venerdì 27 giugno 2025

Bruna Giacomi

 

Bruna Giacomi, romana, è stata segretaria di redazione della rivista «Arsenale», dalla fondazione e per tutta la sua durata. Là, sul n. 2, nell’ormai lontano 1985, pubblicò alcune poesie (qualcun’altra era uscita su «Materia»). Sono le sue uniche pubblicazioni che io ricordi. Non vanta libri. Le poesie che seguono sono di quegli anni Ottanta. Non so nemmeno se, da allora, Bruna Giacomi ne abbia scritte altre. Leggendo:  “Non presto più / attenzione alle gelide / luci improvvise dei versi / regalati dal caso / nel corso del tempo”, si direbbe di no, ma io credo il contrario, anche se sono quasi certo che nessuno le abbia lette. 

Di quest’essenziale canzoniere cosa dire? Subito questo: a me non dispiace che parli d’amore, e né mi pare che ne parli troppo, come sembra rimproverarla l’amico al quale è dedicata l’ultima, bellissima poesia. Se comunque è l’amore, “per quanto sia, per un’idea, / per il cane, il padre, per / l’altro – da sé”, che ci uccide, come si fa a non parlarne e scriverne? La differenza la fanno il ritmo, la lingua, la parola. Il verso di Bruna Giacomi è misurato sul respiro, mimetico nel ritmo, spezzato talvolta dall’ansia e, di più, dall’affanno: lungo o breve che sia, a volte di una sola ma esemplare parola (altre, più rare volte si esemplifica in misure tradizionali, come in questo splendido endecasillabo: “non ti saranno di conforto i versi”), è comunque accortamente disposto a significare le emozioni o gli scarti del cuore. Il vocabolario non è quasi mai banale; è, invece, vario, spesso ricco, anche prezioso (ma non pretenzioso). S’intuisce che ogni poesia, alla lettura così semplice e spontanea, nasconde un tormentato lavoro di cesello, cela ripensamenti e varianti: un lavoro, insomma, tutto teso alla ricerca di un senso sempre più trasparente, sempre più incisivo (si confronti, qui, la prima poesia con la sua variante più in basso: di alcuni versi cambia il movimento, che si fa più svelto, più fluido, e spariscono “le mascelle aguzze e veloci” dei ricordi, sostituite dall’aggettivo “maledetti”, che se forse impoverisce l’immagine, la rende però più diretta e, infine, più convincente).


 RASOIATA AL CASTELLO  (III)


AL MONTE ARGENTARIO, AI TUOI VERSI

 

È libera ancora

la strada dell’upupa tra cisto

e liscia santolina, il mare

intenso dopo la pioggia. Una gatta

placida e domestica m’accompagna

al vento.

 

S’è mutato il cuore oppure è per

l’età che riposano i fianchi

sfatti

da baci immotivati, è l’età che

fiacca

il piacere della battaglia?

 

Se solo all’alto fuoco

bruciassimo, lame dure, preziose

bilance del tempo saremmo ma ogni

tepore ci ha scaldati e

non è più teso l’arco

al braccio.

 

 

 

A ONEGLIA CHE SI DICE SIA PAZZA

 

Grigi celesti l’abito, l’occhio,

il luogo. Arenata in un’età

assente, espansa negli anni

inghiottendo impure parole

d’amore mai detto e cibo

mal curato – quasi bevve

le paste, il solito dono –.

 

Sia solo tuo

il fardello – amore che sbanca,

fa male –, l’affanno:

preda impazzita del piccolo

perfido Eros. A che

la fatica diversa dello studio, se

schivi lo sguardo, se sei già

promesso?

 

Fa caldo

nel cicalare d’estate, so

anch’io quel caldo pazzo, fermo dai venti

che superate facili

montagne sono fuggiti

al mare, lasciando una pianura

che suda, cresce

intanto il grano.

 

Gli occhi,

loro che sempre nascono al cuore,

incontri taglienti di desiderio,

lungo la strada larga, nelle

corti, senza lanciarsi parole ma

solo scherzi, nel lavoro

ostinato d’estirpare gramigne

dai campi e dal petto.

 

Perché non correre, urlare,

perché non dare fuoco alle messi?

 

 

 

RASOIATA AL CASTELLO

 

                                                                  a Sandro, amico

 

Finalmente il caldo e

l’estate, giunta anche quest’anno

in ritardo, dopo un inverno riluttante

e una primavera beffarda con piovaschi

improvvisi e insufficienti alla lunga

siccità e al cuore.

 

È questa la stagione

che misura il mio tempo: nelle strette

ore di tregua ricordo sempre – e

non c’è scampo

sempre – le mie estati anoressiche di scolara,

lunghe e chiarissime di tigli,

quando speravo che il

dolore – crescendo – sarebbe scomparso.

Invece s’affina.

 

Poi quanto poco ne

sfumi, nelle ultime

sere, al fuoco

di stoppie nei campi

potresti saperlo bruciando

anche le ore domate una

con l’altra in una stagione folle

per assenza d’amore.

 

Dici che parlo troppo

d’amore, ma se è

questo che ci ha uccisi:

amore

per quanto sia, per un’idea,

per il cane, il padre, per

l’altro – da sé.

 

E non contano i baci, né

il mio corpo sottomesso a un

altro, se d’amore non parlo.

Ci si tace.

E tutto ci ferisce

nonostante ben lucida sia

la corazza, guerrieri sconfitti

da una netta rasoiata al castello.

 

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