lunedì 30 giugno 2025

Giuliano Goroni

 

NEON IN CORSIVO AZZURRO


Sembra una minaccia fatta
per amore, il buio ventoso
e commerciale di via appia,
le luci portatili sui motori,
un’autofficina generale qui
soggiorna oleosa e chirurgica,
ma più un cubo d’emergenza 
generica e continua, corridoio 
comune della mente, irrompe
nella velocità l’appello
opaco e vischioso; per un po’
ruba il mondo, l’acciaio multicolore
in depositi firma questa retrovia,
ma più, la spericolata paura libera
annusa delicata l’aria della vita
farfalla d’ognuno, folla di tutti...

Ma una dolcezza presupposta
e piovosa è messa lì a freddo
solo per compiutezza di disegno
dal neon in corsivo azzurro,
stretto grigio-sera angolare
e pochi oleandri, in chiusura
si ritira un bar dell’io medio
e transitorio.

Del presunto passo della vita,
nel vacillare lento d’ogni sua
vana forma vera, sono, a volte, alla
sommaria evidenza degli occhi
non senza velo e sforzo, anche
le sue facili, esposte felicità.
S’è fatta periferia, scesa
da bus e metro tra i primi
fari e quell’assillo da inseguiti
minori, stringendosi a questo adesso.
Fissità di tutti nella pensilina
assoluta, con le borse del ritorno,
un cemento d’attesa pallido
e vivente e ognuno già è casa
porta chiusa, rapido il buio
novembrino nel vialone svogliato,
steli alti di luce in prospettive
lunghe, un destino ridotto e stanco
d’esserlo, inciampa addosso alle
vite che spinge.
C’è un camice lilla, sopra una fibra
sua di quotidiano, sospesa
dal proprio continuo, sfila
un pensiero da vetrina al di fuori,
sue interlocutorie seduzioni
sghembe ammissioni, l’illusione
che più le pare sentimento e sosta.
Le oscilla nel volto il soggettivo
fluente dei riquadri accesi
dai muri, l’evasività singola di una 
formale aiuola rotatoria, la sobria
ferocia della lamiera ondulata.
Che insiste nel cerchio,
l’eco coabitante di un bacio 
che si rincorre, nelle sparse
proposte della lacrima; perde ora
la magnolia, la foglia che più aveva
voglia di terra, attuarsi forse
d’originaria ombra che, nella
strettoia mondana, cala riservata
desolazione e pare farne albe
pare farne corpi,
ma è la vetrina delle radio 
a coglierla sul fatto,
d’esser lì, sul set del presente.



venerdì 27 giugno 2025

Bruna Giacomi

 

Bruna Giacomi, romana, è stata segretaria di redazione della rivista «Arsenale», dalla fondazione e per tutta la sua durata. Là, sul n. 2, nell’ormai lontano 1985, pubblicò alcune poesie (qualcun’altra era uscita su «Materia»). Sono le sue uniche pubblicazioni che io ricordi. Non vanta libri. Le poesie che seguono sono di quegli anni Ottanta. Non so nemmeno se, da allora, Bruna Giacomi ne abbia scritte altre. Leggendo:  “Non presto più / attenzione alle gelide / luci improvvise dei versi / regalati dal caso / nel corso del tempo”, si direbbe di no, ma io credo il contrario, anche se sono quasi certo che nessuno le abbia lette. 

Di quest’essenziale canzoniere cosa dire? Subito questo: a me non dispiace che parli d’amore, e né mi pare che ne parli troppo, come sembra rimproverarla l’amico al quale è dedicata l’ultima, bellissima poesia. Se comunque è l’amore, “per quanto sia, per un’idea, / per il cane, il padre, per / l’altro – da sé”, che ci uccide, come si fa a non parlarne e scriverne? La differenza la fanno il ritmo, la lingua, la parola. Il verso di Bruna Giacomi è misurato sul respiro, mimetico nel ritmo, spezzato talvolta dall’ansia e, di più, dall’affanno: lungo o breve che sia, a volte di una sola ma esemplare parola (altre, più rare volte si esemplifica in misure tradizionali, come in questo splendido endecasillabo: “non ti saranno di conforto i versi”), è comunque accortamente disposto a significare le emozioni o gli scarti del cuore. Il vocabolario non è quasi mai banale; è, invece, vario, spesso ricco, anche prezioso (ma non pretenzioso). S’intuisce che ogni poesia, alla lettura così semplice e spontanea, nasconde un tormentato lavoro di cesello, cela ripensamenti e varianti: un lavoro, insomma, tutto teso alla ricerca di un senso sempre più trasparente, sempre più incisivo (si confronti, qui, la prima poesia con la sua variante più in basso: di alcuni versi cambia il movimento, che si fa più svelto, più fluido, e spariscono “le mascelle aguzze e veloci” dei ricordi, sostituite dall’aggettivo “maledetti”, che se forse impoverisce l’immagine, la rende però più diretta e, infine, più convincente).


