venerdì 26 dicembre 2025

Marco Vitale

 TRE POESIE



*

Fuori piove di nuovo il foglio è bianco
il sonno un tenue filamento
che torni ad ascoltare. Ancora
accesa è la lampada, riposi
un poco gli occhi e un poco
domandi con parole che sembrano

polveri nel velario dell'acqua


*

Non avevo mai visto così solo
un angelo sorreggere una rosa
di luce come un curvo
Atlante il peso e i sogni della Terra
Non vedevo il suo coro
– ma le ali il vento di lassù le aveva
ora consunte – tendere
ai lati quel bel disco
che la pazienza di una gente
anonima scolpì perché restasse
come stasera, così chiaro, in alto

sul pianto della pietra e il silenzio cristiano



*

                                                         a mio padre

Fu l’estate di Eusebio e Bobby Charlton
del grande Yascin di quel goal fantasma
sul bel prato di Wembley
I nostri solo furono umiliati
dalla beffa inattesa di un dentista
lo raccontavano alla radio e tu
per noi ma consolandoci
con quel profumo di bel gioco e d’Inghilterra

Sarà per questo che s’impiglia ancora
nella rètina il dono dei colori
delle maglie e lo schema
coi nomi delle squadre
da te ripreso con impegno
in una sera dopo il mare

Le quattro finaliste come poi mi parvero
per sempre le più forti del mondo

da Canone semplice, Jaca Book, 2007

lunedì 22 dicembre 2025

Alberto Toni

 L'UMANO AL SUO APPARIRE...


                                        a Giovanna Sicari


L'umano al suo apparire sopra l'ala della giovinezza.

Mostra i denti nel sorriso, per un po' alza la voce,

come una cena degli anni '70. Poi la tensione cala,

riprendiamo. Allora, solo allora vengo a te nel pensiero,

non tremavamo all'ombra dell'idea, del destino veloce,

della sfida ogni giorno e della passione. Tu lo sapevi?

Ci coglieva all'improvviso il silenzio delle parole,

la giusta dimensione, e nuova anche nell'impegno.

E un mondo grande, sempre più grande, le copertine

di tutti i libri.


da Tempo d'opera, Il ramo e la foglia edizioni, 2022

venerdì 19 dicembre 2025

Alberto Toni

 PARTENZA


a mia madre

I.

Unico quel soggetto ritto sul tavolo
di lavoro fitto di promesse e suoni
magici. Sulla storia di questi
inautentici giorni e sul limite
invalicabile traccio le linee del futuro.
Vuoti e arabeschi, celie sul biondo
timido; si fa coraggio all’alba
documento in anticipo e già s’inceppa.
Ma il canto di città per poco
avvolge l’inverno di grande forza
e coraggio; con primi scritti
alle spalle disegnati da lunghi
sguardi, folla nelle chiome degli alberi.
Anni raccolti dai miei occhi, grida
d’epoca, riflessi come giostre chiassose.

II.

È quando prende il volo ogni regola
e si alza un impetuoso vento.
Sembra il pianeta prosciugarsi,
ma è l’avvio che consuma o spaventa.
Quello dell’ora morta è un corpo
sconfitto che ho chiuso nel silenzio
con un atto di forza.
Sulla strada è proibito voltarsi
indietro per sorridere ai saluti
del paese lontano. Un freddo intenso
lo avvolge e lo distrugge.
Ci siamo persi nel bosco e a un richiamo
di notte siamo usciti, sembra quasi
di rompere la vita o di tagliare
all’estrema latitudine un uso
vecchio di abitudini. E un salto
in avanti rincuora tra tanti resti:
spinta dal basso nel ciclo dei ritorni.





mercoledì 17 dicembre 2025

Gino Scartaghiande

 IL NOME


I

Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.

Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.

Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d'acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.

L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.

Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l'esistenza.

So di certo chi sei, chi sono. L’asfalto
grigio della strada. Il tuo sangue sull’
asfalto penetratomi sin d’allora. E so
che altre strade dovrò ancora assorbire,
altro vetro frantumare, prima di poter
pronunciare il tuo nome, che sarà anche mio
e infine nostro. Ti chiamerò Rosa Luxemburg.
Mi darai il nome.
Ti chiamerò mentre ti uccideranno. Sarà
come ricevere una tua lettera d'amore.
Dovrò meritarla. Ora ancora no.

I gradini scorrono lontano, fuggono come
tastiere di pianoforte, fuggono in tutte le
direzioni. Non so se muovermi coi piedi o se
affidarmi all’ascolto. Ma devo assolutamente
trovare il punto ove tutti i gradini e
tutte le voci confluiscono. Un foglio
trasportato dal vento, un grido d’aiuto
basterà?

