e forse commosso
della palomba (condannata a un volo battuto ed insistente,
miracolata per divina scelta e per un simbolismo di maniera),
nella suprema posa del falcone.
Ma spesso i ruoli cambiano
con le occasioni e tra vittima e preda si stringono alleanze insospettabili:
un vicendevole amore dilata l’ostia esigua del dare per avere:
io le ho viste bene, arvicole e lepri, squittire e porgersi in luce incidente,
chiamare l’angolo giusto alla vista del rapace, scegliersi il carnefice,
farsi dono esiziale,
nell’attimo estremo amarne l’artiglio
e, non trascurabile fattore per le creature di terra,
desiderarne il volo.
Da Custodi ed invasori, Mimesis-Hebenon, Milano, 2005
venerdì 28 novembre 2025
Alessandro Ricci
LA CONFESSIONE
Quando, apparentemente nato,
il bambino fu l’urlo
di un ramarro verde, il brutto
aspetto cianotico atterrì
la madre e sua madre, entrambe
nerovestite, nell’affannosa
casa.
Fra il giorno del dolore e quello
della delusione, l’unico suono, dopo
tanti strilli, consulti
e bisbigli, rimase il ticchettìo
d’un orologio napoleonico
sul camino odoroso, il ghiaccio
si sciolse nel bacile
e la morfina tedesca nelle vene
della puerpera, a poco a poco.
Poi furono notte fonda e alba
d’incubo, i rallegramenti
confusi dei parenti,
rondini volanti da nido
a nido.
*
Ho amato perdutamente, fermo
da mane a sera, come una frode
all’odio, l’acqua dei torrenti
e del fiume
che traversavano la mia terra.
*
Alcune piazze discrete, schive aie
dove rare persone o bestie
passavano il giorno dall’ombra
alla luce, secondando i desideri
della pelle, supponendo
di non morire: lì avrei voluto entrare
e mischiarmi, mano nella mano,
in una tenera stretta.
*
La pistola da guerra di papà,
nascosta nel vano antifurto,
ha la pallottola in canna.
Lui solo, della famiglia,
sapeva caricarla.
In un altro
buco segreto s’è scoperto
un involtino di carta,
dentro un revolver minuscolo e
cesellato, una scatoletta di proiettili
briosi come monete, aguzzi e lucidi
come chiodi. Da buon gioielliere,
nonno sapeva forare i lobi delle
ragazze, e amare il minimo dolore
della puntura, il minimo danno
estetico alle orecchie.
Perciò l’intenerì la Browning.
Se quella
fosse stata la decisione, aveva
temperato la punta alla morte.
*
Nonno aveva un completo bianco
e una bicicletta gialla quando
mi ci portava. Di mare
ne aveva visto tanto
e tutto lo raccontava. Io sedevo
sulla canna, felice delle donne
creole che l’avevano amato,
come una promessa.
*
Nonno è morto in manicomio,
io imparavo a memoria Ettore
e Andromaca, trenta versi
al giorno, centoventi nei quattro
d’agonia, così non l’ho neppure
salutato. La notizia me la portò
mio padre di nascosto: non piangeva e io
dovetti imitarlo. Mia madre preparò
una cena trionfale, e noi mangiammo
quasi tutto in silenzio,
nella fioca luce del risparmio.
*
O avrò molte cose da dire,
da dirmi bene, o dopo l’ultimo
verso non ci sarà scampo.
*
Gianni Casciano aveva una zazzera
bionda e allegra, occhi ridenti e
un avvenire in prova; a lui potevano
capitare questo e quello.
Io avevo un futuro segnato,
gli concedevo l’infrazione dell’amicizia,
i castelli di sabbia e le mani
al cielo dopo un goal fatto
in allenamento, perché nelle partite
ufficiali non toccavo palla.
*
Il dolore ti parla, ma non è
concesso riferirlo,
meno che mai alla persona
che te lo dà.
Per esempio, i Romani decisero
di bruciare i cadaveri
e disfarsene fuori le mura.
La cenere non rimprovera come
un corpo che si decompone,
non azzanna.