 RASOIATA AL CASTELLO  (III)


AL MONTE ARGENTARIO, AI TUOI VERSI

 

È libera ancora

la strada dell’upupa tra cisto

e liscia santolina, il mare

intenso dopo la pioggia. Una gatta

placida e domestica m’accompagna

al vento.

 

S’è mutato il cuore oppure è per

l’età che riposano i fianchi

sfatti

da baci immotivati, è l’età che

fiacca

il piacere della battaglia?

 

Se solo all’alto fuoco

bruciassimo, lame dure, preziose

bilance del tempo saremmo ma ogni

tepore ci ha scaldati e

non è più teso l’arco

al braccio.

 

 

 

A ONEGLIA CHE SI DICE SIA PAZZA

 

Grigi celesti l’abito, l’occhio,

il luogo. Arenata in un’età

assente, espansa negli anni

inghiottendo impure parole

d’amore mai detto e cibo

mal curato – quasi bevve

le paste, il solito dono –.

 

Sia solo tuo

il fardello – amore che sbanca,

fa male –, l’affanno:

preda impazzita del piccolo

perfido Eros. A che

la fatica diversa dello studio, se

schivi lo sguardo, se sei già

promesso?

 

Fa caldo

nel cicalare d’estate, so

anch’io quel caldo pazzo, fermo dai venti

che superate facili

montagne sono fuggiti

al mare, lasciando una pianura

che suda, cresce

intanto il grano.

 

Gli occhi,

loro che sempre nascono al cuore,

incontri taglienti di desiderio,

lungo la strada larga, nelle

corti, senza lanciarsi parole ma

solo scherzi, nel lavoro

ostinato d’estirpare gramigne

dai campi e dal petto.

 

Perché non correre, urlare,

perché non dare fuoco alle messi?

 

 

 

RASOIATA AL CASTELLO

 

                                                                  a Sandro, amico

 

Finalmente il caldo e

l’estate, giunta anche quest’anno

in ritardo, dopo un inverno riluttante

e una primavera beffarda con piovaschi

improvvisi e insufficienti alla lunga

siccità e al cuore.

 

È questa la stagione

che misura il mio tempo: nelle strette

ore di tregua ricordo sempre – e

non c’è scampo

sempre – le mie estati anoressiche di scolara,

lunghe e chiarissime di tigli,

quando speravo che il

dolore – crescendo – sarebbe scomparso.

Invece s’affina.

 

Poi quanto poco ne

sfumi, nelle ultime

sere, al fuoco

di stoppie nei campi

potresti saperlo bruciando

anche le ore domate una

con l’altra in una stagione folle

per assenza d’amore.

 

Dici che parlo troppo

d’amore, ma se è

questo che ci ha uccisi:

amore

per quanto sia, per un’idea,

per il cane, il padre, per

l’altro – da sé.

 

E non contano i baci, né

il mio corpo sottomesso a un

altro, se d’amore non parlo.

Ci si tace.

E tutto ci ferisce

nonostante ben lucida sia

la corazza, guerrieri sconfitti

da una netta rasoiata al castello.

 

mercoledì 25 giugno 2025

Bruna Giacomi

 

Bruna Giacomi, romana, è stata segretaria di redazione della rivista «Arsenale», dalla fondazione e per tutta la sua durata. Là, sul n. 2, nell’ormai lontano 1985, pubblicò alcune poesie (qualcun’altra era uscita su «Materia»). Sono le sue uniche pubblicazioni che io ricordi. Non vanta libri. Le poesie che seguono sono di quegli anni Ottanta. Non so nemmeno se, da allora, Bruna Giacomi ne abbia scritte altre. Leggendo:  “Non presto più / attenzione alle gelide / luci improvvise dei versi / regalati dal caso / nel corso del tempo”, si direbbe di no, ma io credo il contrario, anche se sono quasi certo che nessuno le abbia lette. 

