RIMBAUD A L'AQUILA
Ancora un’inutile bella giornata, pensò avvicinandosi alla finestra.
La città non sembrava ferita,
l’aria fresca le dava un aspetto sereno
e i tubolari che dal terremoto sorreggevano il Centro
scintillavano al sole.
Eppure, è un’agonia, pensò.
Ma non seppe se fosse a sé che si riferiva, o alla città.
In fondo né la sua vita né quella della città si
risolvevano,
si sarebbero mai risollevate.
Come nel più convenzionale racconto romantico,
si disse volgendosi a guardare verso l’interno della
stanza,
con il grande letto solitario,
sfatto solo e sempre dalla sua parte.
Difatti, chi lo divide più con me? si chiese.
Sì, come in un brutto racconto.
Anzi, come in uno di quei fotoromanzi a puntate
che sua madre leggeva su un settimanale. “Grand-Hotel”,
mi pare si chiamasse, pensò. Chissà se esiste ancora.
«Ho steso corde da campanile a campanile,
ghirlande da finestra a finestra» ricordò d’avere letto
una volta in un fotoromanzo, parole che un uomo
sussurrava a una donna, entrambi nudi sul letto s’intuiva,
toccandole i capezzoli scuri facendola ansimare.
«Catene d’oro da stella a stella» le diceva «e danzo».
Per mesi aveva cercato
il libro e il poema dal quale quei versi erano tratti: Rimbaud,
le sue Illuminazioni. Che non conosceva.
Fili d’oro – pensò – come quello che ora pende
dai tralicci dell’alta tensione e si allunga fino al
ponte
dell’autostrada: un inganno del sole.
L’ennesima bella giornata, noiosa e senza senso,
ecco cosa l’aspettava.
Perché era inquieto, allora?
Perché quell’ansia smaniosa che lo prendeva appena
sveglio?
E che a volte passava, durante la giornata, e spesso no?
Ma neanche quella mattina avrebbe trovato una risposta.
Si risolse a fare la doccia, si fece la barba,
e, mentre si vestiva, il caffè.
Ne bevve una tazzina e uscì di casa.
Come ogni mattina, scese a piedi i cinque piani e
s’incamminò.
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