venerdì 25 luglio 2025

Domenico Ludovici

  

        Di Domenico Ludovici, il 21 ottobre 2011 avevo pubblicato, su questo blog  i tre sonetti intitolati Compianto, aggiungendo – in deroga a quanto faccio di solito – una breve nota esplicativa sull’autore, che qui non ripeto (e più sotto se ne comprenderà il perché).

        Qualche giorno dopo, l’autore della poesia mandò un lungo commento a quel post. La cosa mi sorprese e incuriosì. Il perché ognuno potrà intuirlo continuando a leggere questa nota. Infatti, mi è sembrato giusto non lasciarlo solo a margine di quella vecchia pagina e dunque di riproporlo ai lettori di queste poesie. Ho solo tagliato le righe finali che molto gratificano me e la mia poesia, ma poco interesserebbero chi legge. Prima, però, ritenni di spiegare a Ludovici come, grazie a Severino Fonte, allora scomparso da poco, conobbi il suo dattiloscritto. 

        Severino, fra le molte cose cui si dedicava, era consulente e lettore per una piccola casa editrice e in quella veste, diversi anni fa, ebbe tra le mani il dattiloscritto del libro di Ludovici, Sonetti del nostro adulterio. Ecco quel che mi scrisse, spedendomi il dattiloscritto: «Domenico Ludovici è uno pseudonimo. Era il nome di un erudito gesuita d’inizio Settecento (mai sentito? pare fosse un tuo compaesano), del quale si può leggere ne Le vite degli illustri aquilani di Alfonso Dragonetti; scrisse anche carmi in latino a imitazione di Tibullo, nei quali però, commenta Dragonetti, “indarno vi cercherete la dolce anima e l’ardente affetto del cantore di Delia”). Nessuno conosce la sua vera identità. L’editore è convinto che sia uno stimato professionista (avvocato? notaio?) operante fra L’Aquila e Roma. Il mio parere è stato favorevole alla pubblicazione (suggerendo solo di modificare il titolo), nonostante il linguaggio piuttosto spinto, quasi al limite della pornografia, se non fosse riscattato dalla delicatezza del tono e dalla sincerità della passione; ma l’editore all’ultimo momento ha avuto paura. Leggi un po’ tu e dimmi che ne pensi. P.S.: ho cercato di rintracciare l’autore, scrivendo alla casella postale che c’era sul dattiloscritto, ma la lettera m’è tornata indietro».

     Lessi, e restai un po’ sconcertato anch’io dalla crudezza del linguaggio, ma anche affascinato, perché le poesie mi sembrarono delicate, addirittura tenere e forse anche ingenue, a momenti. Glielo scrissi e la cosa finì lì.

     Dopo la sua scomparsa, quel dattiloscritto mi è tornato tra le mani e l’ho riletto. Rimuginando sulla stranezza della vicenda, ho cominciato a chiedermi se non fosse possibile che sotto lo pseudonimo di Domenico Ludovici si celasse il mio amico stesso; cosa davvero sorprendente, perché – non l’ho ancora detto – Severino Fonte era un sacerdote, ma troppe erano le coincidenze: lo pseudonimo, lo strano riferimento al gesuita del Sei-Settecento venuto fuori non si sa come, la casella postale non più attiva... Comunque, decisi di scegliere una poesia e di pubblicarla, come omaggio al mio amico. Il libro, come dice il titolo, è un breve canzoniere d’amore (rifacimento novecentesco di un qualunque petrarchista del Cinquecento, o moderno e più attuale riferimento ai bei sonetti di Berryman?) su un adulterio e termina con la morte prematura della donna che lo ispirò. Evitando le poesie più esplicite, scelsi l’ultima, un Compianto sulla scomparsa della donna, e la misi sul blog. Aggiunsi una nota che riproduceva quasi alla lettera il biglietto del mio amico, precisando che pubblicavo senza l’autorizzazione dell’autore perché impossibilitato a contattarlo.  

    Questa è la storia. Immaginatevi la mia sorpresa leggendo il commento al post. In un colpo solo scoprivo che Severino aveva torto a pensare – chissà? forse immaginando che l’autore non si sarebbe esposto a un riconoscimento, data la materia – che Domenico Ludovici fosse uno pseudonimo, che perciò quel gesuita non c’entrava niente; e che avevo torto anch’io a credere la storia una bella invenzione dello stesso Severino. Ma ecco ora il commento di Ludovici (al quale credo di non dover aggiungere altro).

 

    «Solo da poco, per una serie di (fortunate) circostanze, ho scoperto l’esistenza di questo blog e del particolare che una mia poesia vi era pubblicata. Ho letto divertito la nota che l’accompagna. Divertito perché essa, almeno per la prima metà, è assolutamente priva di fondamento. Tuttavia, essendo stata scritta assolutamente in buona fede, merita una spiegazione.

