lunedì 21 luglio 2025

Domenico Ludovici

Di Domenico Ludovici, il 21 ottobre 2011 avevo pubblicato, su questo blog  i tre sonetti intitolati Compianto, aggiungendo – in deroga a quanto faccio di solito – una breve nota esplicativa sull’autore, che qui non ripeto (e più sotto se ne comprenderà il perché).

        Qualche giorno dopo, l’autore della poesia mandò un lungo commento a quel post. La cosa mi sorprese e incuriosì. Il perché ognuno potrà intuirlo continuando a leggere questa nota. Infatti, mi è sembrato giusto non lasciarlo solo a margine di quella vecchia pagina e dunque di riproporlo ai lettori di queste poesie. Ho solo tagliato le righe finali che molto gratificano me e la mia poesia, ma poco interesserebbero chi legge. Prima, però, ritenni di spiegare a Ludovici come, grazie a Severino Fonte, allora scomparso da poco, conobbi il suo dattiloscritto. 

        Severino, fra le molte cose cui si dedicava, era consulente e lettore per una piccola casa editrice e in quella veste, diversi anni fa, ebbe tra le mani il dattiloscritto del libro di Ludovici, Sonetti del nostro adulterio. Ecco quel che mi scrisse, spedendomi il dattiloscritto: «Domenico Ludovici è uno pseudonimo. Era il nome di un erudito gesuita d’inizio Settecento (mai sentito? pare fosse un tuo compaesano), del quale si può leggere ne Le vite degli illustri aquilani di Alfonso Dragonetti; scrisse anche carmi in latino a imitazione di Tibullo, nei quali però, commenta Dragonetti, “indarno vi cercherete la dolce anima e l’ardente affetto del cantore di Delia”). Nessuno conosce la sua vera identità. L’editore è convinto che sia uno stimato professionista (avvocato? notaio?) operante fra L’Aquila e Roma. Il mio parere è stato favorevole alla pubblicazione (suggerendo solo di modificare il titolo), nonostante il linguaggio piuttosto spinto, quasi al limite della pornografia, se non fosse riscattato dalla delicatezza del tono e dalla sincerità della passione; ma l’editore all’ultimo momento ha avuto paura. Leggi un po’ tu e dimmi che ne pensi. P.S.: ho cercato di rintracciare l’autore, scrivendo alla casella postale che c’era sul dattiloscritto, ma la lettera m’è tornata indietro».

     Lessi, e restai un po’ sconcertato anch’io dalla crudezza del linguaggio, ma anche affascinato, perché le poesie mi sembrarono delicate, addirittura tenere e forse anche ingenue, a momenti. Glielo scrissi e la cosa finì lì.

     Dopo la sua scomparsa, quel dattiloscritto mi è tornato tra le mani e l’ho riletto. Rimuginando sulla stranezza della vicenda, ho cominciato a chiedermi se non fosse possibile che sotto lo pseudonimo di Domenico Ludovici si celasse il mio amico stesso; cosa davvero sorprendente, perché – non l’ho ancora detto – Severino Fonte era un sacerdote, ma troppe erano le coincidenze: lo pseudonimo, lo strano riferimento al gesuita del Sei-Settecento venuto fuori non si sa come, la casella postale non più attiva... Comunque, decisi di scegliere una poesia e di pubblicarla, come omaggio al mio amico. Il libro, come dice il titolo, è un breve canzoniere d’amore (rifacimento novecentesco di un qualunque petrarchista del Cinquecento, o moderno e più attuale riferimento ai bei sonetti di Berryman?) su un adulterio e termina con la morte prematura della donna che lo ispirò. Evitando le poesie più esplicite, scelsi l’ultima, un Compianto sulla scomparsa della donna, e la misi sul blog. Aggiunsi una nota che riproduceva quasi alla lettera il biglietto del mio amico, precisando che pubblicavo senza l’autorizzazione dell’autore perché impossibilitato a contattarlo.  

    Questa è la storia. Immaginatevi la mia sorpresa leggendo il commento al post. In un colpo solo scoprivo che Severino aveva torto a pensare – chissà? forse immaginando che l’autore non si sarebbe esposto a un riconoscimento, data la materia – che Domenico Ludovici fosse uno pseudonimo, che perciò quel gesuita non c’entrava niente; e che avevo torto anch’io a credere la storia una bella invenzione dello stesso Severino. Ma ecco ora il commento di Ludovici (al quale credo di non dover aggiungere altro).

