PARIDE E ELENA
(Iliade, III)
Non riesco ancora
a credere a quel che accadde: un prodigio.
Vidi la morte in
faccia, in quegli occhi terribili. M’aveva
atterrato di colpo
e steso al suolo ero alla sua mercè,
impaurito,
aspettando che il bronzo della lancia
m’affondasse nel
collo. Mi vidi perso e credetti arrivata
l’ora in cui sarei
morto come un cane davanti
al grande Menelao,
l’implacabile atride. Ma ebbi invece
la fortuna incredibile
che in quell’ultimo istante
pietosa accorse a
salvarmi Afrodite. La dea dal dolce
sorriso avvolse il
mio corpo con un’oscura nebbia
in modo da evitare
che quell’uomo funesto scaricasse
addosso a me la
sua furia omicida. Sulle braccia
protettive mi
trasse per l’aria fino a Troia,
la mia città, e
lì, dolcemente, mi depose sul soffice
letto, fresco al
fianco di Elena. Nella battaglia d’amore
subito
s’impegnarono i nostri corpi e come allora mai,
lo giuro, il
desiderio accese in noi un fuoco tanto vivo.
Mentre qui
giaccio, i guerrieri troiani
proseguono
instancabili la lotta senza fine con gli achei;
il fragore delle
armi ne ascolto e le orribili grida
degli uomini
morenti. Sembra eterna la guerra.
Dura già da nove
anni; ebbe, lo sanno tutti, la sua origine
in fatti che riguardano
proprio me: il rapimento
che un giorno io
tramai di Elena, la più bella,
l’amatissima
moglie di Menelao di Sparta.
Non lo nego,
tradii il monarca magnanimo e clemente
e che con grandi
onori m’aveva accolto a corte.
No, non seppi né
volli negarmi al fascino indicibile
della giovane
sposa. Fu tutt’uno il vederla e l’arrendermi
ai suoi occhi, che
subito impararono a guardarsi
nei miei con il
mio stesso abbandono. È così
sempre: l’amore
non tarda a possedere chi vuole servirlo.
Poi, la fuga.
Giungemmo, dopo un viaggio difficile,
alla ben costruita
città del padre mio, Priamo il re,
la bellissima
Troia e di lì a poco ebbe inizio
questa guerra
cruenta, perché io non accettai
che Elena tornasse
in patria, come i nobili achei
pretendevano,
giunti fin qui a riscattarla
con gli eserciti. Con
ciò m’attirai non solo l’odio
e il disprezzo dei
popoli riuniti d’Acaia,
ma anche la
ripugnanza degli stessi troiani;
che, sebbene al
momento, come me, conquistati
da Elena, s’opposero
tutti, ostinati, con fermezza
maggiore della
mia, a lasciarla partire con i suoi,
vedono in me la
causa del dolore e dei mali
atroci provocati
dalla guerra. Pensano tutti che
sono solo un
codardo, un presuntuoso seduttore,
che si spaventa a
battersi come un uomo, capace
solo alle battaglie
amorose con le donne.
Non tutto quel che
dicono di me è vero, ma certo
non sono qualità di
guerriero che prevalgono in me.
So che Ilio dovrà
essere distrutta: le sue mura
e le torri
cadranno; case e palazzi saccheggiati
e fino all’ultimo incendiati.
Impietose, le Parche
meditano a ogni
troiano una morte spaventosa.
Non era in mio
potere impedire che il popolo soffrisse,
con eroica
fermezza, disgrazie come queste.
Non sono io il
colpevole, sebbene gli uni e gli altri
lo credano. Non
gli uomini decidono del loro
destino; solo gli
dèi eterni e capricciosi stabiliscono il corso
della nostra
esistenza. E Afrodite, la dèa di belle forme,
dispose, per me ed
Elena, fin dalla prima volta
che ci vedemmo a Sparta,
che sfolgorasse in noi
l’amore che ci
fece creature luminose, estranee a tutto
che non fosse
l’affanno e la fatica dolce di amarsi.
No, io lo so, non
è nostra la colpa; che tramarono
i cieli quest’amore
e questa guerra.
Ancora s’ode
lo strepito
orribile degli uomini che senza tregua combattono
nell’immensa
pianura innanzi a Troia. Nel letto,
al mio fianco c’è
Elena. S’è appena addormentata.
Dopo l’amore, il
sonno s’è posato sui suoi occhi. Ora devo
vestire ancora le
armi per tornare in battaglia. Là mi aspettano.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da La vida, Tusquets, 1996
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