mercoledì 14 giugno 2023

George Gordon Byron

TENEBRA

 

 

Ho fatto un sogno non soltanto sogno.

Il sole splendente s’era spento e le stelle

vagavano al buio nello spazio eterno

senza raggio né direzione; la terra gelata

girava cieca abbuiandosi nell’aria illune;

venne mattino, passò, tornò senza recare

giorno, e gli uomini, presi dal terrore

di tanta desolazione, dimenticarono

le loro passioni, i cuori agghiacciarono

pregando in se stessi per avere luce.

Si viveva tutti intorno ai bivacchi:

troni e palazzi di re coronati, capanne

e abitazioni d’ogni genere vennero bruciate

per fare luce, intere città consumate;

gli uomini si stringevano attorno ai roghi

delle case per guardarsi ancora in faccia.

Felici coloro che dimoravano nell’occhio

dei vulcani e dei loro picchi ardenti:

un’atterrita speranza era ciò che restava

al mondo. Le foreste date al fuoco,

d’ora in ora cadendo incenerite sparivano; 

i tronchi crepitando si schiantavano

e spegnevano e tutto era nero. I volti umani

a quella luce disperante, se la fiamma

guizzando li colpiva, avevano un aspetto

spettrale. Qualcuno prostrato si copriva

gli occhi e piangeva; altri appoggiavano

il mento sulle mani giunte e sorridevano;

altri ancora correvano su e giù alimentando

i roghi funebri e folli d’inquietudine

guardavano in alto al cielo offuscato,

funebre ammanto di un mondo defunto,

quindi imprecando si gettavano in terra

urlando e digrignando i denti. Gli uccelli

rapaci stridevano atterriti e sbattendo

le inutili ali svolazzavano al suolo; le belve

più feroci diventavano docili e spaurite;

le vipere s’attorcigliavano e strisciavano

tra turbe di genti sibilando senza mordere:

le ammazzavano per cibo. La guerra,

per un poco cessata, riprese a saziarsi:

un pasto si pagava col sangue e ognuno

si saziava ingozzandosi al buio, torvo,

in disparte. Non era rimasto più amore: 

la terra era tutta un pensiero di morte,

immediata e ingloriosa; i morsi della fame

rodevano le viscere, gli uomini morivano,

ma le ossa e le carni restavano insepolte.

Magro mangiava magro, anche i cani

assalivano i padroni; tranne uno: rimasto

fedele a un cadavere tenne a bada uccelli,

bestie e uomini digiuni presi dalla fame

finché altri morti stramazzando attrassero

le scarne mascelle; lui non cercò cibo

ma con pietoso e ininterrotto lamento,

e un acuto guaito desolato, leccando

quella mano che ormai non rispondeva

con carezze, morì. Poco a poco, la folla

perì tutta di fame. Di un’immensa città

in due sopravvissero che erano nemici:

s’incontrarono accanto alle braci morenti

di un altare dove un cumulo di sacri

oggetti era ammassato per un empio uso.

Con mani scheletrite e fredde frugarono

e raccolsero ceneri fioche, con esile fiato

vi soffiarono un alito di vita destando

una fiamma beffarda e, a quel chiarore,

alzarono gli occhi per guardarsi in viso:

si videro, gettarono un grido e morirono;

l’uno morì per l’orrore visto nell’altro,

senza sapere a chi la fame aveva scritto

sulla fronte: Demonio. Il mondo era vuoto;

prima popoloso e potente, era un grumo

senza stagioni, senza erbe alberi uomini

e vita: grumo di morte, caos di dura creta.

Fiumi, laghi, l’oceano, tutti erano quieti,

e nulla si muoveva nel silenzio degli abissi.

Navi senza equipaggio marcivano in mare, 

gli alberi cadevano in pezzi, affondavano

giacendo a dormire nell’abisso senza flutti.

Le onde morte, sepolte le maree, la luna,

loro signora, già spenta, nell’aria ferma

placatisi i venti, sparite le nuvole – inutili

per essa: la Tenebra era l’Universo.

 

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto 2008

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