venerdì 28 novembre 2025

Alessandro Ricci

 

LA CONFESSIONE 

 

 

Quando, apparentemente nato,

il bambino fu l’urlo

di un ramarro verde, il brutto

aspetto cianotico atterrì

la madre e sua madre, entrambe

nerovestite, nell’affannosa

casa.

Fra il giorno del dolore e quello

della delusione, l’unico suono, dopo

tanti strilli, consulti

e bisbigli, rimase il ticchettìo

d’un orologio napoleonico

sul camino odoroso, il ghiaccio

si sciolse nel bacile

e la morfina tedesca nelle vene

della puerpera, a poco a poco.

 

Poi furono notte fonda e alba

d’incubo, i rallegramenti

confusi dei parenti,

rondini volanti da nido

a nido.

 

*

 

Ho amato perdutamente, fermo

da mane a sera, come una frode

all’odio, l’acqua dei torrenti

e del fiume

che traversavano la mia terra.

 

*

 

Alcune piazze discrete, schive aie

dove rare persone o bestie

passavano il giorno dall’ombra

alla luce, secondando i desideri

della pelle, supponendo

di non morire: lì avrei voluto entrare

e mischiarmi, mano nella mano,

in una tenera stretta.

 

*

 

La pistola da guerra di papà,

nascosta nel vano antifurto,

ha la pallottola in canna.

Lui solo, della famiglia,

sapeva caricarla.

                         In un altro

buco segreto s’è scoperto

un involtino di carta,

dentro un revolver minuscolo e

cesellato, una scatoletta di proiettili

briosi come monete, aguzzi e lucidi

come chiodi. Da buon gioielliere,

nonno sapeva forare i lobi delle

ragazze, e amare il minimo dolore

della puntura, il minimo danno

estetico alle orecchie.

Perciò l’intenerì la Browning.

Se quella

fosse stata la decisione, aveva

temperato la punta alla morte.

 

*

 

Nonno aveva un completo bianco

e una bicicletta gialla quando

mi ci portava. Di mare

ne aveva visto tanto

e tutto lo raccontava. Io sedevo

sulla canna, felice delle donne

creole che l’avevano amato,

come una promessa.

 

*

 

Nonno è morto in manicomio,

io imparavo a memoria Ettore

e Andromaca, trenta versi

al giorno, centoventi nei quattro

d’agonia, così non l’ho neppure

salutato. La notizia me la portò

mio padre di nascosto: non piangeva e io

dovetti imitarlo. Mia madre preparò

una cena trionfale, e noi mangiammo

quasi tutto in silenzio,

nella fioca luce del risparmio.

 

*

 

O avrò molte cose da dire,

da dirmi bene, o dopo l’ultimo

verso non ci sarà scampo.

 

*

 

Gianni Casciano aveva una zazzera

bionda e allegra, occhi ridenti e

un avvenire in prova; a lui potevano

capitare questo e quello.

Io avevo un futuro segnato,

gli concedevo l’infrazione dell’amicizia,

i castelli di sabbia e le mani

al cielo dopo un goal fatto

in allenamento, perché nelle partite

ufficiali non toccavo palla.

 

*

 

Il dolore ti parla, ma non è

concesso riferirlo,

meno che mai alla persona

che te lo dà.

Per esempio, i Romani decisero

di bruciare i cadaveri

e disfarsene fuori le mura.

La cenere non rimprovera come

un corpo che si decompone,

non azzanna.

 

*

 

Forse per questo, quando finisce

un amore, vorremmo sostituire

il telefono, ardere i mobili

della stanza, cambiare casa.

 

*

 

Il dolore paga tre monete:

una di ferro, ed è il vuoto;

una d’argento, ed è la memoria,

atroce e cortese, della semplicità;

una d’oro, ed è il pensiero

della morte, bianco come Venere

al mattino, come il clamore

mancante che subissa

in una marina che non

si sa.

 

*

 

Ageminare significa damaschinare,

e damaschinare non so cosa

significhi. Anche Arabi felici,

Arabi commercianti, geometrici

come cubi, incisori di gemme,

testori di tappeti volanti,

asciutti Levantini,

hanno inventato parole.

                                     In più,

hanno fatto figli, goduto cibi,

contato il guadagno, tenuto

donne, alzato veli, visto e

rivisto l’amore, la riconoscenza,

l’eterno desiderio che v’era

sotto.

