venerdì 25 dicembre 2015

Kenneth Rexroth

IL TEMPO È LA PIETÀ DELL’ETERNO

Il tempo è diviso in
secondi minuti ore anni
e secoli. Prendi uno
solo di essi e aggiungici
ciò che contiene al mondo.
Ogni divisione contiene
quasi lo stesso di un’altra.
Cosa puoi dire in una poesia?
Passati i quaranta, hai detto tutto.
La nera quercia nana spunta
dalla roccia ai miei piedi.
Forse ha duecento anni,
ma il fusto non è più grosso
del mio polso, la cima non
m’arriva alla spalla. Alle sue
spalle il sole del tardo pomeriggio
ne inonda di luce le foglie come
un albero di gemme, come l’albero
magico dei gioielli nelle storie
orientali. La roccia sotto di essa
cade a strapiombo per cinque-
cento piedi, fino a un pino solitario,
carbonizzato; poi per altri mille
fino ad un fiume in piena,
tumultuoso. Oltre quello, si stende
lo spazio baluginante; volute di colline
boscose offuscantisi pian piano;
poi, quasi invisibili nella
calura pulsante, le terre
basse della San Joaquin Valley
ribollente di vita e fastidi.
Le nuove foglie verde pallido scintillano
nell’aria tremolante. Nerazzurra,
cresta e becco appuntiti, una ghiandaia
si posa per un attimo in mezzo
ad esse poi si tuffa, giù,
attraverso l’afoso pomeriggio di giugno.
Lontano, la città si contorce
bruciando in un fuoco di trascendenza
e merci. Le viscere
degli uomini si torcono tra i poli
di antitesi insensate.
La santità del reale
è sempre là, accessibile
in totale immanenza. I nodi
della trascendenza si aggrumano
in te che esperimenti
ed in colui che ama.
Quando le prime gemme
spuntano sui meli e la luna
primaverile nuota in smisurati
chiari abissi di luce palpabile,
io mi siedo vicino alla cascata.
I gufi si chiamano l’un
l’altro all’infinito
nella notte calda.
Nere rocce bagnate brillano debolmente.
Di vita umida odora il muschio riccio.
La cascata è una fune
di musica, una serpe maculata
di bianco e nero nella foresta
lunare. Le cosce della dea
mi stringono. La luna sale tra
i dirupi dei monti e una nube di luce
si diffonde intorno a me, come
un profumo risplendente. Quando poi
la luna se ne va e torno a sentire
i gufi rumorosi, m’inginocchio a bere
la dolce acqua dei vortici freddi.

Tutto il giorno sul canyon s’accumulano nubi.
A mezzogiorno le alte cime sono scomparse.
Il tuono brontola in lontananza.
D’improvviso il canyon sparisce.
Sulla stretta sporgenza, il campeggio
è isolato in un turbine di nebbia.
Anche i pini più prossimi diventano indistinti,
perduti nel grigiore.
Una folgore gialla erompe, fuoco tra
fumo, e infiamma la nebbia.
Il tuono esplode ai miei piedi.
Sibilando, la pioggia si riversa fra
gli aghi di pino. Tra i rossi tronchi
cadono chicchi bianchi di grandine.
Picchiettano sulla tenda. Ne raccolgo
qualcuno e lo guardo sciogliersi sul palmo
della mano. Gli uccelli, come fa sera,
arruffano le penne e volano cauti
di ramo in ramo, cantando
poche note; nel crepuscolo arancione
verdi e rade gocce di pioggia cadono.

Le nuvole per tre giorni si sono ammassate.
E la pioggia ha accerchiato le montagne.
Fra non molto cadrà sul
Black Rock Pass, traverserà
i Kaweahs rossi e poi
la bianca Whitney Range. Ma
qui al lago non cade
e l’afa diventa opprimente.
Nuoto con indolenza. L’acqua
stessa sembra più pesante.
L’aria è piena di zanzare.
Dopo un pranzo svogliato mi siedo
a riva a leggere le sagge poesie
di Charles Cros. All’improvviso
s’alza il vento. La tenda sbatte rumorosa.
Polvere e rami, aghi di pino volano
in ogni dove. Poi il vento
cade e scende la pioggia sul lago.
Sulle onde brevi, le gocce tintinnano
come le campanelle a vento giapponesi
che mi piacevano tanto da ragazzo.
Dopo un’ora la pioggia è finita.
Nella chiara frescura della sera,
dal prato a un miglio di distanza,
odo la campana del somaro.
Gridandomi sulla testa, i caprimulghi
si tuffano: virando le ali vibrano.
Un cervo scende fino all’acqua.
Gli alti passi sono chiusi dalla neve.
Sono la prima persona in questa stagione.
Non c’è nessun altro. Solo io
in mezzo a centinaia di montagne.

Le cinque, nella sera di mezz’agosto:
la lunga luce solare si dora
sull’erba verdecupo e fiori
rossi rilucono sul prato.
Mi fermo dove un meandro
del ruscello fa una pozza profonda.
L’acqua è di un verde scuro,
però perfettamente trasparente.
Una piccola nube, non più grande
della mia testa, con centinaia
di moscerini, si libra densa in alto.
Sulla riva, due piccoli ranocchi.
Nell’acqua, scarafaggi,
idre, cimici d’acqua, le larve
di vari insetti. In superficie
nuotano le notonette.
Capisco che il colore
stesso dell’acqua è dovuto
a milioni di verdi macchie
attive di vita. È come se
scrutando una macchia d’inchiostro
si scoprisse di fissare
la Via Lattea.
Il profondo riverbero
del mio essere con tutta
questa pienezza di vita
mi lascia scosso e stordito.
Attraverso lentamente
il prato mentre i cervi alzano il capo
e mi osservano indolenti.

Sull’altopiano, qui dove
non viene mai nessuno, vicino
a questo lago di monti specchiati,
ore giorni e settimane
trascorrono senza un mutamento.
Anche i rari temporali passano
per scaricarsi sui picchi.
Nell’acqua non ci sono pesci.
Orsi e cervi, nei boschi, sono pochi.
Solo l’azzurra damigella
vola lucente sul canneto
tutto il giorno, e su in alto la sera
i caprimulghi. Sospeso
nell’aria acqua tempo
più trasparenti, io
assumo una specie d’essenza
cristallina. In questo traslucido
e immenso qui ed ora, se mai,
dovrebbe essere visibile la forma
della persona, la sua geometria
e cristallografia, la sua
astronomia. Il bene
e il male della mia vicenda
trascorrono. Li riconosco
e so valutarli. Se ne vanno
per primi, insieme a tutti
gli altri fatti personali,
sensazioni e desideri.
Alla fine non resta che
la conoscenza, anch’essa
un vasto cristallo che racchiude
l’infinito cristallo d’aria acqua
roccia. Ambedue i cristalli
sono perfettamente
silenziosi. Di loro non c’è niente
da dire. Proprio niente.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da The Complete Poems of Kenneth Rexroth, Copper Canyon Press, 2003



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