Di quest’essenziale canzoniere cosa dire? Subito questo: a me non dispiace che parli d’amore, e né mi pare che ne parli troppo, come sembra rimproverarla l’amico al quale è dedicata l’ultima, bellissima poesia. Se comunque è l’amore, “per quanto sia, per un’idea, / per il cane, il padre, per / l’altro – da sé”, che ci uccide, come si fa a non parlarne e scriverne? La differenza la fanno il ritmo, la lingua, la parola. Il verso di Bruna Giacomi è misurato sul respiro, mimetico nel ritmo, spezzato talvolta dall’ansia e, di più, dall’affanno: lungo o breve che sia, a volte di una sola ma esemplare parola (altre, più rare volte si esemplifica in misure tradizionali, come in questo splendido endecasillabo: “non ti saranno di conforto i versi”), è comunque accortamente disposto a significare le emozioni o gli scarti del cuore. Il vocabolario non è quasi mai banale; è, invece, vario, spesso ricco, anche prezioso (ma non pretenzioso). S’intuisce che ogni poesia, alla lettura così semplice e spontanea, nasconde un tormentato lavoro di cesello, cela ripensamenti e varianti: un lavoro, insomma, tutto teso alla ricerca di un senso sempre più trasparente, sempre più incisivo (si confronti, qui, la prima poesia con la sua variante più in basso: di alcuni versi cambia il movimento, che si fa più svelto, più fluido, e spariscono “le mascelle aguzze e veloci” dei ricordi, sostituite dall’aggettivo “maledetti”, che se forse impoverisce l’immagine, la rende però più diretta e, infine, più convincente).


RASOIATA AL CASTELLO  (II)


Variante                                                                                

 

Non timide colombe ma passeri

petulanti, non più

i tuoi occhi ma altri

mi sorvegliano addormentata

stamattina.

Così, mentre braccia perfette

mi stringono in un incerto

possesso, maledetti ricordi

rosicchiano quest’alba che

schiara la stanza e il letto.

 

 

 

COLLEVECCHIO

 

Disertato il rumore della

città dove l’ora con fatica

scivola davanti a lividi scaffali

o guizzato il minuto è trascorsa

di voci che più non distingui

frastorna la campagna, né gli

alberi conosci e può

turbarti un sapore perduto

o l’odore – da stordire.

 

 

 

*

 

Da troppo tempo un ragno molesto

ricama tele agli angoli

della mia testa: le parole mai

dette, quelle

m’impolverano l’anima se pure,

come dicono, esiste.

Fuori,

la rugiada trasparente dei

discorsi precisi e

perfetti.

 

 

 

*

 

Se oggi solo l’incedere delle stagioni

ci dà tregua e il ritmo – caldo,

freddo – dell’aria,

sarà poi la memoria

a finirci quando, disfatti

in minuti i giorni, e troppi

i ricordi affastellati dall’inguine

al petto, non s’accorderà più

il battito del polso all’altezza

del sole a mezzogiorno.

 

 

 

*

 

Da qualche parte

c’è la mia anima senza

luce, abbandonata al sole

improvviso in una giornata

d’aprile,

               straccetto

infeltrito dai troppi

ingorghi del cuore.

 

 

 

 

*

 

Non presto più

attenzione alle gelide

luci improvvise dei versi

regalati dal caso

nel corso del tempo.

 

E, come nell’amore

chi fugge vince, brilla

l’aria intorno a me di

ferite luminose lasciate

cadere senza cura.

 

 

 

*

 

Pura ardesia il lago

sotto una pioggia caparbia.

 

Ora il sole stordisce di nuovo l’acqua.

Un ramarro più verde dell’erba, già

disposta all’estate, fugge al mio passo.

Ritrovo il sentiero, la ragnatela s’è

distesa, il ramo inarcato, tutto è uguale.

 

Del resto non annienta la traccia un temporale,

in giugno.