 

*

 

Quasi sempre, parlando troppo di me,

ho letto nell’interlocutore

acri soddisfazioni.

                            Le persone

mancate – solo oggi è chiaro –

sono sbagliate per sempre, sono

simbolo, e un simbolo, se

stilisticamente coerente, va

conservato così

com’è.

Blok è La violetta notturna,

Munch Il grido, Esenin

Congedo.

 

Tutti appuntamenti mancati.

 

Chi parla di Catullo, Leopardi,

Pavese in termini esclusivi

di segno, lingua e composizione,

sappia che sarebbe arrivato

in ritardo quand’aspettavano vivi,

e che avrebbe accampato scuse,

vedendone i cadaveri sul luogo

del convegno: la calca sboccata

dal circo, difficoltà

pontificie alla dogana,

disservizi telefonici.

 

*

 

La potenza del moralismo

di Baudelaire: Igiene. Rimbaud

e la truffa del Negus sul prezzo

delle armi, che pure

sono destinate a uccidere:

la morte può finire estetica,

ma il tradimento,

che l’affretta, è

soltanto morale.

 

*

 

Le vie corte di maggio quando

la gente è rada e tu, all’ora

del pranzo, digiuni fedelmente

camminando sui selciati della

città bellissima

con poche speranze senza motivo.

 

*

 

Questa vecchia macchina

è nata rotta, ma ha

quarant’anni di garanzia.

Agli amici meccanici,

alla squadra di specialisti

che cerca di ripararla

in ore di straordinario,

grazie.

 

*

 

La nostalgia è una nave

di cui s’è perso il comando,

e poi è affondata.

 

Portandosi nel buio la linea

dello scafo, il valore

del carico, il libro

di bordo e le poesie

sul mare.

 

*

 

Sono un werther leggero.

 

*

 

Fra la tecnica e il rito,

sull’esile frontiera

che divide presente

e passato, l’esserci e

il venir meno, lei

da me, mi sono

perso.

 

Così il pesce risolve

l’incertezza fra cibo

e fame, e abbocca all’amo

per sempre.

 

Di questo almeno è certo

l’atto che ci risolve:

durare un’eternità,

agli estremi del merito

o della colpa.

 

*

 

Il rabbino infedele che

smette la Legge e le regole

del Talmud. Schiodato

il freno dell’usanza, fiutando

remotissimi odori, le emozioni

smisurano sulla via di fuga.

 

Conteso ai pensieri il numero

dei passi che l’allontanano

da chi lo dimentica, il viaggio

è senza fine, il deserto

è matto.

             Il sole finirà

in uno specchio, dove remanti

vele affondano per la distanza,

come fra dune le carovane.

 

Finché il tesoro profferto,

al termine della nostalgia,

testardamente giunge.

 

Lì moriranno o meno

le fantasie, quasi sull’alba

stelle, quasi sempre

l’avesse saputo

o gliel’avessero

detto.

 

Non abbatte il maiale

sulla riva, ma

ve l’ha condotto per gioco,

la prima volta entrambi

a conoscere il mare. Che

sulla costa mancassero altre

presenze, lo sapeva contandosi

gli anni nella fretta

di giungere.

 

Sono due corpi nudi, aliene

specie sulla sabbia splendente,

il vecchio peccato e lo sguardo

tollerante, illuminato,

fra crespe e rena.

 

Era così nell’acqua, non

per abluzione ma gioia, che

doveva conoscere l’inesistenza

del patto, la cruna d’una sapienza

ignota alle parole, ai sensi,

forse anche alla paura

d’essere lacunoso

o assente, così meno

di sé.

 

 

mercoledì 26 novembre 2025

Alessandro Ricci

 

MORTI PARALLELE

 

I colloqui di Elpinti

 

I

 

 Forse perché

la giornata è bella, fatta

la primavera, lucido

il cavallo, non cigolanti

le ruote del carro, riparata

la strada, in fiore

le messi e qualche

ventre di fuoco offerto

per solidi o complimenti,

poi rosso,

rosso il miglior falerno

al buio tiepido

della notte e dei nostri

colloqui…

                 … o forse perché

non siamo stati né ingiusti

né avari o temiamo

di diventarlo, e quindi perché

il mattino, il pomeriggio, la sera

sembrano devoti e noi

probabilmente

a noi stessi ed anche – c’è

chi lo dice – il mese,

l’anno, volendo

il decennio…   

                      … forse per tutte

queste latitanti promesse o

che altro – la bellezza

del mare? –, perché dovremmo

temere ciò ch’è stato

deciso?

