Ci
sono libri nei quali ci si perde, nei quali si entra per perdersi, perché non
si vuole più uscirne. Sono quelli che indagano l’anima o il mistero di sé.
Di ognuno di questi libri offro solo l’incipit, ovvero il primo, o i primi paragrafi; di qualcuno, l’ultimo o gli ultimi, ovvero l’explicit. Spero, per voi che leggerete, che servano d’invito a perdervi in essi.
Venni
a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava
qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo
quando lei fosse morta. Le avevo stretto l mani per farle capire che l’avrei
fatto; lei era pronta a morire e io a prometterle qualsiasi cosa. «Non mancare
di fargli visita, – mi raccomandò. – Si
chiama così e cosà. Sono sicura che gli farà piacere conoscerti». Per cui non
potei far altra cosa che dirle che l’avrei fatto, glielo assicurai e continuai
a dirglielo anche dopo che alle mie mani costò fatica liberarsi dalle sue mani
morte.
Ancora
prima mi aveva detto:
–
Non chiedergli nulla. Pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a
darmi e che non mi diede mai… Figlio mio, fagli pagare caro l’oblio in cui ci
ha lasciati.
–
Lo farò, madre.
Ma
non pensai a mantenere la promessa. Fino a ora, quando cominciai a sognare, a
far volare le illusioni. E in questo modo prese forma un mondo intorno
all’aspettativa rappresentata da quel signore chiamato Pedro Páramo, il marito
di mia madre. Per questo venni a Comala.
Traduzione di Paolo Collo
da Pedro Pàramo, Einaudi 2004
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