DOMENICO LUDOVICI
Di Domenico Ludovici, il 21 ottobre 2011 avevo pubblicato, su questo blog i tre sonetti intitolati Compianto, aggiungendo – in deroga a quanto faccio di solito – una breve nota esplicativa sull’autore, che qui non ripeto (e più sotto se ne comprenderà il perché).
Qualche giorno dopo, l’autore della poesia mandò un lungo commento a quel post. La cosa mi sorprese e incuriosì. Il perché ognuno potrà intuirlo continuando a leggere questa nota. Infatti, mi è sembrato giusto non lasciarlo solo a margine di quella vecchia pagina e dunque di riproporlo ai lettori di queste poesie. Ho solo tagliato le righe finali che molto gratificano me e la mia poesia, ma poco interesserebbero chi legge. Prima, però, ritenni di spiegare a Ludovici come, grazie a Severino Fonte, allora scomparso da poco, conobbi il suo dattiloscritto.
Severino, fra le molte cose cui si dedicava, era consulente e lettore per una piccola casa editrice e in quella veste, diversi anni fa, ebbe tra le mani il dattiloscritto del libro di Ludovici, Sonetti del nostro adulterio. Ecco quel che mi scrisse, spedendomi il dattiloscritto: «Domenico Ludovici è uno pseudonimo. Era il nome di un erudito gesuita d’inizio Settecento (mai sentito? pare fosse un tuo compaesano), del quale si può leggere ne Le vite degli illustri aquilani di Alfonso Dragonetti; scrisse anche carmi in latino a imitazione di Tibullo, nei quali però, commenta Dragonetti, “indarno vi cercherete la dolce anima e l’ardente affetto del cantore di Delia”). Nessuno conosce la sua vera identità. L’editore è convinto che sia uno stimato professionista (avvocato? notaio?) operante fra L’Aquila e Roma. Il mio parere è stato favorevole alla pubblicazione (suggerendo solo di modificare il titolo), nonostante il linguaggio piuttosto spinto, quasi al limite della pornografia, se non fosse riscattato dalla delicatezza del tono e dalla sincerità della passione; ma l’editore all’ultimo momento ha avuto paura. Leggi un po’ tu e dimmi che ne pensi. P.S.: ho cercato di rintracciare l’autore, scrivendo alla casella postale che c’era sul dattiloscritto, ma la lettera m’è tornata indietro».
Lessi, e restai un po’ sconcertato anch’io dalla crudezza del linguaggio, ma anche affascinato, perché le poesie mi sembrarono delicate, addirittura tenere e forse anche ingenue, a momenti. Glielo scrissi e la cosa finì lì.
Dopo la sua scomparsa, quel dattiloscritto mi è tornato tra le mani e l’ho riletto. Rimuginando sulla stranezza della vicenda, ho cominciato a chiedermi se non fosse possibile che sotto lo pseudonimo di Domenico Ludovici si celasse il mio amico stesso; cosa davvero sorprendente, perché – non l’ho ancora detto – Severino Fonte era un sacerdote, ma troppe erano le coincidenze: lo pseudonimo, lo strano riferimento al gesuita del Sei-Settecento venuto fuori non si sa come, la casella postale non più attiva... Comunque, decisi di scegliere una poesia e di pubblicarla, come omaggio al mio amico. Il libro, come dice il titolo, è un breve canzoniere d’amore (rifacimento novecentesco di un qualunque petrarchista del Cinquecento, o moderno e più attuale riferimento ai bei sonetti di Berryman?) su un adulterio e termina con la morte prematura della donna che lo ispirò. Evitando le poesie più esplicite, scelsi l’ultima, un Compianto sulla scomparsa della donna, e la misi sul blog. Aggiunsi una nota che riproduceva quasi alla lettera il biglietto del mio amico, precisando che pubblicavo senza l’autorizzazione dell’autore perché impossibilitato a contattarlo.
Questa è la storia. Immaginatevi la mia sorpresa leggendo il commento al post. In un colpo solo scoprivo che Severino aveva torto a pensare – chissà? forse immaginando che l’autore non si sarebbe esposto a un riconoscimento, data la materia – che Domenico Ludovici fosse uno pseudonimo, che perciò quel gesuita non c’entrava niente; e che avevo torto anch’io a credere la storia una bella invenzione dello stesso Severino. Ma ecco ora il commento di Ludovici (al quale credo di non dover aggiungere altro).
