lunedì 11 gennaio 2021

Eloy Sánchez Rosillo

 MELVILLE, NELLA DOGANA

 

            Quanto più un uomo appartiene ai posteri, ovvero all’umanità intera, tanto più è sconosciuto ai suoi contemporanei... La gente riconosce più facilmente l’uomo utile nelle circostanze immediate o all’umore del momento al quale appartiene e nel quale vive e muore.

                                                                                                                              Schopenhauer

 

 

Per diciotto lunghi anni,

giorno per giorno ho atteso a quest’ufficio inesorabile,

ormai mi sono quasi rassegnato al mio strano destino:

il tempo placa tutto, e la voce che fino a poco prima

mi spingeva insistente a porre fine

una volta per sempre a tutto questo

ora l’ascolto appena, e se a volte la sento

non mi faccio ingannare e m’aggrappo con forza

ai braccioli assennati di questa vecchia seggiola

e così mi sottraggo al canto di sirene ormai improbabili.

Pesano troppo gli anni e le miserie dell’età

– questi occhi intorpiditi, e la sfida delle ossa per mantenermi in piedi –

impongono ai miei resti la loro orrida legge.

Benché io senta, in giorni come questo per esempio

– chissà perché, forse oggi è l’influenza

dell’autunno magnifico che spoglia i parchi

della città terribile –, l’accresciuta avversione

per l’impiego noioso e la tristezza dei suoi simboli

(gli oscuri arredi in legno dell’ufficio, la polvere

che ricopre le assurde carte archiviate,

e scolorite macchie d’inchiostro che negli anni

caddero sul paesaggio scomodo della mia vecchia cartella);

a lungo resto assorto e con invidia

penso alla silenziosa lucidità del povero Bartleby,

o agli indimenticabili giorni della lontana gioventù,

anni liberi – eppure disperati – di quando andai per mare

per trovare rimedio ai miei mali d’allora, idee confuse 

quando consideravo compiaciuto l’immagine

di me stesso suicida con una palla in testa.

Ora so che quegli anni furono forse i soli

che vissi veramente, con la pazzia e il coraggio

d’un essere divino e libero.

                                                 Poi il resto è stato morte,

o vita ricordata, forma diversa e triste

del lasciarsi morire, perché un ricordo di felicità

non è felicità, solo elegia

di uno spossessamento.

                                            E tutti i libri

che con dolore scrissi sono cenere

di quel fuoco intensissimo, relitti del naufragio

dell’insensata gioventù.

                                            Perciò, a volte mi chiedo:

valse la pena? Tutto l’impegno messo

nella carriera di scrittore, mestiere desolato

al quale consegnai il decennio più triste della vita,

più tardi abbandonato (non che lo consigliasse

il fallimento, perché scrissi sempre precisamente i libri

che la stupidità contemporanea con sufficienza ottusa destinava

al fallimento, ma perché l’oscuro territorio che un giorno mi proposi

d’esplorare era lì che finiva, ed è impossibile

una stessa avventura viverla per due volte).

È tanto che non pubblico e solo quando sento

bisogno di parlare con me stesso

prendo la penna e scrivo qualche verso

destinato a nessuno, ma che serve

a me per non star solo nei deserti gelidi

della vecchiaia.

                             In essi e in certi libri

che amo ed amai – soprattutto nelle opere

di William Shakespeare, solo comparabili

con la bellezza infinita dell’acqua azzurra

che navigai da giovane – trovo la compagnia

che prima non ebbi mai.

                                             E così serenamente

passano i giorni inarrestabili che mi avvicinano

al silenzio e alla pace dell’ombra tanto attesa.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

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