LA PRIMAVERA DI MANAROLA
è la gioia, io pranzavo
da solo sul molo. Alla cameriera
avevo ordinato una razione
e mezzo d’ogni portata. Arrivare
a me dalla cucina era
più pesante e più lungo. Altri
clienti non c’erano, ma
c’erano stati, tutti al chiuso
della veranda. Invece il mio
tavolo un palco, con l’acqua
verde ai due lati, e il mare
aperto davanti.
Bevevo molto,
volevo la stazza e la barba
bianca di Hemingway, il suo
guardare in lontani luoghi
perfetti.
Era un pomeriggio
bellissimo. Dal paese alle
spalle calavano, come gabbiani
ammodo, intermezzi in dialetto
che si posavano sulla pasqua.
Un gozzo quatto di un nero
caloroso scoppiettava in folle
tagliando alla deriva
una corrente più chiara,
pianissimo.
Io ero giovane, congedato
quella mattina, in divisa
primaverile, andando
al mio paese del nord.
Lo sapevo che il padre
non avrebbe resistito al suo male,
che Milva era persa e io
stanco e provato. E che da lì
forse da quel minuto,
sarebbe cominciato
il difficile.
Ma due
nuvole
del Piemonte, grasse come
chiocce, remavano lentamente
cupole senza chiesa, di un
bianco che s’allentava,
ivi sostando.
– Abbi pazienza, riposa
tu pure.
Chiudendo gli occhi
rivolti al sole, cangiavo
visioni cieche di rossi,
di aranci, di viola,
ma speravo nell’iniziata
ai Misteri, la bionda che
si pettina e guarda,
fissamente dentro
di te.
In quei mesi avevo appreso
l’angoscia e l’impossibilità
di esprimerla, atteso
la primavera sui tetti,
il ritorno delle rondini
e le parole alla bocca. Leggevo
molto, ma più il variare
della luce sulla tinta
ocra dei vecchi muri, lo
scaldarsi degli impiantiti
e delle dita che
li toccavano, giorno
dopo giorno.
Anche i versi di Eliot
e Pound parevano reticoli
galvanici sulle pagine,
perché in fine il libro
era caldo.
Tutto saliva, evaporava.
Perciò vivevo sui terrazzi,
sui poggi, sulle forre e,
quando non era possibile,
marciavo con la testa per
aria, a fiutare quell’intero
ascendere.
Mai
stagione m’era
cosi teneramente nata.
Ora lì, dove su un molo riamavo
il vinello giallo, le bottiglie
vuote, la donna mancante,
le solitudini del futuro, tracciavo
sulla tovaglia di carta, non
come Esenin col sangue
alla morte, ma col sugo
di vongole sussurri alla vita.
Sognavo intessiture di sguardi,
linee d’oro alle nuche,
spalle leggere;
e l’invenzione degli occhi
di un’altra, la nuova innamorata,
più spesso vaniva nel nulla,
parlava inglese, moriva greca
all’orizzonte su cui
il sole
aveva tempo di declinare.
Non so come la cameriera
reggesse a portar vino
e io a berlo. Di certo,
non mi ubriacai.
Ero una boa azzurra.
Parlavo solo, dicevo
frasi d’amore
che non ricordo. Vennero
due bambini, quasi gemelli,
sicuramente fratelli, che
restarono vicino il tempo
delle parole e quello
dell’eco.
Riapparvero
più distanti, a far capolino
da una barca tirata in secco,
piena di funi attorte.
Poi più nient’altro
che la tregua,
un silenzio ammarato, una memoria
non colpevole di ginestre,
di attese, di sponde,
di velieri, di arrivi
e partenze, di odori
mescolati o distinti, che un
po’ erano lì, un po’ erano là,
o prima.
da Tutte le poesie, Europa Edizioni, 2020
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