MORTI PARALLELE
I colloqui di Elpinti
I
la giornata è bella, fatta
la primavera, lucido
il cavallo, non cigolanti
le ruote del carro, riparata
la strada, in fiore
le messi e qualche
ventre di fuoco offerto
per solidi o complimenti,
poi rosso,
rosso il miglior falerno
al buio tiepido
della notte e dei nostri
colloqui…
… o
forse perché
non siamo stati né ingiusti
né avari o temiamo
di diventarlo, e quindi perché
il mattino, il pomeriggio, la sera
sembrano devoti e noi
probabilmente
a noi stessi ed anche – c’è
chi lo dice – il mese,
l’anno, volendo
il decennio…
… forse per tutte
queste latitanti promesse o
che altro – la bellezza
del mare? –, perché dovremmo
temere ciò ch’è stato
deciso?
A queste
o a questa sola domanda
che ora ti faccio davanti,
anche se guardi i pesci
nella vasca e fingi
di non sentire, e che
in anni così lontani ti scrissi
e riscrissi sapendo
di non essere solo,
ancora una volta, Ammiano,
non rispondi,
non rispondi,
perché?
II
A lancinanti prore
sul dorso marino,
a palpabili mete
sotto
un’aperta tunica,
a boe terrestri nei trivi
o presso
il fuoco domestico,
a parole madide
o false che vogliano
udirsi,
alla stella affine
dei fati notturni,
alla pena
e all’odio vandalici,
ai mercati, al greto
sulle bell’acque:
a tutto;
l’uomo s’avvita a tutto,
povero Massimiano.
In tanta notte che s’avvicina,
poiché ammetti la paura
e la fine del suono,
per la tua boria infiammata
di solitario, accanto ed oltre
ed almeno
ti sopravviva e ti basti
un animale estremamente vivente
– serpe, falco
o cane argentati –, insieme
agli ondeggiamenti del grano.
Alcuni stanchi pensieri di Vetranione
nel
praetorium di Giuliano l’Apostata,
in una pausa del
consiglio di guerra, alla vigilia
della battaglia del 25 o 26 giugno del
363 d.C.
Questi preparano
vie di fuga: pensano
alle donne, ai figli,
ai cavalli.
Anche a me
dispiace lasciarli.
Ma,
chi lo sa perché,
io invece vado
dove Giuliano va,
nel mezzo della disfatta,
forse lui,
solo lui lo sa.
La corsa di Vetranione da qui
a là
I
scale, la discesa
è dovunque, il pozzo
non si restringe ma
s’allarga, il tempo
s’allontana, altro solco
d’evo in evo a rovescio, grandi
palazzi degli Angioini e la folla
dei commedianti che sparisce, icòne
bizantine, Ravenna sempre assediata, Cassiodoro
vecchissimo, l’alta Squillace fiera del suo golfo,
una nave nera pirata al largo che s’arena in un fitto
sempre più fitto di giunchi e là rimane con grida
sempre più deboli d’ignorato soccorso, un ponte immenso
dove non passa anima viva o morta, sotto solo faticosa-
mente canali tra canne quasi bruciate, foschi uccelli
quasi impazziti, poi l’unico, pieno deserto,
dove in una mischia feroce
l’imperatore Giuliano
morirà combattendo.
II
Fermarsi qui, in questo punto
e a quest’ora, l’una e l’altro
che una legge sussurrata appena, ben prima,
ben dopo il nostro scempio, sussurrata
da sempre, decide più severi ed esatti,
anch’io scudiero o semplice parassita,
sì d’un sogno minore ma non tradito,
mai manomesso, del tutto ignoto
o indifferente nella distratta
Antiochia dove domani,
alla notizia dell’ecatombe,
ci sarà certo chi festeggia
o fa finta di niente.
Giuliano
Allora Giuliano, dopo
una notte insonne ma non
inquieta, all’alba quando
ogni tenda del campo
gli parve una duna come
ben oltre le sabbie,
infinite a perdita d’occhio, lisciate
dal levante che le invadeva, le issava
in un mare di chiaro:
là:
percorrendo piano il perimetro
senza il contegno del capo,
rispondendo con un sorriso
al saluto quasi commosso
delle guardie di turno,
insonnolite all’ora del cambio
– saluti e sorrisi così simili
a quel lontano silenzio vibrato
nell’aria ferma, così diversi
dall’uso, così
nuovi –, pensò alla consapevolezza
e ai sussurri, a quella morbida
e rassegnata complicità,
pensò alle navi
che s’era bruciato alle spalle
i cui fumi forse si mescolavano
al velo gentile dell’enorme
giornata che si gonfiava,
ad altri pochi momenti,
in un solo ricordo adunati,
invadente ma non spietato,
senza rimpianti.