   La convinzione del curatore del blog che il mio nome, Domenico Ludovici, sia uno pseudonimo, si deve – in assoluta buona fede, ma non senza supponenza – a Severino Fonte. Immagino che nascesse dal fatto che, nelle poche righe con le quali accompagnavo il dattiloscritto dei miei Sonetti del nostro adulterio (titolo che ritenevo assolutamente provvisorio e che è diventato – ma non so se migliorando o peggiorando – Dell’amore, del sesso, della morte), ormai più di venti anni fa, manifestavo l’intenzione di pubblicarlo sotto pseudonimo, per preservare la privacy dei protagonisti (cosa ormai non più necessaria). Firmavo, però, col mio vero nome. Evidentemente, Fonte e l’editore stesso fraintesero, pensando che quello fosse già lo pseudonimo. Nessuno dei due credette necessario accertare quell’identità (sarebbe bastato davvero poco: vivo all’Aquila da sempre – ma sarebbe più giusto dire: vivevo, perché il terremoto mi ha lasciato ormai senza casa e senza le cose che vi erano raccolte; prime fra tutte, i libri – esercitando, ancora per poco, l’avvocatura e occupandomi sporadicamente di politica); quando poi la pubblicazione fu rifiutata, la cosa divenne superflua. Ma Severino Fonte si ricordò di quel gesuita d’inizio Settecento (invero, un antenato della mia famiglia) e, sembrandogli d’aver scoperto l’origine dello pseudonimo, ne informò Francesco Dalessandro inviandogli il dattiloscritto, stimato degno di lettura. Questo lo scopro ora, perché, per la verità, avevo sempre creduto che la bocciatura fosse dovuta anche a lui (oltre che letterato acuto e attento, il Fonte era prima di tutto un sacerdote), mentre fu solo l’editore (adesso è certo) a ritrarsi spaventato. Sebbene troppo in ritardo perché possa riceverle, porgo al Fonte le mie scuse, lusingato che ritenesse il libro degna opera di poesia, e ancor più lusingato che lo stesso giudizio sia stato espresso, implicitamente, da Dalessandro, che ringrazio».

                                                                                                                                        Domenico Ludovici

     Da parte mia, non credo di dover aggiungere altro, se non che ho deciso di pubblicare, durante questa settimana, tutto il canzoniere di Ludovici - che, nel frattempo, è diventato un buon amico, superando ogni remora d'ordine morale, di pudore o altro.

                                              

                                                 SVOLTA


AUBADE

 

 

I

 

«ti prego aprimi dài voglio vederti

solo qualche minuto» t’invitai

te lo ricordi? «impossibile vai

via sono a letto» tu mi rispondesti

 

con voce un po’ allarmata «ma potresti

se volessi che importa che già sei

a letto?» un po’ irritato domandai

«sì non voglio» tu allora concludesti

 

«non ho intenzione di andar via» ti dissi

mentre stavi per chiudere «io resto

qui fino a domattina mi capisci?»

 

gridai mentre chiudevi, avevo l’auto

di fronte al tuo balcone e – ne fui certo –

nel buio mi spiasti quando cauto

 

vi ritornai – credesti

per andar via –: mi presi da fumare

e poi in piedi mi misi ad aspettare

 

II

 

tu non credesti che sarei rimasto

tutta la notte sveglio sotto casa

e te ne andasti silenziosa a letto

ma quante sigarette m’è costata

 

quella tua sicumera! l’ho pagata

con una notte insonne là costretto

ad aspettare l’alba e tu persuasa

che me ne fossi andato tu nel vasto

 

letto dormivi ignara ma che cosa

verso le cinque ti svegliò? corresti

alla finestra aperta e mi vedesti

 

ancora in piedi e con la sigaretta

tra le labbra aspettare senza fretta

che decidessi di aprirmi pietosa

 

la porta e le tue braccia

e alzando gli occhi io vidi la tua faccia

dietro i vetri sorridermi amorosa

 

III

 

corsi corsi al portone del palazzo

salii le scale due per volta e quando

ti raggiunsi e m’apristi «sono pazzo

di te» dissi eccitato farfugliando

 

già seminuda lì contro l’arazzo

appeso nell’ingresso ci legammo

in un abbraccio stretti: avevo il cazzo

già duro lo toccasti ci fermammo

 

tesi «vieni lo voglio cosa aspetta?»

girandoti chiedesti te lo misi

dentro da dietro in piedi: avevo fretta

 

anch’io una notte intera era durata

la sofferenza, contro il muro presi

a scoparti deciso e tu piegata

 

in avanti spingesti

contro il mio ventre ansimando affannata

e «ancora dài più forte!» m’incitasti.       





 

 

 

 

 


 

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