 

lunedì 23 giugno 2025

Bruna Giacomi

Bruna Giacomi, romana, è stata segretaria di redazione della rivista «Arsenale», dalla fondazione e per tutta la sua durata. Là, sul n. 2, nell’ormai lontano 1985, pubblicò alcune poesie (qualcun’altra era uscita su «Materia»). Sono le sue uniche pubblicazioni che io ricordi. Non vanta libri. Le poesie che seguono sono di quegli anni Ottanta. Non so nemmeno se, da allora, Bruna Giacomi ne abbia scritte altre. Leggendo:  “Non presto più / attenzione alle gelide / luci improvvise dei versi / regalati dal caso / nel corso del tempo”, si direbbe di no, ma io credo il contrario, anche se sono quasi certo che nessuno le abbia lette. 

Di quest’essenziale canzoniere cosa dire? Subito questo: a me non dispiace che parli d’amore, e né mi pare che ne parli troppo, come sembra rimproverarla l’amico al quale è dedicata l’ultima, bellissima poesia. Se comunque è l’amore, “per quanto sia, per un’idea, / per il cane, il padre, per / l’altro – da sé”, che ci uccide, come si fa a non parlarne e scriverne? La differenza la fanno il ritmo, la lingua, la parola. Il verso di Bruna Giacomi è misurato sul respiro, mimetico nel ritmo, spezzato talvolta dall’ansia e, di più, dall’affanno: lungo o breve che sia, a volte di una sola ma esemplare parola (altre, più rare volte si esemplifica in misure tradizionali, come in questo splendido endecasillabo: “non ti saranno di conforto i versi”), è comunque accortamente disposto a significare le emozioni o gli scarti del cuore. Il vocabolario non è quasi mai banale; è, invece, vario, spesso ricco, anche prezioso (ma non pretenzioso). S’intuisce che ogni poesia, alla lettura così semplice e spontanea, nasconde un tormentato lavoro di cesello, cela ripensamenti e varianti: un lavoro, insomma, tutto teso alla ricerca di un senso sempre più trasparente, sempre più incisivo (si confronti, qui, la prima poesia con la sua variante più in basso: di alcuni versi cambia il movimento, che si fa più svelto, più fluido, e spariscono “le mascelle aguzze e veloci” dei ricordi, sostituite dall’aggettivo “maledetti”, che se forse impoverisce l’immagine, la rende però più diretta e, infine, più convincente).


RASOIATA AL CASTELLO   (I)

 

*                                                                                     

 

Non le timide tortore, ma petulanti

passeri, non più i tuoi occhi

ma altri mi sorvegliano addormentata,

questa mattina.

Così, mentre braccia perfette

mi stringono in incerto

possesso, le mascelle aguzze e

veloci dei ricordi rosicchiano

quest’alba che

schiara la stanza e il letto.

 

 

 

Vieste                                                                                        

 

Benché oggi ogni pensiero mi punga

un quieto crepuscolo cede alla notte.

In quest’ora impassibile, mentre

balestrucci bruni si svolgono in

facili correnti, sono vinta

dal consueto affanno.

 

 

 

*                                                                          

 

Non so quale corrente

rimandi la calma onda.

 

L’umido bosco nasconde

radici scoperte, ferite come

il silenzio che c’intreccia.

 

Tutto è sospeso.

Anche la pioggia esita

a sorprenderci, noi

animali ben attenti a non

abbassare la guardia.

 

 

 

*                                                                        

 

La gioia, il dramma, la noia

di questo vivere assunto

a vizio necessario e inutile;

forse non c’è più motivo

di raccontarci ma lascia,

per questa notte, alla tua cupa

regina l’apparenza del

sonno, il giusto riposo:

i sogni, gl’incubi persino

conservali per noi.

 

 

 

*                                                                        

 

Ti sapevi eterno, lucido

sempreverde che resiste

ad ogni mano, non fiore

che scesa la stagione

muore. Con ignavia

invecchia l’immagine

che incontri allo specchio.

Non ti saranno di conforto i versi

perché non gettano seme

i tuoi giorni.

Non puoi essere giusto

e saldo: vivi nell’errore.

 

 



(La rasoiata al castello è una figura del biliardo: la palla butta giù tutti i birilli, elegantemente, uno dopo l’altro, sfiorandoli appena.)

