lunedì 26 novembre 2012

Kenneth Rexroth


UNA PERLA VIVA                                                          

A sedici anni venni all’ovest, 
sui merci della Chicago, Milwaukee 
e St. Paul, la grande linea 
del Nord, la Northern Pacific. 
Lavoravo come aiuto di un tale
che radunava enormi branchi
di cavalli selvaggi nell’Okanogan 
e nell’Horse Heaven. Sceglievamo
le bestie migliori del branco, 
tutto il resto era cibo per polli 
e cani. Portammo trenta capi 
sul Methow e il Twisp, attraverso 
le sorgenti del lago Chelan, 
giù per lo Skagit fino alla regione 
di Puget Sound. Mi occupavo 
della cucina e dei lavori del campo. 
In un paio di settimane imparai 
per bene a manovrare le bestie.
Riuscivamo a domare ogni giorno 
un nuovo cavallo. Il giorno dopo 
gli mettevamo il basto. Nel tempo 
che giungevamo a Marblemount 
li avevamo addestrati per bene.
I coglioni che li compravano
li credevano indomiti mustang
del deserto. In poche settimane
li mettevano tranquilli a tirare 
i carri del latte a Sedro-Wooley.
Facevamo tre viaggi a stagione
e ce la passavamo abbastanza bene 
nonostante la depressione post-bellica.
Stanotte,
trent’anni dopo, esco dalla 
capanna abbandonata dai 
minatori di Mono Pass, sotto
la luna piena e poche grandi stelle.
I declivi sono pezzati di neve.
L’aria di mezzanotte è pervasa
dalla luce lunare. Dice Dante:
Parev’a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
In questo posto, quindici anni fa,
scrissi Verso una filosofia 
organica. È ancora tutto uguale,
e è minima la differenza 
da quel primo passo montano 
che attraversai in quei tempi
tanto lontani con pezzati, zebrati, 
roani scuri e color daino, 
appaloosa maculati, i robusti 
pony selvaggi i cui progenitori 
arrivarono con Coronado. 
Non ci sono campane di cavalli, 
stasera, solo il verso delle rane 
nei prati fradici di neve, il latrato 
stridulo e isolato della volpe 
di montagna, fra le rocce alte
dove le pecore selvatiche si muovono 
in silenzio nella luce cristallina 
della luna. Gli stessi sentimenti
che tornano. Di nuovo 
tutta la meraviglia di un ragazzo 
delle praterie, là dove 
le lanterne si muovono in un buio 
rassicurante, lungo un recinto,
in un campo, a casa; tutta l’emozione
della gioventù improvvisamente
arrivata dalle strade piane 
e geometriche di Chicago nelle 
sterminate e disumane distese 
del Far West, dove la mente ritrova
le forme cercate da Pitagora, 
le relazioni organiche tra pietra, 
nube e fiore, tra il movimento 
del pianeta e l’acqua che cade. 
Marthe e Mary dormono nei sacchi 
a pelo, bozzoli di reciproco amore. 
Ho trascorso all’ovest metà della vita, 
e molta di essa per terra vicino
ai fuochi solitari sotto le stelle 
estive e nei capanni, con la neve 
che s’ammassava tra i pini e sul tetto. 
Qui non farò più il campo come spesso 
facevo prima. I miei trent’anni  
non tornerano più. «Il nostro bivacco 
muore tra le montagne solitarie. 
La luce trasparente della luna 
si stende per migliaia di miglia. 
La purezza della pace non ha fine». 
Gli intensi occhi azzurri di mia figlia 
dormono all’ombra della luna. 
La prossima settimana fa un anno.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

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