venerdì 3 settembre 2021

Alessandro Ricci

 LA PRIMAVERA DI MANAROLA

 

 Perché spettacolare e golosa

è la gioia, io pranzavo

da solo sul molo. Alla cameriera

avevo ordinato una razione

e mezzo d’ogni portata. Arrivare

a me dalla cucina era

più pesante e più lungo. Altri

clienti non c’erano, ma

c’erano stati, tutti al chiuso

della veranda. Invece il mio

tavolo un palco, con l’acqua

verde ai due lati, e il mare

aperto davanti.

                        Bevevo molto,

volevo la stazza e la barba

bianca di Hemingway, il suo

guardare in lontani luoghi

perfetti.

             Era un pomeriggio

bellissimo. Dal paese alle

spalle calavano, come gabbiani

ammodo, intermezzi in dialetto

che si posavano sulla pasqua.

Un gozzo quatto di un nero

caloroso scoppiettava in folle

tagliando alla deriva

una corrente più chiara,

pianissimo.

 

Io ero giovane, congedato

quella mattina, in divisa

primaverile, andando

al mio paese del nord.

Lo sapevo che il padre

non avrebbe resistito al suo male,

che Milva era persa e io

stanco e provato. E che da lì

forse da quel minuto,

sarebbe cominciato

il difficile.

                Ma due nuvole

del Piemonte, grasse come

chiocce, remavano lentamente

cupole senza chiesa, di un

bianco che s’allentava,

ivi sostando.

 

– Abbi pazienza, riposa

tu pure.

 

Chiudendo gli occhi

rivolti al sole, cangiavo

visioni cieche di rossi,

di aranci, di viola,

ma speravo nell’iniziata

ai Misteri, la bionda che

si pettina e guarda,

fissamente dentro

di te.

 

In quei mesi avevo appreso

l’angoscia e l’impossibilità

di esprimerla, atteso

la primavera sui tetti,

il ritorno delle rondini

e le parole alla bocca. Leggevo

molto, ma più il variare

della luce sulla tinta

ocra dei vecchi muri, lo

scaldarsi degli impiantiti

e delle dita che

li toccavano, giorno

dopo giorno.

Anche i versi di Eliot

e Pound parevano reticoli

galvanici sulle pagine,

perché in fine il libro

era caldo.

 

Tutto saliva, evaporava.

 

Perciò vivevo sui terrazzi,

sui poggi, sulle forre e,

quando non era possibile,

marciavo con la testa per

aria, a fiutare quell’intero

ascendere.

                Mai stagione m’era

cosi teneramente nata.

 

Ora lì, dove su un molo riamavo

il vinello giallo, le bottiglie

vuote, la donna mancante,

le solitudini del futuro, tracciavo

sulla tovaglia di carta, non

come Esenin col sangue

alla morte, ma col sugo

di vongole sussurri alla vita.

 

Sognavo intessiture di sguardi,

linee d’oro alle nuche,

spalle leggere;

e l’invenzione degli occhi

di un’altra, la nuova innamorata,

più spesso vaniva nel nulla,

parlava inglese, moriva greca

all’orizzonte su cui

il sole

aveva tempo di declinare.

 

Non so come la cameriera

reggesse a portar vino

e io a berlo. Di certo,

non mi ubriacai.

Ero una boa azzurra.

 

Parlavo solo, dicevo

frasi d’amore

che non ricordo. Vennero

due bambini, quasi gemelli,

sicuramente fratelli, che

restarono vicino il tempo

delle parole e quello

dell’eco.

             Riapparvero

più distanti, a far capolino

da una barca tirata in secco,

piena di funi attorte.

 

Poi più nient’altro

che la tregua,

un silenzio ammarato, una memoria

non colpevole di ginestre,

di attese, di sponde,

di velieri, di arrivi

e partenze, di odori

mescolati o distinti, che un

po’ erano lì, un po’ erano là,

o prima.


da Tutte le poesie, Europa Edizioni, 2020

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