                

venerdì 20 giugno 2025

Umberto Fiori

 DI GUARDIA

 

Mi conoscono bene, hanno ragione:

io sono come un cane,

una di quelle bestie nere che dormono

intorno ai capannoni industriali

e se passi si avventano di colpo

sulla rete metallica

e più gli dici «Buono!» più si sgolano.

 

Adesso, chi li consola?

Finché non hai girato l’angolo

gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi.

Scoprono i denti, mordono

anche il filo spinato; ma sono gli occhi

che fanno più paura: sereni

e puri come quelli di un neonato

o di una statua.

 

Hanno imparato il compito: questo recinto,

tenerlo sgombro. Sia senso del dovere

o invece solo istinto, non ti commuove

almeno per un attimo

la scena che – loro – sempre, tutta la vita

li fa smaniare, li esalta

e li avvelena?

 

Io, per me, lo capisco

meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,

questo discorso.

La riconosco bene la voce

fanatica, che sbraita per difendere

– così, alla cieca, per pura gelosia –

l’angolo dove l’hanno incatenata.

 

Tu non sai che cos’è, stare di guardia,

in ogni odore

sentire una minaccia

a quei tre metri di terreno,

urlare in faccia al mondo intero

fino a perdere il fiato, e non sapere

cosa c’è da salvare, a che cosa

veramente si tiene.

 

Da Poesie 1986 – 2014, Oscar Mondadori 2014

mercoledì 18 giugno 2025

Edoardo Ferri

 

DI TE VORREI CAMBIARE

Di te vorrei cambiare
quelle mani tormentate
ma il tempo mi ha insegnato
che sono anch’esse canto
del tuo corpo impaziente
e lieve come la parola
preziosa delle tue caviglie.

(inedita)

lunedì 16 giugno 2025

Edoardo Ferri

 

SEI LUCIDA FOGLIA

     per Elena

Sei lucida foglia di magnolia
granello di sabbia in un libro
barbaglio di sole che scuote il buio;
sei goccia di pioggia nella nuvola
acqua rilucente fra i coralli
luce sopra la città che dorme;
sei polvere nell’inquietudine dell’aria
razzo acceso nell’incanto del cosmo
luna rossa nel pieno di un black out;

sei questo e tutti i mondi insieme
nello spazio aperto della mente
corpo prensile e segreto respiro.

(inedita)

venerdì 13 giugno 2025

Mauro Ferrari

 NOTIZIE DA ITACA


Dicono sia sempre stato qui, fingendo
anche a se stesso assedi senza fine,
mostri e ritorni; forse persino isole beate,
lussurie di fanciulle e dee;
per non avere ricordanze,
non temer rimpianti – qui,
nascosto in una piega della Storia
mentre Penelope s’imputtaniva,
Telemaco impazziva lentamente
e il cane stesso, Argo l’amato,
lo dimenticava; a impolverarsi
con gli anni, ad osservare
il male che riempiva gli otri
finché non fosse colma la misura,
sempre più atroci vendette
meditando con accidia calcolata.
E un giorno dicono riapparve
culla soglia brandendo l’arco e
fallendo la prova delle scuri;
uscendo di scena fra i lazzi dei servi,
dei proci, di Penelope e Telemaco
bofonchiando di versi immortali a venire.

 

 

Da Il bene della vista, Joker, 2006

mercoledì 11 giugno 2025

Mauro Ferrari

 

LE GIOVANI BAGNANTI IN FIORE

Bisbigliano al Lete le fanciulle
affanni e gioie, sciacquando panni
sotto l’occhio di un Ulisse
salvo e moribondo,
giocano i loro anni luminosi:
ma su che pietra sarà incisa
la cortesia di corpi che si danno
nella luce pura; chi scriverà
la gioia destinata al vento
commovente fra le parentesi
di un tempo numinoso
in cui gli eroi giungono ancora
da tempeste e incendi, la loro storia
un urlo da ascoltare
ancora incomprensibile, distante?

Ovunque tu piazzassi l’asse,
con qualunque cura umana la ponessi
in equilibrio, calerebbe come scure
sul sorriso a questi lieti e spensierati
grumi che si bagnano
scherzosi del futuro immemori.