 

    «Solo da poco, per una serie di (fortunate) circostanze, ho scoperto l’esistenza di questo blog e del particolare che una mia poesia vi era pubblicata. Ho letto divertito la nota che l’accompagna. Divertito perché essa, almeno per la prima metà, è assolutamente priva di fondamento. Tuttavia, essendo stata scritta assolutamente in buona fede, merita una spiegazione.

   La convinzione del curatore del blog che il mio nome, Domenico Ludovici, sia uno pseudonimo, si deve – in assoluta buona fede, ma non senza supponenza – a Severino Fonte. Immagino che nascesse dal fatto che, nelle poche righe con le quali accompagnavo il dattiloscritto dei miei Sonetti del nostro adulterio (titolo che ritenevo assolutamente provvisorio e che è diventato – ma non so se migliorando o peggiorando – Dell’amore, del sesso, della morte), ormai più di venti anni fa, manifestavo l’intenzione di pubblicarlo sotto pseudonimo, per preservare la privacy dei protagonisti (cosa ormai non più necessaria). Firmavo, però, col mio vero nome. Evidentemente, Fonte e l’editore stesso fraintesero, pensando che quello fosse già lo pseudonimo. Nessuno dei due credette necessario accertare quell’identità (sarebbe bastato davvero poco: vivo all’Aquila da sempre – ma sarebbe più giusto dire: vivevo, perché il terremoto mi ha lasciato ormai senza casa e senza le cose che vi erano raccolte; prime fra tutte, i libri – esercitando, ancora per poco, l’avvocatura e occupandomi sporadicamente di politica); quando poi la pubblicazione fu rifiutata, la cosa divenne superflua. Ma Severino Fonte si ricordò di quel gesuita d’inizio Settecento (invero, un antenato della mia famiglia) e, sembrandogli d’aver scoperto l’origine dello pseudonimo, ne informò Francesco Dalessandro inviandogli il dattiloscritto, stimato degno di lettura. Questo lo scopro ora, perché, per la verità, avevo sempre creduto che la bocciatura fosse dovuta anche a lui (oltre che letterato acuto e attento, il Fonte era prima di tutto un sacerdote), mentre fu solo l’editore (adesso è certo) a ritrarsi spaventato. Sebbene troppo in ritardo perché possa riceverle, porgo al Fonte le mie scuse, lusingato che ritenesse il libro degna opera di poesia, e ancor più lusingato che lo stesso giudizio sia stato espresso, implicitamente, da Dalessandro, che ringrazio».

                                                                                                                                        Domenico Ludovici

     Da parte mia, non credo di dover aggiungere altro, se non che ho deciso di pubblicare, durante questa settimana, tutto il canzoniere di Ludovici - che, nel frattempo, è diventato un buon amico, superando ogni remora d'ordine morale, di pudore o altro.


        DELL’AMORE, DEL SESSO, DELLA MORTE


PRIMA

                                                            Tanto so d’esser vivo,

                                   quanto di voi ragiono, penso o scrivo;

                                   ma non ponno aiutarmi

                                   pensier, parole, o carmi,

                                   sì ch’io non pera nel cospetto vostro,

                                   e non divenga in me cieca la mente,

                                   muta la lingua, inutile l’inchiostro.

                                   Così vivo lontan, moro presente

                                   tormento inaudito,

                                   et in me sete voi fine infinito

                                   di speranze, di pianto e di querele,

                                   spirto omicida, anima mia crudele.

 

                                   Giovan Battista Leoni (1542? – 1613?)



 A MODO MIO

 

 I

 

Tu sei la musa di questi sonetti

che in corona ti dedico perché

come le altre poesie scritte per te

tu li ispiri e li scaldi e poi li detti

 

ai sensi e alla mia mente innamorata

in essi di diverso ci sarà

solo il modo di dirlo perché avrà

sapori forti perciò – abbandonata

 

la vergogna (anche tu che leggerai

dovrai farlo) – userò parole crude

ma dette con amore caste e nude

 

tu, leggendole (sola, arrossirai?),

che sono oneste e serie capirai

dolci e carnali come il desiderio

 

II

 

parole fresche semplici e dirette

native di parlata popolare

e, credimi, senza essere volgare

con esse chiamerò le cosiddette

 

intimità userò un linguaggio nudo

e crudo (altri poeti per pudore

ne hanno paura come se l’amore

carnale fosse vergognoso e impuro)