«Solo da poco, per una serie di (fortunate) circostanze, ho scoperto l’esistenza di questo blog e del particolare che una mia poesia vi era pubblicata. Ho letto divertito la nota che l’accompagna. Divertito perché essa, almeno per la prima metà, è assolutamente priva di fondamento. Tuttavia, essendo stata scritta assolutamente in buona fede, merita una spiegazione.
La convinzione del curatore del blog che il mio nome, Domenico Ludovici, sia uno pseudonimo, si deve – in assoluta buona fede, ma non senza supponenza – a Severino Fonte. Immagino che nascesse dal fatto che, nelle poche righe con le quali accompagnavo il dattiloscritto dei miei Sonetti del nostro adulterio (titolo che ritenevo assolutamente provvisorio e che è diventato – ma non so se migliorando o peggiorando – Dell’amore, del sesso, della morte), ormai più di venti anni fa, manifestavo l’intenzione di pubblicarlo sotto pseudonimo, per preservare la privacy dei protagonisti (cosa ormai non più necessaria). Firmavo, però, col mio vero nome. Evidentemente, Fonte e l’editore stesso fraintesero, pensando che quello fosse già lo pseudonimo. Nessuno dei due credette necessario accertare quell’identità (sarebbe bastato davvero poco: vivo all’Aquila da sempre – ma sarebbe più giusto dire: vivevo, perché il terremoto mi ha lasciato ormai senza casa e senza le cose che vi erano raccolte; prime fra tutte, i libri – esercitando, ancora per poco, l’avvocatura e occupandomi sporadicamente di politica); quando poi la pubblicazione fu rifiutata, la cosa divenne superflua. Ma Severino Fonte si ricordò di quel gesuita d’inizio Settecento (invero, un antenato della mia famiglia) e, sembrandogli d’aver scoperto l’origine dello pseudonimo, ne informò Francesco Dalessandro inviandogli il dattiloscritto, stimato degno di lettura. Questo lo scopro ora, perché, per la verità, avevo sempre creduto che la bocciatura fosse dovuta anche a lui (oltre che letterato acuto e attento, il Fonte era prima di tutto un sacerdote), mentre fu solo l’editore (adesso è certo) a ritrarsi spaventato. Sebbene troppo in ritardo perché possa riceverle, porgo al Fonte le mie scuse, lusingato che ritenesse il libro degna opera di poesia, e ancor più lusingato che lo stesso giudizio sia stato espresso, implicitamente, da Dalessandro, che ringrazio».
Domenico Ludovici
Da parte mia, non credo di dover aggiungere altro, se non che ho deciso di pubblicare, durante questa settimana, tutto il canzoniere di Ludovici - che, nel frattempo, è diventato un buon amico, superando ogni remora d'ordine morale, di pudore o altro.
DOPO
LA
SECONDA VOLTA
I
– Tu
ah
la seconda volta! anch’io, che credi?
aspettavo
impaziente di vederti
uscire
dalla curva e stavo in piedi
vicino
alla finestra: avevo certi
pensieri
e desideri! be’ ero in credito
con
la fortuna no? voglio tenerti
dentro
pensavo… perciò non ti vidi
arrivare
e saltai quando suonasti
al
citofono corsi aprii la porta
t’aspettai
sulle scale già tremavo
di
desiderio già m’ero bagnata
tutta
là sotto e mentre t’abbracciavo
stretto
pensai che così abbandonata
tra
le tue braccia forse ero già morta
di
piacere senza essermene accorta
II
– Io
e
io? ci credi? per tutto il tragitto
bloccato
in mezzo al traffico impaziente
d’arrivare
guidavo a cazzo dritto
immaginando
che nuda e fremente
di
desiderio m’aspettassi a letto
ma
i minuti passavano accidenti
e
l’ansia m’uccideva il cuore in petto
mi
scoppiava alle sette meno venti
parcheggiai
sotto casa e alzando gli occhi
ti
vidi alla finestra corsi feci
le
scale due alla volta entrai ti strinsi…
così
mi ritrovai tra i tuoi ginocchi
alzati:
so che appena te lo spinsi
dentro
morimmo insieme come pesci
presi
all’amo straziati ma felici
del
fiore rosso sangue che ho potato
solo
ieri se i petali hai paura
che
cadano baciandoli e bagnato
porgi
alle labbra il calice maturo
di
rosse labbra dove alito un fiato
caldo
di desiderio ardo e non duro
nel
deliquio in un ansimo sfinito
e
mi perdo e mi brucio nel tuo sangue
acceso
come il fuoco di un’esangue
notte
che dolcemente si smarrisce
con
noi nel sonno e come noi patisce
furia
e delirio ma si esala e muore
nel
miele caldo che ti cola fuori
SOGNO
I
pargoletta
mia cara t’ho sognata
che
vestita di niente eri distesa
sopra
un lenzuolo bianco abbandonata
alle
carezze e ai miei baci arresa
a
occhi chiusi tremavi conquistata
dal
piacere e in silenzio nell’attesa
della
mia lingua su di te eccitata
ti
aprivi al desiderio e viva accesa
eri
pronta ad offrirti come esca
succosa
alla mia bocca e ai miei denti
affilati
eri pronta al sacrificio
gaudioso
della morte che dai sensi
eccitati
si scioglie nel deliquio
e
con la sua dolcezza manifesta
per
te il tormento e l’estasi
II
la
lingua guizza tra le labbra lesta
lesta
e s’apre una via nel caldo sale
e
nel languore d’umido la cresta
rossa
la bocca la mia lingua assale
eccola
amore è questa è questa è questa
la
ferita che amo e mi è fatale…
«sii
delicato fallo senza fretta
e
con dolcezza oh mi fa quasi male
il
piacere amor mio ma com’è bello
sentire
la tua lingua ma ora vieni
sali
abbracciami forte ora sui seni
baciami
adesso oh sì voglio sentirlo
dentro
lo voglio senti? senti il fuoco
là
al fondo? non fermarti! a poco a poco
fammi
morire tienimi!»
