mercoledì 1 gennaio 2014

Francesco Dalessandro

CAPODANNO, 1984

                                       a Sandro, da una stanza vuota


Molto in ritardo sull’anno, sul vento.
Così giunse il dolore, alle tre.

Ancora intronavano l’aria
gli scoppi i colpi secchi 
dei mortaretti
e sfioccavano vampe 
versicolori sopra la magnolia 
e sull’abete che la tramontana 
spiumava d’aghi; 
                                  stormiva 
l’aiuola intera e con 
suono più grave la 
memoria. 
                   Io temevo 
per l’ortensia e i rametti 
dei gerani, le gemme 
amicali 
trapiantate da poco. 
                                  
                                        Nel cortile 
ventoso in quella notte 
di freddo in quel principio 
d’anno qualcuno si 
amava, due, al riparo 
delle macchine in sosta, due creature 
in amore.
                  «La femmina – è la gatta
sempre paurosa – è lei 
che spinge e si contrae 
così ardente così 
rapida contro il ventre 
del maschio, il gatto fulvo 
che si tende e la tiene 
che la preme, sì è lei 
che si lagna...».  
                            
Mi abitava in quell’ora 
un’ansia stizzosa 
e petulante che un bicchiere o 
due di troppo del rosso 
di Pavona m’avevano 
accresciuto; in più adesso 
un oscuro desiderio, mediamente 
perfetto tra rimpianto e 
rancore, mi si svelava.  
                                           Appeso 
con lo sguardo a una finestra, 
da un amore che era morto
o da uno
che rinasceva avrei 
voluto evadere.

                              Fu allora
che formulai non so
come nato il pensiero:
                                         «Ho la forma 
della mia vita
anch’io, come le anguille
di Lowry». 
                     Poi, vedendo
lo storto ritratto che di me si 
rifletteva sul vetro:
                                    «Vivo curvo
in me stesso. Non guardo
mai dove la realtà 
per difetto di rima 
si deforma. Mi guardo
la punta delle scarpe. 
                                        Vivo curvo
e miope. 
                Ma ogni cosa
è la forma che ha».
                               
Il cancello fischiò, si ri-
chiuse sbattendo. 
                                 Una coppia 
rientrava. 
                   Ebbi pudore di 
farmi vedere sporto 
alla finestra illuminata. 
                                           Mi 
tenni dietro la tenda, attesi che 
girassero l’angolo. 
                                  Calava
poco a poco anche il vento. 
La magnolia e l’abete –  
due sentinelle, due
ombre in attesa del-
l’alba (la prima del-
l’anno nuovo, oramai 
vicina), intirizzite –  
montavano la guardia.

Un’acqua sottile 
prese a cadere e dopo 
un po’ la festa parve 
a tutti finita.

                         Io pensavo 
a Lowry, non so bene 
perché, in quell’inizio 
d’anno, in quella nottata 
così perfetta per
gelo, per sofferenza
e volontà d’amore;
pensavo a te – 
                            e tra i vivi 
ai meno vivi – 
                            a noi, a chi ha virato 
i quaranta o vi è 
prossimo.

                   «A quarant’anni 
si è detto tutto? Si è 
fatto…» 
               – Niente.

A te, perché fratello
e poeta, così confusamente
dicevo:
            
              «Ecco la stanza  
vuota. Da qui parliamo 
ai morti. Ha ragione 
Caproni. E io se guardo 
non vedo che 
sedie vuote e vuote 
parole ascolto:
                           dunque 
se non ai morti al-
meno agli assenti, fossero 
solo persi di vista 
o addormentati nel-
l’altra stanza e di tutto 
che accade ignari, o 
lontani, oltre le balze del 
Pineto immerso nel 
buio, ma chissà dove, o 
via da questa 
città che finalmente 
a ridosso dell’alba 
trova pace».
                    
                         Cessata
l’acquerùgiola e morto
col tre coi botti di san
Silvestro anche l’errore,
la calma era adesso un perfetto 
ancoraggio.
       
                      «Ma fosse 
destinato anche solo 
a chi mi ama vorrei 
scrivere solo un piccolo
e perfetto poema
sulla felicità, su due martin
pescatori – 
                     ma Lowry
era infelice più di me,
meno di me legato
alla gabbia – 
                        vorrei 
anch’io, come Vigil Forget,
essere ben disposto
verso il presente e amarlo, 
ma non posso».
      
Non un suono muoveva 
l’aria. A un passo, il mattino 
d’una guasta domenica di freddo 
saliva: avrebbe sostato
in un osanna di parole, si 
sarebbe disperso tra corimbi
e grappoli di neri
cirri, molto più tardi
sarebbe ridisceso
pigramente
a smemorarsi. 



Contrariamente all'abitudine, alla poesia segue una notizia. Chi non ha pazienza, può non leggerla: nulla perderà. Chi lo facesse e volesse commentarne le considerazioni, o commentare la poesia (specialmente i nostri 59 lettori più fedeli), farebbe cosa grata all'autore, che certo ne trarrebbe spunti di riflessione. 



