lunedì 1 ottobre 2018

Matteo Munaretto


LA LUCE DELLE BETULLE E DELLA NEVE

Viene il tempo in cui il depositum
humanae rei, il linguaggio
avuto tra le mani, ricevuto
dai padri sembra farsi un po’ di cenere.
E le fiamme
che avranno in pasto la città sono già accese,
già spolpano
gli sguardi, gli scambi elementari,
la carne delle cose, i cardini,
la cartilagine, la calce.
Non crederanno forse che allo schianto
delle case in un mucchio di fuliggine,
al visibile ruinare della fisica.
Cercheranno nemici dal di fuori
o anche più ciechi s’accaniranno
al più a sputare e computare un impoltrito
psicologema un neologismo finanziario,
poco d’altro.

                         Intanto brucia
la grammatica dell’anima
e le prime a incarbonirsi sono loro,
le calde parole dei padri,
quelle che ci ressero
in piedi fino a qui,
proprio adesso che padri siamo noi,
dobbiamo esserlo;
calde, le parole, delle oneste
fatiche umane,
di tutto il patimento che occorre alla pietà
per fendere nel fumo
del suo mistero avverso uno spiracolo
qua nella storia caina;
calde dell’onore
dovuto al compito
che ci fu dato insieme al nostro nome d’uomini:
non tradire,
non spargere sangue innocente,
cercare le cose di lassù
e sempre e solo il vero.

Ma ora erosi, derisi da quest’orgia
di crucifige
violenti indifferenti a ciò che vige
nel cuore del vivente
non sono solo i lemmi, i minimi
significati,
                    le sommità del mondo,
bene bellezza verità,
                                      sono anche i nessi
i lacci che allacciano le frasi –
con le frasi noi stessi –
la segnaletica di base, il quindi,
il dato che,
la conclusione dopo l’argomento,
la ragione che procede con prudenza,
lucida,
rallenta riprende
sa l’opportunità e la differenza
delle pause,
segue volute, rettifili,
tratturi accidentati
                                    ma tracciati
verso un dove, un oggetto, un nervo vivo,
un fine non importa
se raggiunto,
                         tende oltre il punto
naturalmente
                          la vita
                                       purché
dentro una forma,
                                   una norma,
                                                          la sintassi
fedele alla realtà:
                                giustizia
che giudica la rissa delle lingue,
operatrice di pace, ordine in lotta contro
non creature di sangue ma la nera
melma del grande ingannatore,
                                                           l’infero
caos che sale d’ogni trafittura
inflitta da nonsenso e infingimenti,
male che ci divide e aizza.
                                                L’argine
vacilla nelle menti
ignare in questa piena che tracima e acceca:
l’argine, la logica,
                                 i suoi passi le sue leggi –
la non contraddizione,
l’essere è il non essere non è –
capaci d’ospitare nella lingua
un po’ di celeste brillare.
E sono queste leggi il giogo lieve
che ancora conduce alla radura
del senso, ai tavoli imbanditi,
ai vini delicati,
al miele che scintilla sulle dita;
e sono probamente
la misura con cui l’umile scrivano
scriverà ancora un rigo sano,
                                                      sono lo zelo
con cui il pensiero potrà ancora illimpidirsi,
tornare a vedere

la luce delle betulle e della neve.


da Arde nel verde, Interlinea, 2011 

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