ANNIVERSARIO
I
era
la sera di un anniversario
felice
per noi due in un tardo aprile
ancora
freddo e non primaverile
guidavo
in mezzo al traffico nel vario-
pinto
alternarsi delle luci file
d’auto
e di moto lungo la Salaria
si
muovevano lente e c’era un’aria
purgatoriale
ma dentro gentile
il
tuo sorriso mi faceva bene
dopo
due mesi senza che t’avessi
più
vista ti dicevo: «se sapessi
quanto
mi sei mancata! chi mi tiene
dal
mangiarti di baci qui e adesso?
e
tu? di’, ma per te…» «per me è lo stesso»
guardandomi
«lo sai, ti voglio bene»
II
«ti
ricordi? era oggi…» rispondesti:
«oh
bene…» «hai mai rimpianto il tuo rifiuto?»
«è
che avevo paura» sorridesti
imbarazzata
«solo quello è stato
il
mio rimorso ma allora ho pensato
ch’era
un bene per tutti» «ora vorresti
farmi
credere» dissi «che hai voluto
salvare
capra e cavoli? facesti
la
tua scelta non credo la più giusta
e
l’ho pagata cara…» «anch’io, che credi?
in
questi anni mi sono spesso chiesta
che
sarebbe accaduto e se sarei
stata
felice… ho rinunciato vedi
a
chiedermelo ancora ma vorrei
tornare
indietro – chissà? rifarei…»
III
«la
stessa scelta? ma ora cosa importa?
tornare
indietro non si può ma sei
ancora
in tempo per…» fissavi assorta
la
strada e le sue luci «dove sei?»
chiesi
stringendo la tua mano «persa
nei
miei ricordi…» «nostri» aggiunsi «bei
momenti
o no?» ti chiesi «ero diversa
oggi
ti piaccio ancora? non vorrei
che
dicessi di amarmi e di volermi
ancora
solo per tenere il punto
sono
così cambiata!» «sei più bella
di
prima» sussurrai, eravamo fermi
già
sotto casa tua «lo vedi? appunto
per
questo ho tanti dubbi perché quella
che
vedi in me non sono io, confermi…»
IV
«che
ho voglia di baciarti di toccare
il
tuo corpo di stringermelo addosso
nudo
e fremente come allora, posso
farlo
o vogliamo, anzi vuoi continuare
il
gioco dei vorrei però non posso?
quel
che è stato non conta, non ti pare
venuta
l’ora di…» (m’ero commosso
la
voce mi tremò tacqui) «di fare
una
scelta» finisti tu la frase
«sì
una scelta» anch’io dissi «forse siamo
maturi,
no?» «va bene, e che facciamo?»
domandasti
polemica «due case
e
due famiglie due modi diversi
di
amare siamo soli come pensi
perciò
che cambierebbero le cose?»
