Ci sono libri nei quali ci si perde, nei quali si entra per perdersi, perché non si vuole più uscirne. Sono quelli che indagano l’anima o il mistero di sé.
Di ognuno di questi libri offro solo l’incipit, ovvero il primo, o i primi paragrafi; di qualcuno, l’ultimo o gli ultimi, ovvero l’explicit. Spero, per voi che leggerete, che servano d’invito a perdervi in essi.
Due
catene di montagne tagliano la repubblica approssimativamente da nord a sud,
formando tra loro tutta una serie di vallate e di altipiani. Sovrastando una di
queste valli, che è dominata da due vulcani, sorge, a duemila metri sul livello
del mare, la città di Quauhnahuac. Si situa a sud del Tropico del Candro,
esattamente sul diciannovesimo parallelo, alla stessa latitudine circa delle
Isole Revillagigedo, a ovest nel Pacifico, o, molto più a ovest, dell’estrema
punta meridionale della Hawaii – o anche alla stessa latitudine del porto di
Tzucox, a est, sulla costa atlantica dello Yucatan presso il confine
dell’Honduras britannico, o, molto più a est, della città di Jaggernaut, in
India, sul Golfo del Bengala.
[…]
Oh, Yvonne, tesoro mio, perdonami! Mani
robuste lo sollevarono. Aprendo gli occhi, egli guardò giù, aspettandosi di
vedere, sotto di sé, la giungla magnifica, le montagne, Pico de Orizabe,
Malinche, Cofre de Perote, come quei picchi della sua vita conquistati l’uno
dopo l’altro, prima che la più grande di tutte le sue ascensioni, questa, fosse
felicemente, se pur non del tutto secondo le regole, terminata. Ma non c’era
nulla, qui: niente picchi, niente vita, niente ascensioni. Né questa sommità
era esattamente una sommità: non aveva sostanza, non solide basi. Essa pure
crollava, qualunque cosa fosse, si sbriciolava, mentre egli precipitava,
precipitava nel vulcano, che doveva aver scalato, dopo tutto, sebbene ora
avesse nelle orecchie quel rumore di lava che trabocca, orribilmente, era in
eruzione, ma no, non era il vulcano, era il mondo stesso che stava esplodendo,
che esplodeva in neri grumi di villaggi catapultati nello spazio, e lui che
cadeva in mezzo a tutto ciò, nell’incredibile pandemonio di un milione di carri
corazzati, nel bagliore di dieci milioni di corpi fiammeggianti, cadeva entro
una foresta, cadeva…
A un tratto egli urlò e fu come se
quell’urlo rimbalzasse lanciato da un albero all’altro, come se la sua eco
ritornasse, poi, come se gli stessi alberi si avvicinassero, lo stringessero da
presso, serrati gli uni agli altri, chinandosi su di lui, pietosi…
Qualcuno gli scagliò dietro un cane morto,
nel burrone.
Traduzione
di Giorgio Monicelli
Da
Sotto il vulcano, Feltrinelli, 1966
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