venerdì 2 febbraio 2018

Giacomo Leopardi

LA VITA SOLITARIA (vv. 70-107)

O cara luna, al cui tranquillo raggio
danzan le lepri nelle selve; e duolsi
alla mattina il cacciator, che trova
l’orme intricate e false, e dai covili
error vario lo svia; salve, o benigna
delle notti reina. Infesto scende
il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
a deserti edifici, in su l’acciaro
del pallido ladron ch’a teso orecchio
il fragor delle rote e de’ cavalli
da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
su la tacita via; poscia improvviso
col suon dell’armi e con la rauca voce
e col funereo ceffo il core agghiaccia
al passegger, cui semivivo e nudo
lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
per le contrade cittadine il bianco
tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
va radendo le mura e la secreta
ombra seguendo, e resta, e si spaura
delle ardenti lucerne e degli aperti
balconi. Infesto alle malvage menti,
a me sempre benigno il tuo cospetto
sarà per queste piagge, ove non altro
che lieti colli e spaziosi campi
m’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
raggio accusar negli abitati lochi,
quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
veleggiar tra le nubi, o che serena
dominatrice dell’etereo campo,
questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
errar pe’ boschi e per le verdi rive,
o seder sovra l’erbe, assai contento
se core e lena a sospirar m’avanza. 


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