 

A queste

o a questa sola domanda

che ora ti faccio davanti,

anche se guardi i pesci

nella vasca e fingi

di non sentire, e che

in anni così lontani ti scrissi

e riscrissi sapendo

di non essere solo,

ancora una volta, Ammiano,

non rispondi,

non rispondi,

perché?

 

 

II

 

A lancinanti prore

sul dorso marino,

a palpabili mete

sotto

un’aperta tunica,

a boe terrestri nei trivi

o presso

il fuoco domestico,

a parole madide

o false che vogliano

udirsi,

alla stella affine

dei fati notturni,

alla pena

e all’odio vandalici,

ai mercati, al greto

sulle bell’acque:

a tutto;

l’uomo s’avvita a tutto,

povero Massimiano.

 

In tanta notte che s’avvicina,

poiché ammetti la paura

e la fine del suono,

per la tua boria infiammata                                                                                                  

di solitario, accanto ed oltre

ed almeno

ti sopravviva e ti basti

un animale estremamente vivente

– serpe, falco

o cane argentati –, insieme

 

agli ondeggiamenti del grano.

 

 

 


 

Alcuni stanchi pensieri di Vetranione

 

                     nel praetorium di Giuliano l’Apostata,

      in una pausa del consiglio di guerra, alla vigilia

      della battaglia del 25 o 26 giugno del 363 d.C.

 

 

Questi preparano

vie di fuga: pensano

alle donne, ai figli,

ai cavalli.

                  Anche a me

dispiace lasciarli.

                             Ma,

chi lo sa perché,

io invece vado

dove Giuliano va,

nel mezzo della disfatta,

forse lui,

solo lui lo sa.

 

 

 

 

 


 

La corsa di Vetranione da qui a là

 

I

 

 Levità delle bianche

scale, la discesa

è dovunque, il pozzo

non si restringe ma

s’allarga, il tempo

s’allontana, altro solco

d’evo in evo a rovescio, grandi

palazzi degli Angioini e la folla

dei commedianti che sparisce, icòne

bizantine, Ravenna sempre assediata, Cassiodoro

vecchissimo, l’alta Squillace fiera del suo golfo,

una nave nera pirata al largo che s’arena in un fitto

sempre più fitto di giunchi e là rimane con grida

sempre più deboli d’ignorato soccorso, un ponte immenso

dove non passa anima viva o morta, sotto solo faticosa-

mente canali tra canne quasi bruciate, foschi uccelli

quasi impazziti, poi l’unico, pieno deserto,

dove in una mischia feroce

l’imperatore Giuliano

morirà combattendo.

 

                                                                                                                                          

II

 

Fermarsi qui, in questo punto

e a quest’ora, l’una e l’altro

che una legge sussurrata appena, ben prima,

ben dopo il nostro scempio, sussurrata

da sempre, decide più severi ed esatti,

anch’io scudiero o semplice parassita,

sì d’un sogno minore ma non tradito,

mai manomesso, del tutto ignoto

o indifferente nella distratta

Antiochia dove domani,

alla notizia dell’ecatombe,

ci sarà certo chi festeggia

o fa finta di niente.

 

 

                                                                      

Giuliano

 

  

Allora Giuliano, dopo

una notte insonne ma non

inquieta, all’alba quando

ogni tenda del campo

gli parve una duna come

ben oltre le sabbie,

infinite a perdita d’occhio, lisciate

dal levante che le invadeva, le issava

in un mare di chiaro:

                                 là:

percorrendo piano il perimetro

senza il contegno del capo,

rispondendo con un sorriso

al saluto quasi commosso

delle guardie di turno,

insonnolite all’ora del cambio

– saluti e sorrisi così simili

a quel lontano silenzio vibrato

nell’aria ferma, così diversi

dall’uso, così

nuovi –, pensò alla consapevolezza

e ai sussurri, a quella morbida

e rassegnata complicità,

pensò alle navi

che s’era bruciato alle spalle

i cui fumi forse si mescolavano                                                                                                  

al velo gentile dell’enorme

giornata che si gonfiava,

ad altri pochi momenti,

in un solo ricordo adunati,

invadente ma non spietato,

senza rimpianti.