*
Forse per questo, quando finisce
un amore, vorremmo sostituire
il telefono, ardere i mobili
della stanza, cambiare casa.
*
Il dolore paga tre monete:
una di ferro, ed è il vuoto;
una d’argento, ed è la memoria,
atroce e cortese, della semplicità;
una d’oro, ed è il pensiero
della morte, bianco come Venere
al mattino, come il clamore
mancante che subissa
in una marina che non
si sa.
*
Ageminare significa damaschinare,
e damaschinare non so cosa
significhi. Anche Arabi felici,
Arabi commercianti, geometrici
come cubi, incisori di gemme,
testori di tappeti volanti,
asciutti Levantini,
hanno inventato parole.
In più,
hanno fatto figli, goduto cibi,
contato il guadagno, tenuto
donne, alzato veli, visto e
rivisto l’amore, la riconoscenza,
l’eterno desiderio che v’era
sotto.
*
Quasi sempre, parlando troppo di me,
ho letto nell’interlocutore
acri soddisfazioni.
Le persone
mancate – solo oggi è chiaro –
sono sbagliate per sempre, sono
simbolo, e un simbolo, se
stilisticamente coerente, va
conservato così
com’è.
Blok è La violetta notturna,
Munch Il grido, Esenin
Congedo.
Tutti appuntamenti mancati.
Chi parla di Catullo, Leopardi,
Pavese in termini esclusivi
di segno, lingua e composizione,
sappia che sarebbe arrivato
in ritardo quand’aspettavano vivi,
e che avrebbe accampato scuse,
vedendone i cadaveri sul luogo
del convegno: la calca sboccata
dal circo, difficoltà
pontificie alla dogana,
disservizi telefonici.
*
La potenza del moralismo
di Baudelaire: Igiene. Rimbaud
e la truffa del Negus sul prezzo
delle armi, che pure
sono destinate a uccidere:
la morte può finire estetica,
ma il tradimento,
che l’affretta, è
soltanto morale.
*
Le vie corte di maggio quando
la gente è rada e tu, all’ora
del pranzo, digiuni fedelmente
camminando sui selciati della
città bellissima
con poche speranze senza motivo.
*
Questa vecchia macchina
è nata rotta, ma ha
quarant’anni di garanzia.
Agli amici meccanici,
alla squadra di specialisti
che cerca di ripararla
in ore di straordinario,
grazie.
*
La nostalgia è una nave
di cui s’è perso il comando,
e poi è affondata.
Portandosi nel buio la linea
dello scafo, il valore
del carico, il libro
di bordo e le poesie
sul mare.
*
Sono un werther leggero.
*
Fra la tecnica e il rito,
sull’esile frontiera
che divide presente
e passato, l’esserci e
il venir meno, lei
da me, mi sono
perso.
Così il pesce risolve
l’incertezza fra cibo
e fame, e abbocca all’amo
per sempre.
Di questo almeno è certo
l’atto che ci risolve:
durare un’eternità,
agli estremi del merito
o della colpa.
*
Il rabbino infedele che
smette la Legge e le regole
del Talmud. Schiodato
il freno dell’usanza, fiutando
remotissimi odori, le emozioni
smisurano sulla via di fuga.
Conteso ai pensieri il numero
dei passi che l’allontanano
da chi lo dimentica, il viaggio
è senza fine, il deserto
è matto.
Il sole
finirà
in uno specchio, dove remanti
vele affondano per la distanza,
come fra dune le carovane.
Finché il tesoro profferto,
al termine della nostalgia,
testardamente giunge.
Lì moriranno o meno
le fantasie, quasi sull’alba
stelle, quasi sempre
l’avesse saputo
o gliel’avessero
detto.
Non abbatte il maiale
sulla riva, ma
ve l’ha condotto per gioco,
la prima volta entrambi
a conoscere il mare. Che
sulla costa mancassero altre
presenze, lo sapeva contandosi
gli anni nella fretta
di giungere.
Sono due corpi nudi, aliene
specie sulla sabbia splendente,
il vecchio peccato e lo sguardo
tollerante, illuminato,
fra crespe e rena.