 

perciò amore se scrivo: «ho la tua fica

bagnata e dolce sulla bocca e

ne sento il gusto di miele e mollica»

 

accettalo e sii lieta di sentire

un brivido nell’intimo perché

io con quelle parole voglio dire

 

com’è feroce il desiderio che

provo al solo pensarmi insieme a te

 

III

 

esercito (o esorcizzo?) il desiderio

sognandoti così tra le mie braccia

nuda e fremente mentre giù ti bacio

e tu ti pieghi languida ai voleri

 

del piacere? ah ma certo amore se

i versi resteranno solo mie

speranze e per te semplici bugie

lette in modo distratto dopo che

 

avremo chiacchierato di lavoro

tornando a casa e t’avrò forse stretta

la mano o forse sfiorato in fretta

 

il ginocchio e la coscia (per me oro

è quel piccolo gesto che trascuri

ma la smania così diventa furia)

 

perché sai bene che pensieri e sogni

se di essi non ti curi

non sazieranno mai i nostri bisogni

 

IL CASTIGO

I

 

se quella prima volta che t’ho avuta

(nel computo non metto la seconda

della quale ricordo l’ansia aggiunta

all’ansia del raggiungerti – ricordalo

 

anche tu – l’aspettarti a letto teso

il mio piegarmi su te nuda quando

mi scivolasti accanto e poi me sceso

a baciarti là sotto nel profondo

 

sulle tue labbra rosa già dischiuse –

pronte per me venuto per morirci

ah troppo presto – e nell’amore dirci

 

io «amore ti desidero» tu «quanto?

dimmelo quanto?» e rispondendo «tanto»

scoppiarono vertigini improvvise…

 

poi delusi aspettammo che l’assalto

si spegnesse e morisse nel rimpianto)

 

II

 

se quella prima volta che t’ho amata

nella carne (due ore dopo tanti

anni di desiderio) e tu sei stata

felice come me se dopo affanni

 

e rimpianti (rimorsi non ne ho avuti

mai se non quello d’averti perduta

subito) e dopo tanti anni passati

a sperare se dopo averti avuta

 

io oggi rinunciassi anche a volerti

tenere nuda ancora tra le braccia

o rinunciassi a baciarti a sentirti

 

tremare di piacere e a sussurrarti

l’amore mentre la mia lingua traccia

scie sopra la tua pelle e posso darti

 

il piacere che so e guardarti in faccia

con te venire e morire e aspettarti

 

III

 

se quella prima volta m’hai voluto

anche tu fino al vortice profondo

del morire nel tempo che perduto

cuore e discernimento si va a fondo

 

e si smarrisce la ragione credi

davvero che mi basti e che dovrei

accontentarmi per la vita? chiedi

davvero questo? ma come potrei

 

farmene una ragione? che mi basti

per il resto dei giorni quella sola

volta dopo tanti anni che mi desti

 

tutta te stessa e la più piena gioia

non sperarlo perché non mi consola

solo sognarti e rivedere i tuoi

 

occhi schiusi al piacere, sì alla noia

te lo ripeterò: ti voglio ancora…


LA PRIMA VOLTA

I

 

dopo quella mattina con la rosa

(prima: «salvata dal 63»)

ed una settimana di amorosa

comunione e di sguardi dopo le

 

carezzine veloci con la scusa

di darti la tazzina del caffè

o camminarmi al fianco timorosa

che qualcuno capisse chissà che

 

ecco venuta l’ora tanto attesa:

busso alla porta e pieno d’ansia aspetto

apri e m’abbracci finalmente arresa

 

sul divano ti stringo non resisto

più, mi baci ti tocco andiamo a letto?

prima vai in bagno poi ti spogli assisto

 

eretto

 

II

 

ah che ore amore! due volte mi sono

piegato tra le cosce per leccarti

la fica, sì, la prima con sofferta

pazienza e perizia: guizza piano

 

la lingua sulle labbra già bagnate

sulla crestina duretta eccitata,

mentre ti lecco con un dito cauta-

mente t’esploro: tu già pronta a darti;

 

la seconda veloce perché ho fretta

di prenderti: mi chino e la mia lingua

guizzando sulla fica apre la stretta

 

delle tue labbra dov’è più languida

la carne e tu già pronta e all’erta

t’offri ansante così giacendo esangue

 

aperta

 

