LA CONFESSIONE
Quando, apparentemente nato,
il bambino fu l’urlo
di un ramarro verde, il brutto
aspetto cianotico atterrì
la madre e sua madre, entrambe
nerovestite, nell’affannosa
casa.
Fra il giorno del dolore e quello
della delusione, l’unico suono, dopo
tanti strilli, consulti
e bisbigli, rimase il ticchettìo
d’un orologio napoleonico
sul camino odoroso, il ghiaccio
si sciolse nel bacile
e la morfina tedesca nelle vene
della puerpera, a poco a poco.
Poi furono notte fonda e alba
d’incubo, i rallegramenti
confusi dei parenti,
rondini volanti da nido
a nido.
*
Ho amato perdutamente, fermo
da mane a sera, come una frode
all’odio, l’acqua dei torrenti
e del fiume
che traversavano la mia terra.
*
Alcune piazze discrete, schive aie
dove rare persone o bestie
passavano il giorno dall’ombra
alla luce, secondando i desideri
della pelle, supponendo
di non morire: lì avrei voluto entrare
e mischiarmi, mano nella mano,
in una tenera stretta.
*
La pistola da guerra di papà,
nascosta nel vano antifurto,
ha la pallottola in canna.
Lui solo, della famiglia,
sapeva caricarla.
In un altro
buco segreto s’è scoperto
un involtino di carta,
dentro un revolver minuscolo e
cesellato, una scatoletta di proiettili
briosi come monete, aguzzi e lucidi
come chiodi. Da buon gioielliere,
nonno sapeva forare i lobi delle
ragazze, e amare il minimo dolore
della puntura, il minimo danno
estetico alle orecchie.
Perciò l’intenerì la Browning.
Se quella
fosse stata la decisione, aveva
temperato la punta alla morte.
*
Nonno aveva un completo bianco
e una bicicletta gialla quando
mi ci portava. Di mare
ne aveva visto tanto
e tutto lo raccontava. Io sedevo
sulla canna, felice delle donne
creole che l’avevano amato,
come una promessa.
*
Nonno è morto in manicomio,
io imparavo a memoria Ettore
e Andromaca, trenta versi
al giorno, centoventi nei quattro
d’agonia, così non l’ho neppure
salutato. La notizia me la portò
mio padre di nascosto: non piangeva e io
dovetti imitarlo. Mia madre preparò
una cena trionfale, e noi mangiammo
quasi tutto in silenzio,
nella fioca luce del risparmio.
*
O avrò molte cose da dire,
da dirmi bene, o dopo l’ultimo
verso non ci sarà scampo.
*
Gianni Casciano aveva una zazzera
bionda e allegra, occhi ridenti e
un avvenire in prova; a lui potevano
capitare questo e quello.
Io avevo un futuro segnato,
gli concedevo l’infrazione dell’amicizia,
i castelli di sabbia e le mani
al cielo dopo un goal fatto
in allenamento, perché nelle partite
ufficiali non toccavo palla.
*
Il dolore ti parla, ma non è
concesso riferirlo,
meno che mai alla persona
che te lo dà.
Per esempio, i Romani decisero
di bruciare i cadaveri
e disfarsene fuori le mura.
La cenere non rimprovera come
un corpo che si decompone,
non azzanna.
*
Forse per questo, quando finisce
un amore, vorremmo sostituire
il telefono, ardere i mobili
della stanza, cambiare casa.
*
Il dolore paga tre monete:
una di ferro, ed è il vuoto;
una d’argento, ed è la memoria,
atroce e cortese, della semplicità;
una d’oro, ed è il pensiero
della morte, bianco come Venere
al mattino, come il clamore
mancante che subissa
in una marina che non
si sa.
*
Ageminare significa damaschinare,
e damaschinare non so cosa
significhi. Anche Arabi felici,
Arabi commercianti, geometrici
come cubi, incisori di gemme,
testori di tappeti volanti,
asciutti Levantini,
hanno inventato parole.
In più,
hanno fatto figli, goduto cibi,
contato il guadagno, tenuto
donne, alzato veli, visto e
rivisto l’amore, la riconoscenza,
l’eterno desiderio che v’era
sotto.
*
Quasi sempre, parlando troppo di me,
ho letto nell’interlocutore
acri soddisfazioni.
Le persone
mancate – solo oggi è chiaro –
sono sbagliate per sempre, sono
simbolo, e un simbolo, se
stilisticamente coerente, va
conservato così
com’è.
Blok è La violetta notturna,
Munch Il grido, Esenin
Congedo.
Tutti appuntamenti mancati.
Chi parla di Catullo, Leopardi,
Pavese in termini esclusivi
di segno, lingua e composizione,
sappia che sarebbe arrivato
in ritardo quand’aspettavano vivi,
e che avrebbe accampato scuse,
vedendone i cadaveri sul luogo
del convegno: la calca sboccata
dal circo, difficoltà
pontificie alla dogana,
disservizi telefonici.
*
La potenza del moralismo
di Baudelaire: Igiene. Rimbaud
e la truffa del Negus sul prezzo
delle armi, che pure
sono destinate a uccidere:
la morte può finire estetica,
ma il tradimento,
che l’affretta, è
soltanto morale.
*
Le vie corte di maggio quando
la gente è rada e tu, all’ora
del pranzo, digiuni fedelmente
camminando sui selciati della
città bellissima
con poche speranze senza motivo.
*
Questa vecchia macchina
è nata rotta, ma ha
quarant’anni di garanzia.
Agli amici meccanici,
alla squadra di specialisti
che cerca di ripararla
in ore di straordinario,
grazie.
*
La nostalgia è una nave
di cui s’è perso il comando,
e poi è affondata.
Portandosi nel buio la linea
dello scafo, il valore
del carico, il libro
di bordo e le poesie
sul mare.
*
Sono un werther leggero.
*
Fra la tecnica e il rito,
sull’esile frontiera
che divide presente
e passato, l’esserci e
il venir meno, lei
da me, mi sono
perso.
Così il pesce risolve
l’incertezza fra cibo
e fame, e abbocca all’amo
per sempre.
Di questo almeno è certo
l’atto che ci risolve:
durare un’eternità,
agli estremi del merito
o della colpa.
*
Il rabbino infedele che
smette la Legge e le regole
del Talmud. Schiodato
il freno dell’usanza, fiutando
remotissimi odori, le emozioni
smisurano sulla via di fuga.
Conteso ai pensieri il numero
dei passi che l’allontanano
da chi lo dimentica, il viaggio
è senza fine, il deserto
è matto.
Il sole
finirà
in uno specchio, dove remanti
vele affondano per la distanza,
come fra dune le carovane.
Finché il tesoro profferto,
al termine della nostalgia,
testardamente giunge.
Lì moriranno o meno
le fantasie, quasi sull’alba
stelle, quasi sempre
l’avesse saputo
o gliel’avessero
detto.
Non abbatte il maiale
sulla riva, ma
ve l’ha condotto per gioco,
la prima volta entrambi
a conoscere il mare. Che
sulla costa mancassero altre
presenze, lo sapeva contandosi
gli anni nella fretta
di giungere.
Sono due corpi nudi, aliene
specie sulla sabbia splendente,
il vecchio peccato e lo sguardo
tollerante, illuminato,
fra crespe e rena.
Era così nell’acqua, non
per abluzione ma gioia, che
doveva conoscere l’inesistenza
del patto, la cruna d’una sapienza
ignota alle parole, ai sensi,
forse anche alla paura
d’essere lacunoso
o assente, così meno
di sé.