da CANTO LXXXI
[ . . . ]
Ciò che sai amare rimane
il resto è scoria
Ciò che tu sai amare non sarà strappato da te
Ciò che tu sai amare è il tuo vero retaggio
Il mondo, quale? Il mio, il loro
o di nessuno?
Prima venne la vista, poi diventò palpabile
Eliso, fosse
pure in quell’antro d’inferno,
Ciò che tu sai amare è il tuo vero retaggio
Ciò che tu si amare non ti sarà strappato
La formica è centauro nel suo mondo di draghi.
Deponi la tua vanità, non è l’uomo
che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia,
Deponi la tua
vanità, dico, deponila!
La natura t’insegni quale posto ti spetta
Per gradi d’invenzione o di vera maestria,
Deponi la tua vanità,
Paquin,
deponila!
Il casco verde tua eleganza offusca.
«Padroneggia te stesso, e gli altri ti sopporteranno»
Deponi la tua
vanità
Sei cane bastonato sotto la grandine
Tronfia gazza nel sole delirante,
Mezzo nero mezzo bianco
tu non distingui fra ala e coda
Giù la tua vanità
Spregevole è il tuo odio
Che si nutre di falso,
Deponi
la tua vanità,
Sollecito a distruggere, avaro in carità,
Deponi la tua vanità,
Dico, deponila!
Ma avere fatto piuttosto che non fare
questa non è vanità
Aver bussato, discretamente,
Perché un Blunt ti apra
Avere colto
dall’aria una tradizione viva
o da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma
Questa non è vanità.
L’errore sta
tutto nel non fatto,
sta nella diffidenza che tentenna…
Traduzione di Mary de Rachewiltz
da I Cantos, Meridiani Mondadori, 1985
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