III

 

eretto dentro la calda fessura

aperta sono entrato dopo averla

leccata e così amore ogni paura

è svanita ho pensato «com’è bella»

 

e mi son detto «vorrei tanto farla

felice» e ho sospirato «se mi amassi»

però non hai sentito: eri già nella

piccola morte, ma fa’ che non passi

 

l’affanno dolce del tuo cuore resta

tra le mie braccia cura la mia smania

mentre parliamo ce l’ho ancora duro

 

mi desideri prendilo ma questa

voglia non mi dà pace già le mani

ti toccano ti tengo… ah se il futuro

 

terminasse già qui senza l’oscuro

domani

  

IL POEMA DEL DESIDERIO


I

su quella prima volta ho scritto tanto

(sulla seconda c’è poco da dire

se non che in quei minuti per venire

uccisi il tempo): non ti chiedo quanto

 

ricordi tu dell’ora e se il suo incanto

è vivo in te però riesci a capire

il desiderio acceso in me di unire

la mia carne alla tua di starti accanto

 

e tenendoti nuda tra le braccia

scriverti con la lingua sulla schiena

dalle spalle alla vita il gran poema

 

del desiderio e seguendo la traccia

del solco tra le natiche baciarti

su quelle labbra rosa poi leccarti

 

e assaporare in bocca quel tuo frutto

umido caldo e aperto mentre trema?

 

II

baciarti ogni centimetro di pelle

dal lobo dell’orecchio fino ai piedi

e dall’unghia dell’alluce, che credi?

risalire alla curva delle ascelle

 

la lingua poi sulle punte gemelle

dei tuoi seni assetata di dolcezza

scivolerebbe mentre la carezza

delle mie dita tra le cosce snelle

 

si fa leggera e trepida pian piano

diventa più decisa e si permette

di premere ed aprire le tue strette

 

labbra finché alla lingua la mano

farà posto e guizzando sulla punta

di carne viva che tra loro spunta

 

sentirà la tua schiena che si flette:

ma così ancora non mi sazierei

 

III

e così neanche tu saresti ancora

sazia lo so ma la mia lingua ghiotta

dell’aspro miele che sapiente smotta

e lecca tra le labbra eccola ora

 

aprire con dolcezza la tua strada

al desiderio verso quel tuo centro

che aspetta di sentirmi entrare dentro

nella tua carne languida e bagnata

 

dove mi muoverò dapprima lento

deciso poi veloce senza tempo

e tu ansimante amore «non fermarti»

 

sussurrami e saprò che sarai pronta

a ricevermi giù nella profonda

calda dolcezza e alzato per guardarti

 

accogliermi cadrò nella tua notte

e mi ci muoverò fino alla morte



LA DOCCIA

 

I

 quando tua madre ha detto «sta facendo

la doccia» m’è venuto in mente Giove

che trasformato in pioggia d’oro piove

su Danae e la possiede ma salendo

 

a tempi più vicini trasvolando

millenni di realtà e di desideri

mi sono ricordato alcuni versi

di una bella canzone e canticchiando

 

«vorrei essere l’acqua della doccia

che fai» ho immaginato di colarti

sui capelli sul viso sulle braccia

 

di scivolare dalle spalle ai seni

e di scendere lento – fino a darti

un brivido – sul ventre e sulle reni

 

II

 avvolgendoti tutta ho sospirato

di scenderti impaziente sulle anche

aguzze e brune sulle membra stanche

da me rigenerate ed arrivato

 

nell’incavo delle tue cosce bianche

penetrare freschissimo nel fuoco

della tua fica, amore, e a poco a poco

evaporare goccia a goccia «anche

 

se vuol dire morirne avrò raggiunto

lo scopo della vita: morirò

senza rimpianti» mi son detto giunto

 

a quella conclusione – ma anche altro

dopo l’acqua ho capito che potrò

essere per avvolgenti: cos’altro?

 

III

 sarò l’accappatoio che ti avvolge

soffice la sua spugna colorata

morbido stringerò la carne amata

e asciugandola forse certe voglie

 

appagherò perché ti terrò stretta

sui seni e intorno ai fianchi sulle spalle

forti sulle anche aguzze sulla pelle

sentirò la tua febbre: schiena eretta

 

gambe robuste braccia forti ventre

languido t’avrò tutta finché quando

mi lascerai per terra indifferente

 

sarò il lenzuolo che stropiccerai

dormendo inquieta o forse rigirandoti

insonne e insoddisfatta perché avrai

 

voglia di me che dormirò sognandoti

 

 

SPERANZE?

