venerdì 5 dicembre 2025

Beppe Salvia

 

IL PORTATORE DI FUOCO


nudo smagrito le ossa forti
corre gli altipiani e si nasconde

tra fronde, dove scintilla quel lume,
e le foglie ne primeggiano l’ombra;

inseguito assomiglia l’inseguitore a
nulla, notte non offre specchio,

il suo volto, da nulla apparso, là
dove biforcano a sella i rami
d’una sacra querce, è sottile

e non ha occhi come stelle
bocca che meravigli un sorriso,

e spavento e meraviglia
al fulmine che breccia le stelle –

l’ampio gesto che atteggia lontano
il braccio a ricevere l’ampio
lontano frastuono di nebbie
su chiarità d’acque, nelle acque

quel gesto non specchia
altrimenti che schegge scagliate

da dita che han l’unghie
lambite dal filo d’un chiaro lucore;

sull’acqua chetata a disappunto
le bianche spille del fuoco

rapiscono un crepito, ramifica
il loro disegno sottili cristalli,

le valli s’accolgono al varco
d’un lago, le cime spezzate
dei monti d’intorno, alle rive
circolari accrescono creste

poi cespi rovéti e l’intera
foresta –



avvertono i passi, e il profumo
di siepe avvicina quel fiato,
una cagna e i miti ospiti
dei nidi, trema il manto
della gazzella, lascia cadere uno spigo;

non corre il portatore di fuoco
s’è riconosciuto in quel luogo

e riposa il dolore ove nasconderlo
è stolto;

nel vuoto più sotto una rupe
s’apre la chiara lontananza
del mare, e su quelle altre rive
gli abitanti –

abitarono dove non s’accorse
divieto, il più gramo, o fu povero
d’offese il vento lavico, e abitarono
propria riconoscenza dove poi
abiterà l'inganno, abiteranno

il borgo amico e abiteranno
il borgo pavido, come abitarono
il crinale di schisti ove nascondersi,

abiteranno un tempo là
dove abitarono non visti,
non visti e infine fatti arguti
menzogneri d’un limite

malinconici gli abitanti –



l’alba respira, ammirando, le nebbie
s’animano, adesso corre
lasciando l’orma brillare
il portatore di fuoco, solitario

animale, animano le sue peste
mille abbagli, iscrizioni egli
incontra sulle vie, nei sentieri
le sue orme una brina, scintille
di ghiaccio, sfavilla –
adesso la preda ha preso vigore

attraverso deserti pochi fiori
piccole corolle rosa dell’erica
sono le faville, il portatore
di fuoco demone alato erede
d’ogni dono, regnante ignoto
s’è fermato;

ascolta nelle mani lo strepito
le prime parole avvezze
al cieco dimorare,

                             e sulla terta gocciano
                             da quelle mani i petali
                             raccolti, le rosee scintille,

                             e quella terra ha nuova
                             tetra vitalità,

                             dimenticato è il fuoco –



sotto una roccia a tetto, e fuori
è nuvolo, lampeggia, un fuoco,

un nido raccolto splende,

il soffio che entra nel coperto
spuma le faville, un vortice

le brilla contro l’urlo aperto,
il dispiegato paese di bufera –


(1980)

da Poesia verso..., a cura di Luigi Amendola e Francesco Dalessandro, CCRS BNL – Sezione Culturale «Arti e Scienze», 1982

mercoledì 3 dicembre 2025

Vito Riviello

 QUALITÀ DI MORTE


Ci scappa il morto!
Ci sta scappando
il morto ci è scappato.
È fuggito in una morte seria
                      d’occhi compiti
e vasi etruschi
fuggendo dalla morte nemica
di bossoli nutrita.
Morti perfettamente uguali
           pur nelle distinzioni
                                             ipocrite
dell’orride devastazioni.
Come faranno le religioni
a riconoscere gli accoliti.
Solo chi li vede non li distingue
in cadaveri rossi o azzurri.
Da un morto all’altro stiamo fuggendo
sotto il manto delle stelle.
Se dal torbido sogno
           mi svegliassi antilope
apprenderei la virtù dei forti.

Da Assurdo e familiare, Piero Manni, 1997

lunedì 1 dicembre 2025

Alfredo Rienzi

 LA QUESTIONE DEL NIBBIO


Resta incerta la questione del nibbio
quando immobile nell’aria governa le brezze che scorrono tra le piume
con ali distese che non mostrano né spasmo né dolore
e si fa simbolo: croce imperfetta ed anello dell’immanente morte.

Si dice che il rapace fermo in cielo
assuma  posa come di  spirito santo nelle icone pentecostali
sul capo del Cristo del Verrocchio mentre il Battista innesca il suo destino.
 
Il dilemma è proprio in questo offrirsi  paradosso del predatore in veste
di bianca e santissima colomba o, all’inverso, nell’atteggiarsi
ardito, inebriato e forse commosso
della palomba  (condannata a un volo battuto ed insistente,
miracolata per divina scelta e per un simbolismo di maniera),
nella suprema posa del falcone.

Ma spesso i ruoli cambiano
con le occasioni e tra vittima e preda si stringono alleanze insospettabili:
un vicendevole amore dilata l’ostia esigua del dare per avere:
io le ho viste bene, arvicole e lepri, squittire e porgersi in luce incidente,
chiamare l’angolo giusto alla vista del rapace, scegliersi il carnefice,
farsi dono esiziale,
nell’attimo estremo amarne l’artiglio
e, non trascurabile fattore per le creature di terra,
desiderarne il volo.

Da Custodi ed invasori, Mimesis-Hebenon, Milano, 2005