                         Poi,

pensando a tutti

i suoi uomini che di lì a poco la tromba

avrebbe svegliati, si disse piano

che suoi erano pure l’errore e la colpa

del destino che li attendeva, ma non

del suo, cui mancava

appena qualcosa,

un gesto,

per la piena armonia.

 

 

                                                                                  

                                                          

I cavalli del nemico

 

 Un dolore fermo, non acre, forse nel mezzo della corazza,

li aveva scartati tutti. Alcuni non gli parevano

sconosciuti. Al doppio segnale dell’ennesimo

attacco era sembrato inevitabile

scontrarsi un’altra volta

con loro, ma non era

successo. Di tre

o quattro

catafratti invece

ricordava chiara-

mente la furia e la destrezza nelle prime

fasi della battaglia, la velocità

delle fughe e i reiterati

assalti. E le ferite leggere

che gli avevano inferto: pochi graffi

quasi rimarginati, se non proprio

invisibili.

 

Uno dopo l’altro, li aveva osservati con attenzione.

La fila era stata lunga: di molte,

alte clessidre,

eppure erano le bestie

strappate ai vincitori.

 

Si chiese allora sgomento quanti cavalli del suo

esercito decimato fossero già nel campo persiano,

inadatto forse

a contenerli tutti, quanti nemici

li avrebbero ridomati, addolciti,

addestrati, infine caracollati

al decisivo assalto, al disastro,

al macello finale.

 

La filza degli animali catturati, ben più umani

dei pochi prigionieri così meno afflitti,

sembrava finita.

 

Nel vuoto dopo l’ultimo scalpiccìo,

apparvero nella pianura gialli e sfocati roghi

molto, molto lontani. E s’udirono,                                                                                                                

ma non appena, strazi e lamenti:

dei piagati, dei moribondi e,

come un’eco,

dei morti.

 

Così tramontava quella giornata terribile.

 

Quanto male, misto a quel sordo

vuoto nel petto,

s’accaniva con l’impazienza.

 

Fu dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel ritardo,

quando emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro

di chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,

e vide finalmente l’asta a due punte

che l’aveva trafitto:

 

il primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi

luttuoso. L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,

un gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,

in una presa insicura, la carogna d’un ratto

troppo grosso, ridotta a poltiglia

sanguinolenta.

                        Poi l’altro: un puledro aspro e impaziente,

avido ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,

a fatica, forse per caso, un bianco

cane tremante.

 

 

La sera

 

 I 


«Le fiaccole a rovescio, l’olio

che sfrigola e non cade

dal cielo della tenda, quante

fiammelle guizzano all’ingiù, là

su vedo molte calvizie di comandanti,

dei migliori veterani, qualche

semplice legionario intorno

al mio letto, la resa

così sofferta dei medici,

il bacile del salasso, mosche

ronzanti, il molosso a catena e

al margine del quadro il

pianto muto d’un’ancella che credevo

svogliata o ribelle e mi sbagliavo,

più al centro la pozza del sangue

che uno schiavo deterge.

Ma.

                   Ma non trovo,

non trovo me che lo colo:

nella volta io

non sono dipinto,

manco.

 

“Svellere il giavellotto”,

amarne il cavo: quello

hanno detto e fatto gli amici

con morbidezza, di questo avverto

solo un brusio, quasi

suono – cembali da quale

dove? – da parte

a parte purissimo, piuma,

su e giù,

che accarezza i suoi spiragli

e che m’induce

da vita a morte

senza dolore.

 

Che c’è di vero in tutto questo?

Hanno issato uno specchio

enorme che mi esclude,

privo solo di me, per rispetto

di me? Forse

ho ben meritato

di loro, e temono ch’io guardi

il mio corpo trafitto?

Ma no, sento che l’hanno coperto

di soffice lana, sono

semplicemente cieco, e se le pupille

sbiadiscono in albume, come si dice

che accada, il cuore crescendo

le sostituisce, fonde

memoria e invenzione, tutti

i granelli della clessidra,

dipinge gli aspetti

di uomini e cose, liscia

i contorni, quasi                                                                                                                        

li tocca.

 

 

Più lui,

più lui di me dunque v’invita

a calici ricolmi, a festa piena,

alla mia smania, alla mia idea

di gioco.

 

Non vi riesce questa ch’è,

o non è, così ennesima

una finzione, un mero atto?