Era così nell’acqua, non
per abluzione ma gioia, che
doveva conoscere l’inesistenza
del patto, la cruna d’una sapienza
ignota alle parole, ai sensi,
forse anche alla paura
d’essere lacunoso
o assente, così meno
di sé.
mercoledì 26 novembre 2025
Alessandro Ricci
MORTI PARALLELE
I colloqui di Elpinti
I
la giornata è bella, fatta
la primavera, lucido
il cavallo, non cigolanti
le ruote del carro, riparata
la strada, in fiore
le messi e qualche
ventre di fuoco offerto
per solidi o complimenti,
poi rosso,
rosso il miglior falerno
al buio tiepido
della notte e dei nostri
colloqui…
… o
forse perché
non siamo stati né ingiusti
né avari o temiamo
di diventarlo, e quindi perché
il mattino, il pomeriggio, la sera
sembrano devoti e noi
probabilmente
a noi stessi ed anche – c’è
chi lo dice – il mese,
l’anno, volendo
il decennio…
… forse per tutte
queste latitanti promesse o
che altro – la bellezza
del mare? –, perché dovremmo
temere ciò ch’è stato
deciso?
A queste
o a questa sola domanda
che ora ti faccio davanti,
anche se guardi i pesci
nella vasca e fingi
di non sentire, e che
in anni così lontani ti scrissi
e riscrissi sapendo
di non essere solo,
ancora una volta, Ammiano,
non rispondi,
non rispondi,
perché?
II
A lancinanti prore
sul dorso marino,
a palpabili mete
sotto
un’aperta tunica,
a boe terrestri nei trivi
o presso
il fuoco domestico,
a parole madide
o false che vogliano
udirsi,
alla stella affine
dei fati notturni,
alla pena
e all’odio vandalici,
ai mercati, al greto
sulle bell’acque:
a tutto;
l’uomo s’avvita a tutto,
povero Massimiano.
In tanta notte che s’avvicina,
poiché ammetti la paura
e la fine del suono,
per la tua boria infiammata
di solitario, accanto ed oltre
ed almeno
ti sopravviva e ti basti
un animale estremamente vivente
– serpe, falco
o cane argentati –, insieme
agli ondeggiamenti del grano.
Alcuni stanchi pensieri di Vetranione
nel
praetorium di Giuliano l’Apostata,
in una pausa del
consiglio di guerra, alla vigilia
della battaglia del 25 o 26 giugno del
363 d.C.
Questi preparano
vie di fuga: pensano
alle donne, ai figli,
ai cavalli.
Anche a me
dispiace lasciarli.
Ma,
chi lo sa perché,
io invece vado
dove Giuliano va,
nel mezzo della disfatta,
forse lui,
solo lui lo sa.
La corsa di Vetranione da qui
a là
I
scale, la discesa
è dovunque, il pozzo
non si restringe ma
s’allarga, il tempo
s’allontana, altro solco
d’evo in evo a rovescio, grandi
palazzi degli Angioini e la folla
dei commedianti che sparisce, icòne
bizantine, Ravenna sempre assediata, Cassiodoro
vecchissimo, l’alta Squillace fiera del suo golfo,
una nave nera pirata al largo che s’arena in un fitto
sempre più fitto di giunchi e là rimane con grida
sempre più deboli d’ignorato soccorso, un ponte immenso
dove non passa anima viva o morta, sotto solo faticosa-
mente canali tra canne quasi bruciate, foschi uccelli
quasi impazziti, poi l’unico, pieno deserto,
dove in una mischia feroce
l’imperatore Giuliano
morirà combattendo.
II
Fermarsi qui, in questo punto
e a quest’ora, l’una e l’altro
che una legge sussurrata appena, ben prima,
ben dopo il nostro scempio, sussurrata
da sempre, decide più severi ed esatti,
anch’io scudiero o semplice parassita,
sì d’un sogno minore ma non tradito,
mai manomesso, del tutto ignoto
o indifferente nella distratta
Antiochia dove domani,
alla notizia dell’ecatombe,
ci sarà certo chi festeggia
o fa finta di niente.
