Bruna Giacomi, romana, è stata segretaria di redazione della rivista «Arsenale», dalla fondazione e per tutta la sua durata. Là, sul n. 2, nell’ormai lontano 1985, pubblicò alcune poesie (qualcun’altra era uscita su «Materia»). Sono le sue uniche pubblicazioni che io ricordi. Non vanta libri. Le poesie che seguono sono di quegli anni Ottanta. Non so nemmeno se, da allora, Bruna Giacomi ne abbia scritte altre. Leggendo: “Non presto più / attenzione alle gelide / luci improvvise dei versi / regalati dal caso / nel corso del tempo”, si direbbe di no, ma io credo il contrario, anche se sono quasi certo che nessuno le abbia lette.
Di quest’essenziale canzoniere cosa dire? Subito
questo: a me non dispiace che parli d’amore, e né mi pare che ne parli troppo,
come sembra rimproverarla l’amico al quale è dedicata l’ultima, bellissima
poesia. Se comunque è l’amore, “per quanto sia, per un’idea, / per il cane, il
padre, per / l’altro – da sé”, che ci uccide, come si fa a non parlarne e
scriverne? La differenza la fanno il ritmo, la lingua, la parola. Il verso di
Bruna Giacomi è misurato sul respiro, mimetico nel ritmo, spezzato talvolta dall’ansia
e, di più, dall’affanno: lungo o breve che sia, a volte di una sola ma
esemplare parola (altre, più rare volte si esemplifica in misure tradizionali,
come in questo splendido endecasillabo: “non ti saranno di conforto i versi”),
è comunque accortamente disposto a significare le emozioni o gli scarti del
cuore. Il vocabolario non è quasi mai banale; è, invece, vario, spesso ricco,
anche prezioso (ma non pretenzioso). S’intuisce che ogni poesia, alla lettura
così semplice e spontanea, nasconde un tormentato lavoro di cesello, cela
ripensamenti e varianti: un lavoro, insomma, tutto teso alla ricerca di un
senso sempre più trasparente, sempre più incisivo (si confronti, qui, la prima
poesia con la sua variante più in basso: di alcuni versi cambia il movimento,
che si fa più svelto, più fluido, e spariscono “le mascelle aguzze e veloci”
dei ricordi, sostituite dall’aggettivo “maledetti”, che se forse impoverisce
l’immagine, la rende però più diretta e, infine, più convincente).
RASOIATA AL CASTELLO (I)
*
Non
le timide tortore, ma petulanti
passeri,
non più i tuoi occhi
ma
altri mi sorvegliano addormentata,
questa
mattina.
Così,
mentre braccia perfette
mi
stringono in incerto
possesso,
le mascelle aguzze e
veloci
dei ricordi rosicchiano
quest’alba
che
schiara
la stanza e il letto.
Vieste
Benché
oggi ogni pensiero mi punga
un
quieto crepuscolo cede alla notte.
In
quest’ora impassibile, mentre
balestrucci
bruni si svolgono in
facili
correnti, sono vinta
dal
consueto affanno.
*
Non
so quale corrente
rimandi
la calma onda.
L’umido
bosco nasconde
radici
scoperte, ferite come
il
silenzio che c’intreccia.
Tutto
è sospeso.
Anche
la pioggia esita
a
sorprenderci, noi
animali
ben attenti a non
abbassare
la guardia.
*
La
gioia, il dramma, la noia
di
questo vivere assunto
a
vizio necessario e inutile;
forse
non c’è più motivo
di
raccontarci ma lascia,
per
questa notte, alla tua cupa
regina
l’apparenza del
sonno,
il giusto riposo:
i
sogni, gl’incubi persino
conservali
per noi.
*
Ti
sapevi eterno, lucido
sempreverde
che resiste
ad
ogni mano, non fiore
che
scesa la stagione
muore.
Con ignavia
invecchia
l’immagine
che
incontri allo specchio.
Non
ti saranno di conforto i versi
perché
non gettano seme
i
tuoi giorni.
Non
puoi essere giusto
e
saldo: vivi nell’errore.
(La rasoiata
al castello è una figura del biliardo: la palla butta giù tutti i birilli,
elegantemente, uno dopo l’altro, sfiorandoli appena.)
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