lunedì 30 settembre 2019

Cinzia Monti (per Rodolfo Di Biasio)

Eccezionalmente – dunque a conferma di una regola – oggi pubblichiamo uno scritto critico di Cinzia Monti su “Mute voci mute” (Ghenomena Edizioni, Formia 2017) di Rodolfo Di Biasio, e, a seguire, la prima poesia della terza parte del libro. L'avverbio però si riferisce soprattutto al breve capolavoro che ha ispirato le parole di Cinzia Monti, perché è raro, oggi, leggere poeti come Rodolfo Di Biasio, poeti di così lucido pensiero, di così fervido impegno e di così alta maestria. Chiunque ama la Poesia dovrà procurarsi il libro: leggerlo non potrà che preludere alla conoscenza di tutta l'opera di questo grande, appartato poeta. 

Da parte nostra, mercoledì vi offriremo in lettura un suo inedito dal titolo “Poemetto dell’attraversamento”.



La minerale essenzialità di Rodolfo Di Biasio


Nel 1999 Rodolfo Di Biasio pubblicava “Altre contingenze” (Marina di Minturno, Caramanica Editore), un’ampia autoantologia utile a ricostruire la genesi e gli sviluppi di una poesia che aveva comportato «da un lato, la memoria del passato e la testimonianza del presente, dall’altro (in realtà rifuse in un unico discorso) le riflessioni che accompagnavano quegli eventi, ma fino poi a distaccarsene nella pronuncia di una vera e propria filosofia dell’esistere» (Giuliano Manacorda in “Letteratura nella storia”, Palermo, Sciascia, 1989). Recupero del passato, attuato attraverso la rievocazione della realtà contadina degli anni giovanili e consapevolezza di essere immerso in una temperie storica che esige una presa di posizione contro i mali del presente, costituiscono, adesso, la sostanza di questo nuovo libro per il quale la scelta del poemetto, attuata già a partire da “Le sorti tentate” (Manduria, Lacaita, 1977), è indicativa della coerenza e della fedeltà a se stesso dell’Autore propenso, anche qui, a privilegiare, sul singolo testo, una materia poematica sostenuta da compattezza e unitarietà. Impeccabile nella sua sobria veste editoriale, il libro cattura il lettore fin dalla copertina: sul bianco dello sfondo spiccano, racchiusi in una nitida geometria, dei ciottoli marini nei quali non è difficile scorgere un’allusione alle “levigate parole”, ai versi limati con instancabile lavoro dal poeta e alla loro minerale essenzialità. Ad immettere nel cuore del libro è la frase posta in esergo: «a peste, fame et bello libera nos, Domine!». Si tratta di un’invocazione a Dio, formulata in età medievale, perché allontani dall’umanità questi terribili flagelli. È la persistenza, nel mondo odierno, di queste calamità, ad onta dell’enorme progresso e dell’alto grado di civiltà raggiunti quasi ovunque, a motivare la sua “laica dolente meditazione su questo dolore” (Nota dell’Autore), inteso non più come cifra esistenziale, come malum mundi connaturato ab aeterno alla nostra condizione di uomini, ma come prodotto della Storia che è spesso violenza, sopruso, inganno. Di detti mali Di Biasio ha fatto esperienza personale, a cominciare dalla guerra che insanguinò la natìa Ventosa lasciando dietro di sé rovine morali e materiali e ferite mai più rimarginate. Se è vero, come è vero, che Di Biasio è convinto della necessità di una “permanenza” della poesia nell’esperienza prima individuale e poi collettiva, corale dell’umanità (“La poesia scrive riscrive la sua storia”), non desta meraviglia il fatto che la prima sezione del poemetto si apra con i versi già consegnati a “Le sorti tentate”, libro, questo, davvero generazionale perché storia di una generazione «che pare (e forse è) la più disperata e tradita, di quelli che hanno giocato tra le macerie delle bombe e ora si ritrovano senza passato né presente» (Salvatore Mignano in “Messaggero Veneto”, 5 giugno 1979). Se tuttavia mettiamo a confronto questa prima strofe con quella contenuta in “Le sorti tentate”, ci avvediamo che essa è più breve, essendo stati eleminati i due versi conclusivi. Siamo dunque di fronte ad un recupero tutt’altro che meccanico: esso prevede, infatti, tagli e ricuciture secondo criteri dettati da una sapiente ars combinatoria. Ed ecco dunque che ai versi “antichi” fanno seguito i “nuovi” che con i precedenti si fondono in un discorso coeso e coerente grazie anche all’unità del tono, del ritmo, dello stile sempre orchestrato su una misura di classica derivazione. In essi ritorna il motivo dell’infanzia negata, deprivata di ciò che le spetta di diritto: «i suoi giochi le voci / Ecco, esse mi mancarono, / ilari o rissose». È di quel «lieto romore» che il poeta si porta dentro un’infinita nostalgia, come pure indelebile è il ricordo, qui ancora da “Le sorti tentate”, di morti «che soldati portavano a dorso di mulo / a macerare nella scarpata / per salvarli dal graffio dei corvi / dai cani che non avevano più casa». Gli anni seguiti al Secondo Conflitto Mondiale hanno segnato per l’Europa un lungo periodo di pace che ha consentito la rinascita e la ripresa economica degli Stati che vi furono coinvolti; lo stesso non è accaduto in altri luoghi del Pianeta dove è in atto quella che Papa Francesco ha definito «la Terza Guerra Mondiale a pezzi» e che ha finito con l’esportare, qui da noi, un terrorismo cieco e brutale.