Notizia

   Scrissi questa poesia trent’anni fa, durante i primi mesi del 1984; con molta lentezza, mi sembra di ricordare, su un taccuino (che non ho più ritrovato) dove i versi si alternavano a riflessioni e appunti vari. 
    Qualche cenno su quegli anni. Il 1983 era stato l’anno della prima inchiesta giudiziaria a carico di Silvio Berlusconi e della prima volta che un socialista, Bettino Craxi, diventava presidente del consiglio: due nomi, un sodalizio. L’ultimo avvenimento pubblico dell’anno fu il funerale di Umberto Terracini, un padre della patria, dimenticato e infine osteggiato dal PCI: il feretro, davanti a Montecitorio, venne seguito da pochissime persone. 
   Immediatamente dopo, siamo nell’anno dell’incubo orwelliano – che almeno per noi tarderà quasi un altro decennio –; nell’anno del “decisionismo” craxiano: per contrastare un’inflazione al 15% e uno dei più alti indebitamenti di tutto l’Occidente (i BOT sono al 18% annuo e rendono addirittura conveniente riportare in Italia i capitali clandestinamente esportati all’estero), accollandone tutte le responsabilità agli operai e ai loro sindacati, il socialista Craxi taglia per decreto quel minimo meccanismo di difesa chiamato “scala mobile” (che, con aumenti automatici, adegua il salario ad ogni punto in più d’inflazione).
   Il 1984, sarà anche l’anno del boom della borsa, della nascita dei consulenti e dei promotori finanziari, che, per raccogliere capitali, arrivano ad offrire rendimenti fino al 20%, superiori a quelli dei BOT; sarà l’anno in cui Berlusconi compra Italia 1 e Rete 4, Craxi le salva con un decreto e Dell’Utri spiega così l’abc di quel successo: «La A di amicizia, la B di Berlusconi e la C di culo»; l’anno della strage mafiosa del rapido “904”, dell’uccisione (ordinata dal mafioso Nitto Santapaola) di Giuseppe Fava e del “colpo del secolo” (la rapina altamente simbolica da 35 miliardi di lire alla Brink Securmark, di proprietà di Sindona); l’anno del primato del PCI alle seconde elezioni europee e della morte di Enrico Berlinguer; infine, sarà l’anno del successo di Uccelli di rovo sulla TV commerciale e della prima Piovra sulla TV pubblica, della pubblicazione di Seminario sulla gioventù di Aldo Busi e della prima parte de La camera da letto di Attilio Bertolucci.     
   Insomma, un anno di rilevanti avvenimenti pubblici; ma il mio “privato”, allora preponderante e doloroso, tutto lasciò sullo sfondo. La poesia, tuttavia, non voleva essere un elogio di quel “privato”, bensì la testimonianza (banale o no che possa essere dirlo) del passaggio da un anno cruciale (prima esaltante, poi infelice) della mia vita al successivo, amarissimo (eppure autentico spartiacque fra due diversi tempi del mio fare poesia: a ottobre del 1985 iniziai a scrivere L’osservatorio). La sua collocazione naturale (per tempo, tono, metro) era La salvezza, libro scritto in quegli anni e pubblicato solo nel 2006, ma, all’ultimo momento, la esclusi, insoddisfatto. Per essere chiari, non era del contenuto che dubitavo, ma della forma, o, meglio, della struttura del verso. In molte poesie coeve, incluse nel libro, i versi non hanno un ritmo sillabico, dunque la loro misura non è metrica, ma stabilita su una durata, o lunghezza, variabile, emotiva, che spezza in segmenti l’unità sintattica del discorso, spesso costituito da una sola frase. In questa poesia particolare, volevo che il verso avesse una estensione più elastica però anche più nervosa; che fosse massimamente mimetico delle “oscillazioni del fantasticare”, dei “soprassalti della coscienza” (definizioni di Baudelaire); tramite: un ritmo battente, spezzato, franto, a momenti singhiozzante, quasi strozzato (di persona ai limiti della lucidità, causa il vino, il sonno, il delirio d’amore o il dolore: a scelta), fatto perciò di pause lunghe, cesure decise, inarcature improvvise, impreviste, all’altezza di congiunzioni, articoli e preposizioni; d’indugi e frequenti ripetizioni. 
   Nel corso di questi trent’anni, la poesia è stata ripresa più di qualche volta; eppure, ogni volta scoprivo che articolazione della voce e articolazione del pensiero non coincidevano. Magari era solo colpa del trascorrere del tempo, ossia del fatto che io stesso, nel frattempo, ero cambiato. È stata spesso ritoccata, corretta, modificata (senza mai stravolgere la sua struttura di base), alla ricerca di un equilibrio vocale e di pensiero sempre sfuggente. A chi pensasse che tutto questo sia un po’ maniacale, non potrei dare torto. Però credo che anche in poesia la “libertà è coscienza della necessità” (è una frase di Georgij Plechanov); o, più semplicemente, che anche la libertà è soggetta a regole. Perciò ho cercato tanto a lungo quelle alle quali dovessero ubbidire i versi di questa poesia. La versione che qui si legge è l’ultima (la penultima si trova sul numero 7, ottobre 2010, di “Poliscritture”) in ordine di tempo; non so se è la definitiva.