                                            Lo so, siete ancora

troppo viventi, non potete

seguirmi, grazie

lo stesso. Ma se

restate, come

mi sembra, a somma distanza

dall’allegria, mummie

tristi, impalati

tormenti, vi

chiedo d’uscire di qui. A rivedere

il giorno, l’aria,

i cavalli».

 

 

 II

 

Come al solito il suo

non fu un ordine perentorio. Cipressi

di rito o di sepolcro, loriche

impolverate, spade                                                                                                                

scheggiate nei foderi, rudi

sgomenti, rimasero tutti.

 

Parve a Giuliano invece

d’essere completa-

mente solo,

con quei brani di sé, stati

o mancanti,

che una nostalgia sorridente,

sottilissima e quieta,

non gli volle tacere.

 

E in quella buia

e lampeggiante tenda

a Giuliano rivenne il bianco

cavallo addormentato nell’horto, fra

il suo risveglio di ragazzo un tempo

e la vista all’alba

del Ponto, trasparenza fra

trasparenze, un addio

dopo l’altro come l’ultimo scettico,

sfiorato sguardo

dei molti amici poco prima

della battaglia. I giusti amori:

i cani Mario e Duilio,

soffici negli occhi più che

nel pelo, due

giovani donne che non

l’avevano amato, volate

di volo azzurro ogni volta che le

guardava: suoni delirati, un non

esserci mai per loro. E rare                                                                                                     

folate d’incontinenza

negli inguini delle matrone, e l’onta,

e i sudori; ma

in quelle mischie d’impudicizia, azzanni

viperini, l’altra,

altissima quota delle lontane, accecanti

ali per sempre: che implacabile

sua devozione, così sparsa,

così persa.

                 E allora la conoscenza

e il dolore. O all’inverso la sofferenza

e il capire, e l’arrendersi, e il non

odiare. Così, imperatore deriso,

ripensò agli inganni evaporati

ai quattro capi

del mondo e alle speranze

terribili: distratti, stordite

dalla stanchezza

e dal fuoco, alle partenze,

agli arrivi d’esagerati

tragitti, senza una pazienza

o un riposo, in mezzo

a caterve d’uomini privo

d’una carezza, una parola,

una vigilanza, una cura. Ma

la foresta fu sua,

o il mare.

               Suoi? suoi come?

suoi quanto? suoi quando?

Gocce pari d’acqua oleosa.

E tutto gli cominciò intorno

a girare insieme: testa, corpo,                                                                                                        

mondo… Che intorno

a che? Non come i molti,

folli galilei, lui

non l’avrebbe

saputo mai.








All’alba del mattino dopo – 26 o 27 giugno del 363 d.C. –, Ammiano All’alba del mattino dopo ― 26 o 27 giugno del 363 d.C. ― Ammiano Marcellino, che aveva assistito alla morte del suo imperatore (e che avrebbe descritta nelle sue Storie), mentre osservava l’opera paziente dei medici imbalsamatori (il cadavere avrebbe dovuto vincere calura e distanza per essere inumato a Tarso, in Cilicia) e cercava di ricordare le volte in cui Giuliano gli aveva detto di sentirsi morire, quando citava sorridendo un’epigrafe funeraria sull’Appia o chissà dove: «Sono morto mille volte, ma così mai», ne sentì la voce bussargli piano alle tempie, mentre fuori uccelli partivano e soldati arrivavano nei pressi della tenda a deporvi un’impronta o una lacrima, subito riarsa in quella sabbia desertica:

 

Mehr Licht… Perché la luce s’irradia

oltre l’ostacolo? Lo fa anche il pensiero?

l’amore? l’anima?... Io non devo

alcun pollo ad Asclepio: devo

me, nessuno oltre

me… Je vois un port rempli de voiles et

de mâts… Non viverti, non

t’esaltare: consider Phlebas, who

was once handsome and tall

as you: fa’ scivolare questi

tuoi versi estremi

nel cavo della

ferita.

Poi muorine,

a loro insieme.

 

Per tutto il giorno, camminando piano nel campo sotto un sole stranamente velato, mentre gli ufficiali del genio davano ordini quasi sussurrati ai soldati che smontavano le tende, Ammiano sentì ripetersi quelle parole, fino a impararle a memoria. Vi riconobbe Platone, ma non chi parlava in quella, o quelle lingue strane.