Ora. Sono pronto a barattare ogni cosa
per questo incontro. E vedo talmente bene
il nero che cola sui gradini. Anche dagli
occhi, anche gli occhi che vedono colano
nero, come assassini che complottano,
che attentano.

Sono pronto. Ma non ancora in stato di
grazia. Cara Rosa, oggi è stata una
giornata piovosa, ma stasera il cielo

era sgombro e c’erano le stelle.
Sento di svegliarmi, non so ancora 
dove. Con ostinata certezza percorro
tutte le ferrovie della terra.

Morire è un lusso che non possiamo permettere
né alla fantasia né alla pratica quotidiana.
E soprattutto a quest’ora di notte, nella strada
così nera e deserta, col silenzio gravido
che vorrebbe scoppiare in fragorosa giornata
d’estate, con bagnanti al mare e bambini
che giocano, mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini neri
coinvolti nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza:
il mare d'acqua azzurra non esiste.

Il ritardo assunse toni fatali. Erano
esattamente 5 giorni d’assoluto silenzio.
Muti io e lei. Neri e muti. Da 5 giorni
seduti al tavolino del bar, bevendo un caffè
che non finiva mai. 5 giorni oscuri come 10
notti. Vestiti di una pesante e appiccicosa
calzamaglia nera, sentimmo il turbamento
di una rondine su di un umido filo di
telegrafo, prima di partire, in autunno,
giornata piovosa, quasi sera. E un’altra
rondine sul filo opposto.

Se ora ricominciassi dagli occhi. Permettetemi
di dirvi questo: grappoli di pipistrelli
maturavano assiepati sui miei occhi,
poi gonfiavano sonnolenti e scorrevano
giù a formare pozzanghere.

Erano già 5 giorni. Le pozzanghere
aspiravano a diventare mare. Rosa divaricò le
cosce e pisciò per molto tempo. Si sa che
il pianto è cosa diversa. Ma io non ho mai
più visto nessuno pisciare tanto e così bene
e per così lungo tempo. E permettetemi di
dire anche questo: l’amore che ho per Rosa
non è diverso da quello che ho per i poeti.

5 giorni equivalenti a cinquemila anni
d’attesa proiettata nel passato. Berlino
aveva la presunzione della cosa aspettata
e venuta, la superbia di un avvento cristiano,
come un orologio che puntualmente scandisca
secondi e minuti. Ma Berlino con le sue case
da manicomio aveva anche l’impaccio dell’evento
verificatosi senza la precedente attesa. Nascita
non desiderata, Berlino aspettava ancora d’essere
stata attesa; la presunzione che aveva, i campi
di concentramento e le questioni razziali
con cui si imbellettava erano solo momentanee
distrazioni dal pensiero di non essere stata
necessaria, un po’ come le altre città
sparse per il globo.

ho anch’io come Berlino l’impaccio
dell’evento verificatosi gratuitamente
e da circa un miliardo d’anni
aspetto d’essere stato atteso

Le strade enormemente deserte. Il bar deserto.
Tranne noi due e il tavolino e le nostre due
sedie e due tazze di caffè. Gli assassini
avevano nell’aria presente la loro realtà
di fantasmi, ma non era un incubo. era una
tranquilla gravità oscura. Per le strade
dilagavano pozzanghere di pipistrelli
suicidi e fiotti d’orina.

In quel momento Rosa fu ferita da uno
degli assassini. Non smise di pisciare,
ma io ebbi paura che morisse prima di
potermi parlare. L’assassino le si avvicinò,
era una comune faccia intravista al supermarket,
le diede una scossa leggera, lei cadde.

È triste starsene seduto ad un bar con
la sensazione che la nostra persona
non colmi nessun vuoto dell’attesa cosmica.
Per questo sappiamo che tutte le nostre sciagure
si collocano nel passato e che il futuro
non potrà portarci che dei miglioramenti.
Sappiamo benissimo però che tutto ciò
è anche falso.

La vidi mentre cadeva, mentre l’assassino
cercava di tamponarle la vulva che continuava
ad emettere fiotti d’orina nera. Poi vidi l’
assassino rinunciare. Lei capovolta con le
cosce divaricate, le braccia rilasciate.
La sedia vuota. Lei che andava e veniva
sull’onda morta dei pipistrelli impoltigliati
d’orina. La sedia vuota. Il caffè e la tazza
navigavano già lontano in una traversa
sinistra della strada principale. Il cucchiaino
restato nel piattino, sul tavolo. Mi sentii
nudo, senza neppure l’involucro di pelle,
sentii l'aria tagliarmi i muscoli e vidi
il sangue nero gocciolarmi dappertutto. E
pensai a qualcosa d’azzurro.