Da Il bene della vista, Joker, 2006

lunedì 9 giugno 2025

Luigi Fenga

 PREGHIERA


Corpo brutto grazioso, orribile incantevole,
tu, l’esistente, l’unico, il senza nome
(mentre
il piacere mi assale, onda gigante, a farmi
gli occhi persi, e abbattuto mi impiomba),
in questo letto di rose d’ortiche, che lunghe
ore vuote che silenzi che bianco, senza il tuo
caro peso
(la notte lancia in volo farfalle morte,
l’aurora sparge spoglie violette, dalla finestra
penetra un fiato spento),
e questa sera come
sei già violato, come sei già goduto, prima
che in te io mi consumi per quel lampo,
mio corpo appassito, sfatto accidioso olio,
come sei gatto fermo immobile di cotone
(o le mie mani ti hanno svuotato e sei gonfio
del mio sconforto, o per me già si spalanca
il ritorno alla grotta)
davanti a lei che aspetta,
ignuda luna, laghi azzurri di pupille,
stelle rosa dei seni,
mio corpo, tu che hai
fonde radici in terra, rami in cielo, e tutto
sei, gioia lutto, dai e sottrai amore, mio
condannato, non condannarmi,
(questa
sera guardo là dove di me sta in ansia
la più leggera delle mie parti vive,
la silenziosa che si scioglie, l’anima)
ascolta, te lo chiedo da questo poco fuoco,
fammi rientrare in te, corpo brutto grazioso,
orribile incantevole, l’unico, l’esistente,
finché non esista l’Altro, l’ignoto, l’elefante
che carezza, la tigre che ride nel bosco d’oro.



venerdì 6 giugno 2025

Luigi Fenga

 PIAZZA DELLA VITTORIA



Giù per la scalinata,
di sera, era settembre,
il sole spogliava di luce le aiole dell’esedra,
tu ricordavi i versi del triste Mimnermo
“noi siamo come le foglie che la fiorita
stagione di primavera genera”,
ma che gioia
la tua gonna al vento, che fiori rossi
mentre le nubi correvano verso la notte,
frusciavano nei tuoi occhi petali freschi, 
io ero pieno di colori, avrei voluto cielo
più cielo per gridare,
che importa se i versi
di Mimnermo sono veri, se qui, se ora
sono felice come se la vita degli uomini
durasse per sempre, in eterno,
ma quanti
anni fa, o l’anno scorso, o mai, noi giù
per la scalinata, di sera, nel sole che muore.


da Le amorose fiamme, S. Marco dei Giustiniani, Genova, 1999

mercoledì 4 giugno 2025

Luigi Fenga

 

TESTAMENTO

 

Io, Giuliano, l’imperatore, avvolto

dalle sabbie di Persia, sotto cieli

di fuoco, vedo incombere la notte

sul mondo che si inchina al nuovo dio

degli eserciti, io, l’ultimo filosofo

con gli occhi fissi al sole, cieco agli occhi

di quei ciechi che cercano il riscatto

fra le ombre, io disperdo nei millenni

l’impero senza fine e all’avvenire

restituisco il carro ed i cavalli

mentre attendo la freccia che tormenta

Zenone il saggio e penso agli imminenti

secoli bui, io, già di pietra, immobile,

in questo tempo supremo, nell’ora

in cui morendo snebbiano i misteri.

 

 

Da Molti dei, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 1987

 

lunedì 2 giugno 2025

Luigi Fenga

 

LETTERA

 

Se nel ventre scenderai
della città infinita,
procurati la confidenza
di qualcuno di quelli
che chiamano cristiani,
guardalo intenso negli occhi
stupiscilo di gioia.
Mi dicono che è gente
indifferente alla vita,
che le muse disprezza
e a un luminoso marmo
che ci raffiguri per sempre
preferisce la notte
inestinguibile dei sensi.
Gente è ancora, mi dicono,
che come folle attende
un di là in cui guariti
del male di esistere,
in estasi si contempli
la maestà di un iddio
unico, solo. E immenso
lo disegnano, mentre
con gesto ignoto l'aria
divide o scaccia la luce,
minaccia o forse accarezza.
È difficile capire per noi
che non siamo sottili
ma dominiamo il mondo.

 

da Molti dei, S. Marco dei Giustiniani, Genova, 1983