6 commenti:

  1. Complimenti per l'interloquente poesia che si fa leggere tutta d'un fiato, e per l'inizio del QUARTO anno di questo favoloso blog! Incredibile come passa lento il tempo :>)

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  2. ci sono poesie, come questa, in cui viene voglia di adagiarsi come in quella terra di fantasticherie, bellezze fragili e assoluto che è un'amaca di lino grezza sospesa tra due alberi.

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  3. Francesco,
    questa poesia è molto bella e intensa.
    Lo scrittore ha forse piu' liberta del poeta.
    “libertà è coscienza della necessità” .
    La poesia che guarda al passato, che indugia sui ricordi è in primis auto analisi terapeutica. Questo effetto lo provoca anche in chi legge. per questa poesia è molto interessante il lavoro di revisioni successive negli anni che testimonia la sentita necessità di parlare e riparlare di questi temi.
    La poesia che illumina di incanto gli oggetti che ci circondano con semplicità è propria di chi sa godere del qui e ora, ed è accanto ad una persona così che è bello vivere. La poesia che slegata dalla consapevolezza della necessità arriva impetuosa e si presenta alla mente, e si fa girare e rimirare, e scorre da sola nella mente è profezia.
    Posso dire poco sulla metrica, se non che i versi alla lettura a voce alta, di 7/8 sillabe infondo ansia e tensione a questo discorso interiore, il quale trasmette lo stato d'animo in modo fisico. Anche il lettore è curvo davanti alla finestra. Il capoverso abbreviato rompe come una sincope il ritmo teso delle strofe (esistono strofe o sono pensieri della lunghezza di un respiro?) , crea una pausa di attesa che trasforma il monologo interiore in una sorta di racconto ad un uditore, in un possibile dialogo.
    Questa versione è molto bella, chissà come sono le precedenti.
    Come non si può oggi rivolgere un pensiero ad Amiri Baraka e ai suoi reading di Someone Blew up America, al ruolo importante del ritmo del respiro in quel testo.
    grazie!

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  4. Il primo autore che posso citare a proposito di necessità è Parmenide nel Poema della natura. La divinità scende dal carro del sole e si fa in 4: Nike, Dike, Ananke, Peithos. Sono le divinità che ci possono aiutare a leggere il reale secondo un senso di bellezza, giustizia, necessità e che soprattutto ci aiutano una volta che abbiamo elaborato un giudizio a esprimerlo con persuasione!
    "in quell’inizio/ d’anno, in quella nottata/ così perfetta per/ gelo, per sofferenza/ e volontà d’amore". Quante notti come questa "trapuntano" le nostre esistenze! Diverse fra loro ma simili in intensità. Questo verso ci aiuta forse a capire che quando amiamo, amiamo noi stessi innamorati? L'altro non è forse un'apparenza? un confine non reale, un "tu" completamente fuso con "io". E se l'ossessività di queste notti fosse il senso di prossimità alla verità? Perchè altrimenti trovare la perfezione nel dolore?

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  5. Gentile Chiara, è davvero una sorpresa leggere le tue osservazioni: così sentite e pertinenti. Ed è bello che tu abbia sentito il bisogno di tornare e puntualizzare qualcosa in più, dopo un intervento pieno di vera comprensione del testo. Leggere il reale e più modestamente un testo che vuole dirlo come tu fai, con spirito di comprensione e partecipazione, mi fa credere d'aver fatto bene a pubblicare questa poesia. E ti ringrazio perché la tua lettura mi conforta, mi fa pensare che forse è questa la versione definitiva, che posso distaccarmi dal testo e da quel che esprime finalmente senza rimpianto. Trasmettere lo stato d'animo 'in modo fisico' come tu dici, era in fondo quel che volevo fare e forse ci sono riuscito, dopotutto e dopo tanto lavoro e tante incertezze.
    Non esistono strofe in modo preciso. Esistono grumi di parole che si dispongono sexondo una pronuncia dettata dall'ansia e dal 'dolore' del sentire. Questo.
    Non ho mai sentito Baraka leggere. Ho sentito leggere, tanti anni fa, in Spagna, a un festival dove eravamo insieme, Gregory Corso: era coinvolgente e trascinante. Gli americani hanno certo una tradizione più avanzata della lettura ad alta voce. Io non sono un lettore particolarmente bravo dei miei testi... Grazie ancora.

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  6. Ho avuto la fortuna sentire Baraka a Udine e speravo di poter ripeter questa esperienza. Ciò che mi aveva colpito era proprio il potere persuasivo della sua voce, unito alla sua missione di editore che nero, in un'america razzista ha pubblicato per primo Kerouac e alcuni altri poeti importanti. ecco, i diversi, gli immigrati, le persone che soffrono, conoscono bene il significato di necessità, giustizia e persuasione, ammesso che tutti i poeti amino il bello.
    Un abbraccio (virtuale) e un ringraziamento per il bel lavoro e le pubblicazioni.

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