V
«forse
non cambierebbero ma è tardi
per
avere altri scrupoli, non credi?»
e
tu «hai ragione, basta coi riguardi
verso
tutti…» accostandomi ti diedi
un
bacio fra i capelli «è ora che guardi
un
po’ a me stessa a noi…» tu continuasti
e
poi «perché non sali? se ritardi
ti
fa storie? che pensi?» domandasti
trepida
«Manu è fuori con amici
e
non torna che a cena, sali?» «credi
che
potrei dirti no?» risposi aprendo
lo
sportello dell’auto e sorridendo
salimmo
in casa, nell’ingresso in piedi
già
le mani cercavano felici
i
tesori nascosti nei vestiti
VI
eccolo
il corpo amato tanto atteso
eccolo
vivo nudo innamorato
eccolo
bianco timido disteso
eccolo
silenzioso abbandonato
eccolo
il corpo bello offrirsi arreso
alle
mie mani al tocco delicato
delle
dita tremante eccolo acceso
di
desiderio eccolo preparato
eccolo
il tuo bel corpo che pudica-
mente
m’invita (chiudi gli occhi offrendoti
alle
carezze e ai baci che t’accendono
il
sangue) eccolo aprirsi (sulla fica
già
umida la lingua guizza lesta
e
sente il fuoco che ti brucia «presto,
fa’
presto, amore, vieni!» la tua supplica).
VII
«sì
non ti lascio più» farfuglio, bacio
e
lecco le tue labbra accese gonfie
di
piacere intensissimo ora taci
e
sospiri già arresa mentre compie
un
breve viaggio la tua mano e aperta
mi
tocca il fianco poi senza imbarazzo
scivola
sul mio ventre e tocca il cazzo
duro
lo stringe lo trattiene incerta
carezzandolo
in punta allora m’alzo
e
mi dispongo fra le cosce bianche
che
tu aperte sollevi alzi i ginocchi
«ah…»
guardandomi languida negli occhi
sospiri
«ti amo tanto voglio…» «anche
io»
t’interrompo e «non sarò mai sazio
di
te prendi…» e tenendoti sulle anche
VIII
ti
trafiggo deciso fino in fondo
e
tu ansimando rantoli «così
così
amore lo voglio ecco così
ora
ti prego non fermarti…» affondo
in
un vortice languido e profondo
di
piacere intensissimo «ah così
così»
m’inciti «amore amore sì
lo
sento tutto tutto…» sono pronto
«ah
com’è bello come… non fermarti
più
sto venendo sì lo senti? batti
ancora
vieni insieme a me anche tu
anche
tu…» la tua voce affievolita
si
spegne piano mentre con le dita
mi
tieni sulle natiche e più giù
sentendo
ora i miei spasimi contratti
COMPLEANNO
I
tu
mi dici «che ho un figlio e anche due cani
a
carico lo sai ma se n’è andata
ormai
la gioventù sono invecchiata
presto,
mi vedo brutta, che domani
sarà
il mio? sono stanca più svogliata
e
abulica nel fine settimana
che
nei giorni feriali sono strana-
mente
intontita sono anche ingrassata
troppo
(divoro tutto ho sempre fame:
sostituisco
il sesso con il pane?),
fra
un po’ sarò rotonda: come fai
a
provare per me per il mio corpo
ancora
certe voglie? sono un rospo
e
neanche tu baciandomi potrai
ritrasformarmi
in principessa, dài!»
II
«non
è vero» rispondo «anche rotonda
voglio
tenerti nuda tra le braccia
chinarmi
su di te sulla tua faccia
che
sorride felice mentre affonda
il
tuo corpo nel vortice amoroso
del
piacere, piegarmi sui tuoi seni
e
succhiarne il capezzolo succoso
e
duro mentre tu sospiri: vieni
vieni
amore ti voglio! ecco! già sono
arrivato
al tuo centro sul tuo ventre
la
lingua traccia scie di caldo umore
e
scende scende dentro dove prono
gusto
il miele copioso il suo sapore…
poi
t’apri tutta alzi i ginocchi mentre
io
mi sollevo e te lo metto dentro»
III
«ah
ma che dici!» esclami «dove trovi
in
me tante attrattive? non tentarmi!
ma
che ci fai con me? ma perché provi
a
illudermi che puoi ancora amarmi?»
«ma
è vero ti amo» io ti rispondo «covi
sempre
pensieri tristi che vuoi farmi
credere?
che per me invece non provi
amore
e desiderio e vuoi lasciarmi?»
«ah
non vorrei che tu mi amassi! cosa
riesco
a darti di me? se però penso
che
non mi vuoi e non sento il desiderio
quando
mi tocchi…» «oh zitta non ha senso
quello
che stai dicendo! ma sul serio
credi
che sarei qui, se no, scontrosa
come
sei? ridi su, voglio la…» «cosa?
IV
cosa?»
