lunedì 23 ottobre 2023

Juan Rulfo

Ci sono libri nei quali ci si perde, nei quali si entra per perdersi, perché non si vuole più uscirne. Sono quelli che indagano l’anima o il mistero di sé. 

Di ognuno di questi libri offro solo l’incipit, ovvero il primo, o i primi paragrafi; di qualcuno, l’ultimo o gli ultimi, ovvero l’explicit. Spero, per voi che leggerete, che servano d’invito a perdervi in essi.

Posso citarne molti (ovvero, posso citare alcuni di quelli nei quali mi sono perso io, perché forse ognuno ha i suoi), a cominciare dal più enigmatico di tutti, il Pedro Páramo di Juan Rulfo.


PEDRO PÁRAMO
 

Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta. Le avevo stretto l mani per farle capire che l’avrei fatto; lei era pronta a morire e io a prometterle qualsiasi cosa. «Non mancare di fargli visita, – mi  raccomandò. – Si chiama così e cosà. Sono sicura che gli farà piacere conoscerti». Per cui non potei far altra cosa che dirle che l’avrei fatto, glielo assicurai e continuai a dirglielo anche dopo che alle mie mani costò fatica liberarsi dalle sue mani morte.

Ancora prima mi aveva detto:

– Non chiedergli nulla. Pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a darmi e che non mi diede mai… Figlio mio, fagli pagare caro l’oblio in cui ci ha lasciati.

– Lo farò, madre.

Ma non pensai a mantenere la promessa. Fino a ora, quando cominciai a sognare, a far volare le illusioni. E in questo modo prese forma un mondo intorno all’aspettativa rappresentata da quel signore chiamato Pedro Páramo, il marito di mia madre. Per questo venni a Comala.


Traduzione di Paolo Collo

da Pedro Pàramo, Einaudi 2004




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