 A buon diritto, allora, il poeta può dire: «Il suo vento la sua furia ancora / s’accanisce a farmi tristi / nei giorni, nei miei giorni tutti, / le cose belle della vita…» giorni « lacerati / dal suo luttuoso gong / che ha battuto batte / lastrica di morti / il fiume della storia». Tutti questi morti chiedono ascolto, fanno appello alle nostre coscienze ormai anestetizzate, assuefatti come siamo a qualunque orribile spettacolo ci venga offerto dai media. Di qui la nostra incapacità a trasformare «una sterile pietà» in «misericordia» e «amore persistente». E allora il pensiero va ai figli e ai figli dei figli: è con loro, e per loro, che il poeta camminante Rodolfo Di Biasio si augura di toccare, un giorno, «l’approdo che ci preservi / l’oasi di quiete albe / di sicuri tramonti» e che sia il loro respiro «dalla stanza accanto» a cullare unosmemoratosonno.
«Vengo da un tempo / in cui non ebbi / la mia porzione di carne e di latte». Con questi versi si apre la seconda sezione del poemetto incentrata sul dramma della fame. Sono anch’essi un prestito da “Le sorti tentate”: in entrambi i casi esprimono la personale condizione di estrema deprivazione vissuta dal poeta bambino a causa della guerra. Tuttavia qui c’è qualcosa in più: c’è il gesto misericordioso di un soldato tedesco che porge al bimbo “implorante” «il tozzo di un nero pane». Se è vero che esiste una memoria dei sapori, quello del pane tedesco gli è rimasto dentro: «Mi ha nutrito / mi ha insegnato la pietà». Non si tratta, si badi, di un astratto, generico sentimento di pietà, semmai essa ha stretti contatti con quello cristiano della caritas perché ha per oggetto le moltitudini di diseredati che, ad ogni latitudine, muoiono ogni giorno per fame. Non stupisce dunque il fatto che tutta la seconda strofe sia percorsa da una forte vena polemica che chiama in causa le enormi responsabilità dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri; è il momento più engagé dell’intero poemetto, quello di maggiore pregnanza etica e politica rivolto com’è all’odierna società dell’opulenza e dello spreco, incapace di fissare «il luogo / dov’è la fame dei tanti». E di fronte al fenomeno delle emigrazioni di massa, diretta conseguenza di conflitti e di povertà, c’è la lucida constatazione che sono in atto cambiamenti epocali contro cui è inutile «sceglierci sentieri privati / innalzare recinti». Tra la guerra e la fame, dunque, vi è un tragico legame di conseguenzialità che viene a saldare in un unicum logico-espressivo le prime due parti del poemetto; ugualmente fusa con il resto è pure la terza parte, laddove la peste designa metaforicamente “l’avvelenamento del pianeta di cui siamo tutti untori” (Nota dell’Autore).
Il lettore di Di Biasio non ignora l’acuta sensibilità del poeta nei confronti della natura tutta: descritta quasi sempre nella stagione della fioritura, essa è stata metafora di una felicità perduta e di un’adolescenza che «ebbe sapore di nidi e di piante». Già rievocato in quel lungo viaggio reale-memoriale che sono “I ritorni” (Roma, Stilb, 1986), viaggio che è insieme memoria di un passato fatto dei miti arcaici dell’acqua, dell’erba, della terra e insieme ritorno alle origini “radici e vettori”, l’ambiente naturale viene nel nuovo libro recuperato in chiave dialettica: a questo odierno, deprivato dalla bellezza e minacciato di distruzione per mano dell’uomo, Di Biasio contrappone quello di un tempo, non ancora contaminato da «plastiche» e da «ferrosa polvere». «Raccontare, questo solo posso raccontare, / di un tempo quando era dolce d’estate / bere con le mani dal fiume…»
Allora era stata «una terra perduta per disamore» a nutrire la malinconia del poeta; oggi è lo scempio di cui essa è oggetto ad alimentarne l’amarezza fino a renderla immedicabile. E tuttavia, e siamo al congedo, Di Biasio non chiude le porte alla speranza: «Un varco allora verso la luce»: è un auspicio, è un desiderio, ribadito dagli ottativi che scandiscono i versi finali: «Ci tornino fraterne / le creature del cielo e del mare / della terra / Anche il serpe o il giacinto / spontaneo o la viola di ciglio / le stesse disimparate / per insensatezze di desiderio // Ci ritorni il loro nome / dismesso sulle labbra». È in una ritrovata comunione con tutti gli esseri viventi, in un rinnovato patto di fraternità tra uomo e natura che il poeta ripone una speranza di salvezza, a condizione che si ritorni a seguire l’insegnamento dei padri («I vecchi ci dicevano / di non dissipare / acqua ed erba») e che si riscopra quella lingua “naturale” che ci permette di sottrarre le cose al loro silenzio e al poeta di trasformare le loro «mute voci» in canto.


(recensione inedita)



LA PESTE


La peste è dell'anima
vi si annida
vi scava purulenti anfratti
e apre a un tempo malcerto
Né giunge a segno
la parola salvifica
Siamo stati untori di noi stessi
Viviamo una terra
dove il vento
in un buio cielo soffia
plastiche una ferrosa polvere
e a folate intristisce pini marini

I tetti di una volta!
Sono poche ormai le case
che hanno tetti
quelli rossi di una volta
quando la pioggia vi batteva
e le rondini sbirciavano dal nido
la nenia delle gocce alla grondaia
Non c'è giorno che non ne muoia uno
e viene il cemento
che la superbia scaglia verso il cielo
con lucide pareti


                                                                                                        







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