Divenni estremamente debole.
Feci in tempo a posare il mio caffè sul tavolo,
cadendo vomitai briciole di vetro sul piede
sinistro di Rosa. Temetti di morire prima di
poter ascoltare ciò che lei aveva da dirmi.
I miei occhi, strano a dirlo, piansero ancora
di più, m’aggrappai disperatamente ai piedi
di Rosa, le strade erano completamente allagate,
i nostri corpi venivano trasportati lontano,
ricordo che prima di svoltare a sinistra
vidi una luce accendersi all’interno del bar.

Una volta, alcuni anni prima, a Mantova e
a Verona, in due bar deserti successe la
medesima cosa che a Berlino. Impressionante
l’identità degli assassini e delle loro
azioni. Oscura è restata l’identità delle
vittime.

Saremmo affogati? Affogati nei neri prodotti
della nostra decomposizione? O era un modo
diverso di resurrezione, una maniera di dire
- NO! - agli assassini?

Dal suo interno Rosa si svuotava sempre più,
fegato ed ossa marce prorompevano fuori dalla
vagina. All’esterno la pelle restava meravigliosamente
tesa e delicata. Io aggrappato alla pelle del suo
piede sinistro avevo terminato la consunzione d’
ogni mia fibra. Di me restavano pochi milligrammi
di polvere di calcio fosforoso sull’alluce
sinistro di Rosa, il resto completamente
sminuzzato fino all’atomo andava girovagando
in quella strana marea di notte berlinese
insieme agli atomi di lei, poiché anche di
Rosa non era restato che un millimetro di
pelle sull’alluce sinistro dove io poggiavo
il mio ultimo milligrammo di fosforo.
Era un modo altrettanto bello d’amarsi.
Non il cazzo che viene a porre la sua
prepotente eiaculazione in una delle quattro
cavità del cuore, e nemmeno un braccio che
rovistasse l’utero con la mano pronta a
ghermire ovaie.
Insomma io e Rosa non avemmo bisogno
di fedi nuziali e nemmeno di vivere
nella stessa metà di secolo, non avemmo
bisogno di questi trucchi per amarci.

Saremmo affogati? Berlino, Mantova e Verona
coi loro supermarket pieni d’assassini
in miniatura ci avrebbero soffocati,
avrebbero posto fine alle rivoluzioni,
esigevano altre catarsi d'angeli?

Una sera d’estate Rosa mi fece capire
che sarebbe stato utile e bello parlare
con un geranio perché si perde la maggior
parte del tempo a parlare con fiori stupidi.

Ah! il piccolo grumo di calcio fosforoso
si dissocia e il millimetro di pelle
si disintegra allontanandosi e grido che
non voglio essere lasciato

Ah! i nostri miliardi d’atomi vaganti dentro
oscure galassie, i nostri miliardi d’atomi
solitari non s’incontreranno mai, le
probabilità sono alquanto esigue, mia
Rosa, mio amore, non potrò mai bere
un caffè con te

Ah! il nero, il nero, il nero. Ho perduto
le mani e il viso. Ho perduto tutto
il mio corpo

Ah! più niente. Solo il nero.

Non ascolteremo amici, non ascolteremo,
sappiate che le nostre due orecchie
se ne sono per sempre andate. Io
non sto dicendovi niente e non vi
vedo, come voi non potete vedermi.
Qualche volta viaggiando all’interno del
nero ho creduto di sfiorare i vostri
cuori, ho creduto di poter raggiungere
con essi la compenetrazione illuminante.
I vostri cuori mi sorrisero come dei
ciechi, se mi avessero visto avrebbero
capito che io portavo solo notte.

Due miliardi d’anni fa la nostra elettricità
viaggiava altrettanto sorda e muta della
carne di cui oggi s’è svestita.

Non potremo uscire, non potremo
entrare; il verbo essere è tutto
un maledetto imbroglio.

Allora?

Questo è il rifiuto della necessità di
dover capire, è il rifiuto della eternizzazione,
il rifiuto del sentire, il rifiuto della carne
viva e della carne morta. Per il resto
non credo assolutamente. Non
accetto nessun discorso che non parta da
un a priori assoluto. I rattoppamenti non
mi piacciono. E poi a questo punto il piacere
non è altro che un letamaio dove ronzano
mosche. Ed io mi sento una mosca dal ventre
nero e puzzolente. Ho fatto tilt.


Da Oggetto e circostanza (Poesie 1974-1999)