Poi,
pensando a tutti
i suoi uomini che di lì a poco la tromba
avrebbe svegliati, si disse piano
che suoi erano pure l’errore e la colpa
del destino che li attendeva, ma non
del suo, cui mancava
appena qualcosa,
un gesto,
per la piena armonia.
I cavalli del nemico
li aveva scartati tutti. Alcuni non gli parevano
sconosciuti. Al doppio segnale dell’ennesimo
attacco era sembrato inevitabile
scontrarsi un’altra volta
con loro, ma non era
successo. Di tre
o quattro
catafratti invece
ricordava chiara-
mente la furia e la destrezza nelle prime
fasi della battaglia, la velocità
delle fughe e i reiterati
assalti. E le ferite leggere
che gli avevano inferto: pochi graffi
quasi rimarginati, se non proprio
invisibili.
Uno dopo l’altro, li aveva osservati con attenzione.
La fila era stata lunga: di molte,
alte clessidre,
eppure erano le bestie
strappate ai vincitori.
Si chiese allora sgomento quanti cavalli del suo
esercito decimato fossero già nel campo persiano,
inadatto forse
a contenerli tutti, quanti nemici
li avrebbero ridomati, addolciti,
addestrati, infine caracollati
al decisivo assalto, al disastro,
al macello finale.
La filza degli animali catturati, ben più umani
dei pochi prigionieri così meno afflitti,
sembrava finita.
Nel vuoto dopo l’ultimo scalpiccìo,
apparvero nella pianura gialli e sfocati roghi
molto, molto lontani. E s’udirono,
ma non appena, strazi e lamenti:
dei piagati, dei moribondi e,
come un’eco,
dei morti.
Così tramontava quella giornata terribile.
Quanto male, misto a quel sordo
vuoto nel petto,
s’accaniva con l’impazienza.
Fu dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel
ritardo,
quando emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro
di chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,
e vide finalmente l’asta a due punte
che l’aveva trafitto:
il primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi
luttuoso. L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,
un gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,
in una presa insicura, la carogna d’un ratto
troppo grosso, ridotta a poltiglia
sanguinolenta.
Poi l’altro: un puledro aspro e impaziente,
avido ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,
a fatica, forse per caso, un bianco
cane tremante.
La sera
«Le fiaccole a rovescio, l’olio
che sfrigola e non cade
dal cielo della tenda, quante
fiammelle guizzano all’ingiù, là
su vedo molte calvizie di comandanti,
dei migliori veterani, qualche
semplice legionario intorno
al mio letto, la resa
così sofferta dei medici,
il bacile del salasso, mosche
ronzanti, il molosso a catena e
al margine del quadro il
pianto muto d’un’ancella che credevo
svogliata o ribelle e mi sbagliavo,
più al centro la pozza del sangue
che uno schiavo deterge.
Ma.
Ma
non trovo,
non trovo me che lo colo:
nella volta io
non sono dipinto,
manco.
“Svellere il giavellotto”,
amarne il cavo: quello
hanno detto e fatto gli amici
con morbidezza, di questo avverto
solo un brusio, quasi
suono – cembali da quale
dove? – da parte
a parte purissimo, piuma,
su e giù,
che accarezza i suoi spiragli
e che m’induce
da vita a morte
senza dolore.
Che c’è di vero in tutto questo?
Hanno issato uno specchio
enorme che mi esclude,
privo solo di me, per rispetto
di me? Forse
ho ben meritato
di loro, e temono ch’io guardi
il mio corpo trafitto?
Ma no, sento che l’hanno coperto
di soffice lana, sono
semplicemente cieco, e se le pupille
sbiadiscono in albume, come si dice
che accada, il cuore crescendo
le sostituisce, fonde
memoria e invenzione, tutti
i granelli della clessidra,
dipinge gli aspetti
di uomini e cose, liscia
i contorni, quasi
li tocca.
Più lui,
più lui di me dunque v’invita
a calici ricolmi, a festa piena,
alla mia smania, alla mia idea
di gioco.