Giuliano
Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio, lisciate
dal levante che le invadeva, le issava
in un mare di chiaro:
là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
– saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi –, pensò alla consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la colpa
del destino che li attendeva, ma non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.
I cavalli del nemico
li aveva scartati tutti. Alcuni non gli parevano
sconosciuti. Al doppio segnale dell’ennesimo
attacco era sembrato inevitabile
scontrarsi un’altra volta
con loro, ma non era
successo. Di tre
o quattro
catafratti invece
ricordava chiara-
mente la furia e la destrezza nelle prime
fasi della battaglia, la velocità
delle fughe e i reiterati
assalti. E le ferite leggere
che gli avevano inferto: pochi graffi
quasi rimarginati, se non proprio
invisibili.
Uno dopo l’altro, li aveva osservati con attenzione.
La fila era stata lunga: di molte,
alte clessidre,
eppure erano le bestie
strappate ai vincitori.
Si chiese allora sgomento quanti cavalli del suo
esercito decimato fossero già nel campo persiano,
inadatto forse
a contenerli tutti, quanti nemici
li avrebbero ridomati, addolciti,
addestrati, infine caracollati
al decisivo assalto, al disastro,
al macello finale.
La filza degli animali catturati, ben più umani
dei pochi prigionieri così meno afflitti,
sembrava finita.
Nel vuoto dopo l’ultimo scalpiccìo,
apparvero nella pianura gialli e sfocati roghi
molto, molto lontani. E s’udirono,
ma non appena, strazi e lamenti:
dei piagati, dei moribondi e,
come un’eco,
dei morti.
Così tramontava quella giornata terribile.
Quanto male, misto a quel sordo
vuoto nel petto,
s’accaniva con l’impazienza.
Fu dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel
ritardo,
quando emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro
di chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,
e vide finalmente l’asta a due punte
che l’aveva trafitto:
il primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi
luttuoso. L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,
un gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,
in una presa insicura, la carogna d’un ratto
troppo grosso, ridotta a poltiglia
sanguinolenta.
Poi l’altro: un puledro aspro e impaziente,
avido ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,
a fatica, forse per caso, un bianco
cane tremante.
La sera
«Le fiaccole a rovescio, l’olio
che sfrigola e non cade
dal cielo della tenda, quante
fiammelle guizzano all’ingiù, là
su vedo molte calvizie di comandanti,
dei migliori veterani, qualche
semplice legionario intorno
al mio letto, la resa
così sofferta dei medici,
il bacile del salasso, mosche
ronzanti, il molosso a catena e
al margine del quadro il
pianto muto d’un’ancella che credevo
svogliata o ribelle e mi sbagliavo,
più al centro la pozza del sangue
che uno schiavo deterge.
Ma.
Ma
non trovo,
non trovo me che lo colo:
nella volta io
non sono dipinto,
manco.
“Svellere il giavellotto”,
amarne il cavo: quello
hanno detto e fatto gli amici
con morbidezza, di questo avverto
solo un brusio, quasi
suono – cembali da quale
dove? – da parte
a parte purissimo, piuma,
su e giù,
che accarezza i suoi spiragli
e che m’induce
da vita a morte
senza dolore.
Che c’è di vero in tutto questo?
Hanno issato uno specchio
enorme che mi esclude,
privo solo di me, per rispetto
di me? Forse
ho ben meritato
di loro, e temono ch’io guardi
il mio corpo trafitto?
Ma no, sento che l’hanno coperto
di soffice lana, sono
semplicemente cieco, e se le pupille
sbiadiscono in albume, come si dice
che accada, il cuore crescendo
le sostituisce, fonde
memoria e invenzione, tutti
i granelli della clessidra,
dipinge gli aspetti
di uomini e cose, liscia
i contorni, quasi
li tocca.
Più lui,
più lui di me dunque v’invita
a calici ricolmi, a festa piena,
alla mia smania, alla mia idea
di gioco.
Non vi riesce questa ch’è,
o non è, così ennesima
una finzione, un mero atto?
Lo so, siete ancora
troppo viventi, non potete
seguirmi, grazie
lo stesso. Ma se
restate, come
mi sembra, a somma distanza
dall’allegria, mummie
tristi, impalati
tormenti, vi
chiedo d’uscire di qui. A rivedere
il giorno, l’aria,
i cavalli».