(ecco brava scherza se sorridi
felice
sei più bella) «voglio l’erba
scura
cresciuta sul tuo ventre… ferma!
lasciamela
toccare, non ti fidi
di
me? voglio sentirne la dolcezza
nasconderci
le dita e lentamente
oh
sì pian piano molto cautamente
lasciare
ch’esse sentano l’ebbrezza
della
tua carne e affondino decise
tra
le labbra bagnate, voglio darti
brividi
di piacere, voglio farti
ansimare
d’amore e poi paziente
scivolare
là in basso e con sapiente
carezza
della lingua dalle intrise
labbra
succhiare il miele che mi uccide…»
V
«e
vuoi farlo qui in macchina? ah ma dài
qui
ci vedono tutti non è meglio
se
andiamo a casa? oh amore là potrai
farmi
quello che vuoi sì anch’io lo voglio
lo
desidero anch’io che credi? sbagli
se
ne dubiti andiamo sarà uscito
con
la ragazza ma vuoi che mi spogli
davanti
a tutti? ah ti prego quel dito
mi
fa morire andiamo non resisto
più
voglio averti voglio che mi prendi
come
la prima volta voglio questo
tuo…
duro oh così duro… ma lo senti
quello
che dico? amore amore lesto!
lo
capisci? straparlo! stringi i denti
e
andiamo a casa muoviti fa’ presto!»
VI
ah
dio com’è difficile aspettare
di
poterti toccare come e dove
voglio
come ti piace senza dare
scandalo
per la strada! quanti? nove
dieci
scalini appena alla tua porta?
mi
sembra una scalata senza fine
poi
finalmente vieni non m’importa
più
niente ora ti stringo ti apri tieni
«ah»
sospiri «ma tu… oh ma tu… non dici
niente
ma mi desideri?» «lo senti
non
lo senti?» – veniamo poi contenti
ci
abbracciamo in silenzio siamo stanchi
ti
bacio gli occhi t’accarezzo i fianchi
mi
guardi «se è per essere felici
così,
va bene anche soffrire» dici.
che stupido! se è
vero – adesso che
oltre i rimorsi
restano rimpianti –
che non sei più
con me saremo amanti
solo davvero
sulla carta e ne
tremo ma basta
ancora meno, né
invoco più i
ricordi a darmi pace
no perché fanno
male un male atroce
ah e non so
andare avanti come se
sperassi… cosa?
mi manchi e vorrei
che udissi quando
grido: dove sei
amore mio
perduto? e la tua carne
più viva si
svegliasse pur corrotta
o diventata
polvere: sei morta?
ma resti viva in
me: non posso farne
a meno: vorrei
essere con te!
I
vorrei
essere pietra, pietra bianca,
la
pietra della tomba che ti chiude,
la
pietra nera che oramai t’affranca
da
pene e da fatiche, da salute
e
malattia, da povertà e ricchezza,
da
una vita infelice, da ogni amaro
suo
giorno disperato, dall’asprezza
di
notti solitarie e senza amore;
vorrei
essere terra, terra scura,
la
terra che t’avvolge e ti preserva
per
sempre da dolore e da paura,
la
terra bianca che oramai consuma
la
carne amata e se ne nutre e serba
il
tuo fresco respiro e ne profuma
come
intorno alla pietra l’aria e l’erba
II
invece
sono – ancora – carne stanca,
capelli
bianchi, ventre pingue, cute
macchiata
e palliduccia, ovvero manca
colore
e fuoco alla mia vita, nude
e
insonni le mie notti, con la sciatica
che
mi tormenta e con il mal di schiena,
soffro
per la tua assenza e disperati
cadono
i giorni, smagrisce la vena
dei
versi che ti dedico, si sfianca
anche
la musa, amore mio, si stanca
a
cercare una rima e per l’acuta
volontà
di non crederti perduta
per
sempre e di non piangerti s’impicca
al
dolore che provo e che conficca
aculei
di veleno nei precordi
ché
soffrano e non restino mai sordi
III
al
richiamo del volto ormai svanito
nella
nebbia confusa della morte,
allo
sguardo dolente e divertito
che
nel ricordo mi reca conforto,
alla
tua voce debole che il sonno
fa
giungere attutita dal profondo
della
coscienza, che però mi parla
chiara
di te e di me, se l’ascoltarla
non
risvegliasse il brivido reale
che
suscita l’assenza e non tremassi
sgomento
nel silenzio della notte,
se
insieme alla presenza tua ideale
vivo
il tuo corpo non desiderassi
stringere
tra le braccia e in una morte
più
piccola e violenta scivolare,
e
perdermi ormai morto nella vita
che
insieme a te io non ho mai vissuta