Non vi riesce questa ch’è,
o non è, così ennesima
una finzione, un mero atto?
Lo so, siete ancora
troppo viventi, non potete
seguirmi, grazie
lo stesso. Ma se
restate, come
mi sembra, a somma distanza
dall’allegria, mummie
tristi, impalati
tormenti, vi
chiedo d’uscire di qui. A rivedere
il giorno, l’aria,
i cavalli».
Come al solito il suo
non fu un ordine perentorio. Cipressi
di rito o di sepolcro, loriche
impolverate, spade
scheggiate nei foderi, rudi
sgomenti, rimasero tutti.
Parve a Giuliano invece
d’essere completa-
mente solo,
con quei brani di sé, stati
o mancanti,
che una nostalgia sorridente,
sottilissima e quieta,
non gli volle tacere.
E in quella buia
e lampeggiante tenda
a Giuliano rivenne il bianco
cavallo addormentato nell’horto, fra
il suo risveglio di ragazzo un tempo
e la vista all’alba
del Ponto, trasparenza fra
trasparenze, un addio
dopo l’altro come l’ultimo scettico,
sfiorato sguardo
dei molti amici poco prima
della battaglia. I giusti amori:
i cani Mario e Duilio,
soffici negli occhi più che
nel pelo, due
giovani donne che non
l’avevano amato, volate
di volo azzurro ogni volta che le
guardava: suoni delirati, un non
esserci mai per loro. E rare
folate d’incontinenza
negli inguini delle matrone, e l’onta,
e i sudori; ma
in quelle mischie d’impudicizia, azzanni
viperini, l’altra,
altissima quota delle lontane, accecanti
ali per sempre: che implacabile
sua devozione, così sparsa,
così persa.
E allora la conoscenza
e il dolore. O all’inverso la sofferenza
e il capire, e l’arrendersi, e il non
odiare. Così, imperatore deriso,
ripensò agli inganni evaporati
ai quattro capi
del mondo e alle speranze
terribili: distratti, stordite
dalla stanchezza
e dal fuoco, alle partenze,
agli arrivi d’esagerati
tragitti, senza una pazienza
o un riposo, in mezzo
a caterve d’uomini privo
d’una carezza, una parola,
una vigilanza, una cura. Ma
la foresta fu sua,
o il mare.
Suoi?
suoi come?
suoi quanto? suoi quando?
Gocce pari d’acqua oleosa.
E tutto gli cominciò intorno
a girare insieme: testa, corpo,
mondo… Che intorno
a che? Non come i molti,
folli galilei, lui
non l’avrebbe
saputo mai.
All’alba del mattino dopo – 26 o 27 giugno del 363 d.C. –, Ammiano All’alba del mattino dopo ― 26 o 27 giugno
del 363 d.C. ― Ammiano Marcellino, che aveva assistito alla morte del suo
imperatore (e che avrebbe descritta nelle sue Storie), mentre osservava l’opera paziente dei medici imbalsamatori (il
cadavere avrebbe dovuto vincere calura e distanza per essere inumato a Tarso,
in Cilicia) e cercava di ricordare le volte in cui Giuliano gli aveva detto di
sentirsi morire, quando citava sorridendo un’epigrafe funeraria sull’Appia o
chissà dove: «Sono morto mille volte, ma così mai», ne sentì la voce bussargli
piano alle tempie, mentre fuori uccelli partivano e soldati arrivavano nei
pressi della tenda a deporvi un’impronta o una lacrima, subito riarsa in quella
sabbia desertica:
Mehr Licht… Perché la
luce s’irradia
oltre l’ostacolo? Lo
fa anche il pensiero?
l’amore? l’anima?...
Io non devo
alcun pollo ad
Asclepio: devo
me, nessuno oltre
me… Je vois un port rempli de voiles et
de mâts… Non viverti,
non
t’esaltare: consider Phlebas, who
was once handsome and tall
as you: fa’ scivolare
questi
tuoi versi estremi
nel cavo della
ferita.
Poi muorine,
a loro insieme.
Per tutto il giorno, camminando piano nel campo sotto un sole
stranamente velato, mentre gli ufficiali del genio davano ordini quasi
sussurrati ai soldati che smontavano le tende, Ammiano sentì ripetersi quelle
parole, fino a impararle a memoria. Vi riconobbe Platone, ma non chi parlava in
quella, o quelle lingue strane.
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