 

I

 ma se quello che ho scritto fino adesso

restasse solo una vaga speranza

d’amore un desiderio che a distanza

lusingasse la tua voglia di sesso

 

però non diventasse mai possesso

vero dei corpi stretti nell’affanno

del prendersi e del darsi senza inganno

e pudicizia t’amerei lo stesso:

 

non t’amerei di più – perché non sono

un asceta e mi piace anche il furioso

desiderio e il suo dolce appagamento

 

né t’amerei di meno – purché il dono

di te e del tuo sorriso che è prezioso

non venisse a mancare al sentimento

 

amoroso

 

II

 (ho detto il tuo sorriso – ma la voce

e l’ascoltarne nell’orecchio il caldo

suono, la mia delizia e la mia croce,

quando m’irride o si nega e lo sguardo

 

che sfugge al mio cercarlo con lo sguardo 

e si nasconde non sono importanti?)

perché io nell’amarti resto saldo

e ostinato ti aspetto anche se è tardi

 

e del tempo (mio, tuo) resta una goccia

e il desiderio si fa più cattivo

e mi domando a volte se una roccia

 

non sia di te più morbida e più fragile

non sia più disponibile al motivo

di questi versi persi e un poco tragici

 

che scrivo

 

III

ma quando come l’altra sera sento

tanta stanchezza nella voce spenta

e so che nel tuo cuore sei scontenta

e vorresti cambiare non mi pento

 

di amarti e di volerti anche se tu

forse vorresti – per chiamarlo amore

e per mostrargli senza alcun pudore

che il desiderio che ne provi è più

 

forte d’ogni lusinga e d’ogni verso

che ti scrivo bruciando – un altro nome

un altro, non il mio, ma dimmi come

 

un altro più di me potrebbe amare

tenerti tra le braccia e desiderare 

nella tua carne di sentirsi perso

 

benché il futuro non faccia sperare

più niente di diverso?

 


INVITO

 

I

ho riletto e mi sono detto: «che

ipocrita! non è quel che volevi

dirle non è nemmeno quel che avevi

in cuore mentre le scrivevi e

 

allora non mentire dille che

la desideri troppo per capire

perché lei non ti voglia non le dire

soltanto mezza verità perché

 

è uno sbaglio anche se gli innamorati

fanno di questi errori disperati:

credono che esser dolci serva a farsi

 

amare meglio invece molto spesso

vince chi mira solamente al sesso:

tu perché non impari a comportati

 

lo stesso?

 

II

 sì lo so ti vuol bene e la tua smania

di lei il sentirsi così desiderata

la lusinga però è spaventata

e si ritrae perché non ha domani

 

la vostra storia, lo so non pretendi

che ti ami perché è tardi ma vorresti

che almeno in certi giorni come questi

non avesse paura e ti sorprendi

 

che non capisca e che rifiuti pure

di vederti: non stai elemosinando

solo un’ora di sesso stai cercando

 

un po’ di fuoco che riscaldi te

e lei (lei che una volta disse che

serve a sentirsi vivi e a non avere

 

paure)»

 

III

perché allora negarci qualche istante

d’abbandono se serve a riscaldare

la vita e fa scordare le già tante

pene di tutti i giorni se può dare

 

l’illusione di un attimo? non basta?

e quel momento di dolcezza dopo

ha un retrogusto amaro che ne guasta

un po’ il sapore? ma forse lo scopo

 

minimo è solo quello di non darci

per vinti troppo presto di trovarci

forse un’ultima volta ancora insieme

 

e illuderci così che nell’amarsi

i nostri corpi sapranno scaldarsi

con le scintille piccole ed estreme

 

del piacere infinito che ci preme

e strema

 

 


POSCRITTO RASSEGNATO

  

ma stupido che sei t’illudi che

ripeterle le stesse cose e

insistere e assillarla (come se

servisse a farle credere che c’è

 

tempo anche per la sua felicità

insieme a te) serva a qualcosa ma

non serve a niente lei non crederà

a una parola e se sorriderà

 

sarà per imbarazzo perché tu

chiedi qualcosa di cui lei non ha

alcuna voglia almeno insieme a te

 

perciò che vale dimostrarle che

ormai rimane poco tempo? da

lei non devi aspettarti niente più

 

inutile sperarlo – smetti, su! 

 


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