TRE POESIE
LE FOGLIE
Chissà perché le foglie si sono agitate, le madri
celesti della terra. Io che non acciglio loro
ancora e non ricordo cosa siano né perché si lasciano
recidere. Il vento ha brevi attacchi come un malato,
elimina la forma fragile della bocca devastata.
Bisogna che io parli loro come a immutabili santità
misere sorelle fiatevoli del perdòno.
Si sono racchiuse nelle mani in un pugno morente.
Tutta l’eternità è vuota davanti a loro.
Hanno gremito le strade quando è triste
il soggiorno e imputridiscono deferite alla marcezza.
Le calpestiamo ai bordi delle pietre, sfinite
e inutili come nella visione che travolge ogni senso
e attaccate alle suole vibrano di tremiti.
Io sono come una di queste, mi frastorna
la pungente ira della ghiaia sotto cui sono quando
scicchiola il passo malinconico che rincasa stordito
e scorge la luce della scala monotona e sorda,
e io sono con l’anima di ciascuno devastante tristezza.
CITTÀ ADDORMENTATA
Avevo precisato, nell’andarmene in città,
io che vivo quasi alla periferia, tramite il fresco
che proviene dal fiume che è una sottospecie
in cui errano più cose insolite che chiarezza,
che non avrei più avuto il suo vuoto riflesso.
La routine di sempre, in fronte, come un letale
numero abbrunente il viso segnato dalla stanchezza
avrebbero disperso anche l’eco dell’acqua,
la metàfora della sua luce fredda, come un antico
salvacondotto, per estrarsi dal flusso.
Pure mi rammento di tante cose. Una siepe operaia
aveva invaso le strade e le finestre stregate chiudevano
alla presenza delle ossa nella città i loro occhi,
qualche luce gradita serbava le sue fiamme, tinte
di rosso, che il vento del fiume serpeggiando portava.
Ora il mio viso si sposa a rimasticare rovine.
So di trovare un bordo ed è come un appello del sangue.
So di pensare a tante cose nell’inverno che rinviene
quando la calce crolla dal muro ed è sotto
il gelo la spoglia primavera di sempre che grida.
Avevo precisato, nell’andarmene in città,
io che vivo quasi alla periferia, tramite il fresco
che proviene dal fiume che è una sottospecie
in cui errano più cose insolite che chiarezza,
che non avrei più avuto il suo vuoto riflesso.
La routine di sempre, in fronte, come un letale
numero abbrunente il viso segnato dalla stanchezza
avrebbero disperso anche l’eco dell’acqua,
la metàfora della sua luce fredda, come un antico
salvacondotto, per estrarsi dal flusso.
Pure mi rammento di tante cose. Una siepe operaia
aveva invaso le strade e le finestre stregate chiudevano
alla presenza delle ossa nella città i loro occhi,
qualche luce gradita serbava le sue fiamme, tinte
di rosso, che il vento del fiume serpeggiando portava.
Ora il mio viso si sposa a rimasticare rovine.
So di trovare un bordo ed è come un appello del sangue.
So di pensare a tante cose nell’inverno che rinviene
quando la calce crolla dal muro ed è sotto
il gelo la spoglia primavera di sempre che grida.
TANTO FUOCO
Verifico il mare nell’attimo che pare s’insinui
nei miei occhi.
Il giorno che tanto sole ha bevuto tanto fuoco
nella calma estenuata
dei gabbiani
oltre lo sconosciuto fumo dei piroscafi.
Verifico la torre d’ombra
che verrà dalla notte, sulle mani
bagnate di sabbia come foglie tremanti.
Paura dell’oltretomba? Della grata
laconica dalle fiamme morenti?
Nessun commento:
Posta un commento