Come al solito il suo
non fu un ordine perentorio. Cipressi
di rito o di sepolcro, loriche
impolverate, spade
scheggiate nei foderi, rudi
sgomenti, rimasero tutti.
Parve a Giuliano invece
d’essere completa-
mente solo,
con quei brani di sé, stati
o mancanti,
che una nostalgia sorridente,
sottilissima e quieta,
non gli volle tacere.
E in quella buia
e lampeggiante tenda
a Giuliano rivenne il bianco
cavallo addormentato nell’horto, fra
il suo risveglio di ragazzo un tempo
e la vista all’alba
del Ponto, trasparenza fra
trasparenze, un addio
dopo l’altro come l’ultimo scettico,
sfiorato sguardo
dei molti amici poco prima
della battaglia. I giusti amori:
i cani Mario e Duilio,
soffici negli occhi più che
nel pelo, due
giovani donne che non
l’avevano amato, volate
di volo azzurro ogni volta che le
guardava: suoni delirati, un non
esserci mai per loro. E rare
folate d’incontinenza
negli inguini delle matrone, e l’onta,
e i sudori; ma
in quelle mischie d’impudicizia, azzanni
viperini, l’altra,
altissima quota delle lontane, accecanti
ali per sempre: che implacabile
sua devozione, così sparsa,
così persa.
E allora la conoscenza
e il dolore. O all’inverso la sofferenza
e il capire, e l’arrendersi, e il non
odiare. Così, imperatore deriso,
ripensò agli inganni evaporati
ai quattro capi
del mondo e alle speranze
terribili: distratti, stordite
dalla stanchezza
e dal fuoco, alle partenze,
agli arrivi d’esagerati
tragitti, senza una pazienza
o un riposo, in mezzo
a caterve d’uomini privo
d’una carezza, una parola,
una vigilanza, una cura. Ma
la foresta fu sua,
o il mare.
Suoi?
suoi come?
suoi quanto? suoi quando?
Gocce pari d’acqua oleosa.
E tutto gli cominciò intorno
a girare insieme: testa, corpo,
mondo… Che intorno
a che? Non come i molti,
folli galilei, lui
non l’avrebbe
saputo mai.
All’alba del mattino dopo – 26 o 27 giugno del 363 d.C. –, Ammiano All’alba del mattino dopo ― 26 o 27 giugno
del 363 d.C. ― Ammiano Marcellino, che aveva assistito alla morte del suo
imperatore (e che avrebbe descritta nelle sue Storie), mentre osservava l’opera paziente dei medici imbalsamatori (il
cadavere avrebbe dovuto vincere calura e distanza per essere inumato a Tarso,
in Cilicia) e cercava di ricordare le volte in cui Giuliano gli aveva detto di
sentirsi morire, quando citava sorridendo un’epigrafe funeraria sull’Appia o
chissà dove: «Sono morto mille volte, ma così mai», ne sentì la voce bussargli
piano alle tempie, mentre fuori uccelli partivano e soldati arrivavano nei
pressi della tenda a deporvi un’impronta o una lacrima, subito riarsa in quella
sabbia desertica:
Mehr Licht… Perché la
luce s’irradia
oltre l’ostacolo? Lo
fa anche il pensiero?
l’amore? l’anima?...
Io non devo
alcun pollo ad
Asclepio: devo
me, nessuno oltre
me… Je vois un port rempli de voiles et
de mâts… Non viverti,
non
t’esaltare: consider Phlebas, who
was once handsome and tall
as you: fa’ scivolare
questi
tuoi versi estremi
nel cavo della
ferita.
Poi muorine,
a loro insieme.
Per tutto il giorno, camminando piano nel campo sotto un sole
stranamente velato, mentre gli ufficiali del genio davano ordini quasi
sussurrati ai soldati che smontavano le tende, Ammiano sentì ripetersi quelle
parole, fino a impararle a memoria. Vi riconobbe Platone, ma non chi parlava in
quella, o quelle lingue strane.